Un ateo tra i cristiani

 


intervista a Alfred Grosser, a cura di Jérôme Anciberro

 

Politologo, specialista delle relazioni internazionali e commentatore dell’attualità politica francese e tedesca, Alfred Grosser è stato una delle colonne del riavvicinamento franco-tedesco fin  dagli anni cinquanta. Questo osservatore è anche conosciuto negli ambienti cristiani per il suo sguardo insieme critico e amichevole di ateo sul mondo della fede.

 

Lei non è né tedesco né cattolico, eppure spesso capita che la prendano per l’uno o per l’altro. Come vive questo paradosso?
È un paradosso reale. Ma anche se non faccio parte né della comunità tedesca, né di quella cattolica, mi sento partecipe della vita, delle speranze e delle delusioni degli uni e degli altri. Se parlo con un uomo politico tedesco appartenente ad una generazione un po’ anziana, lui dimentica in capo a cinque minuti che non sono tedesco. Abbiamo gli stessi punti di riferimento. Succede la stessa cosa quando discuto con un prete cattolico. Parlo la lingua della “tribù”, sono al corrente di quello che succede nella Chiesa. Insomma, ho tutti i segni esteriori di un buon parrocchiano. Mi è del resto capitato di dover far rettificare degli articoli che mi definivano tale.

Si può capire che la prendano per un tedesco, perché è nato tedesco e, come formazione, è germanista. Ma come mai succede così per il cattolicesimo?
La mia famiglia è ebrea e io personalmente sono ateo: ateo e non agnostico. Quest’ultima parola mi sembra che abbia a che fare con la civetteria o con il politicamente corretto. Un po’ come si  diceva “israelita” per non dire “ebreo”. Ma io non credo in Dio, credo in moltissime cose… La mia conoscenza del cattolicesimo si è costruita attraverso delle letture, la mia attività di “compagno di strada” dell’Azione cattolica delle gioventù francese (ACJF), la mia collaborazione a La Croix dal 1955, le mie amicizie, ad esempio con il padre gesuita François Varillon. E quando mia moglie, cattolica per nascita, ha veramente iniziato una vita di fede negli anni settanta, anch’io ho seguito gli insegnamenti da lei ricevuti al Centre Sèvres, la facoltà dei gesuiti di Parigi. Si potrebbe dire  che sono stato “ingesuitato”…

Ma che cosa le dà la frequentazione dei cattolici?
Mi permette di parlare con delle persone che hanno una linea di vita, dei principi con i quali tentano di essere coerenti, anche se questo talvolta lascia a desiderare e anche se non sempre sono d’accordo. Ma, soprattutto, i cristiani pensano, riflettono e questo fa sempre bene. Del resto, anche se il cattolicesimo francese vive oggi una crisi istituzionale profonda, in particolare per il crollo del numero di praticanti e di vocazioni, rimane un luogo di grande vitalità intellettuale.

 

Certi critici affermano al contrario che questa vitalità intellettuale del cattolicesimo francese sia in declino da qualche decennio.
Penso sinceramente che questo giudizio sia sbagliato, ma forse ho cattive frequentazioni… Siamo seri: ci sono degli ambiti oggi in cui certi intellettuali cattolici non possono non essere presi in considerazione. Si può forse parlare seriamente di bioetica ignorando gli studi di Olivier de Dinechin? Capire i fondamenti teologici dell’opera di Bach senza gli studi del gesuita Philippe Charnu e di Christophe Theobold? L’intelligenza cattolica è lì! Quello che si potrebbe forse rimproverare al cattolicesimo francese e che contribuisce alla sua relativa scomparsa dal dibattito pubblico, è una tendenza esagerata alla sottomissione. All’esterno, la Chiesa – più dei laici – è spesso discreta, quando fa riferimento alla laicità che le dà il diritto di intervenire sulla scena pubblica. All’interno, si assiste ad episodi sorprendenti. L’atteggiamento di sottomissione di Mons. Ricard nel 2009 quando Roma gli ha imposto, nella sua diocesi, la costituzione dell’Istituto tradizionalista del Buon Pastore ne è una illustrazione evidente. Ma si tratta di un esempio in più della tendenza cattolica ad accettare tutto, quando si tratta di cose che vengono dalla parte identitaria e conservatrice.

 

Qui le rimprovereranno di occuparsi di cose che non la riguardano, dato che lei non fa veramente parte della famiglia.
Non vedo perché questo mi impedirebbe di analizzare i fatti. Ma è vero che se facilmente reagisco sul cattolicesimo, è perché mi sento coinvolto. Forse perché sono anch’io ferito quando vedo come le persone vicine a me, i miei amici cattolici vengono trattati. Indipendentemente dal fatto che la cosa venga dall’esterno o dall’interno. Sono il primo ad essere impressionato dagli attacchi, in particolare mediatici, che subisce la Chiesa, attacchi che sono nella maggior parte dei casi di una stupidità incredibile. Ma prendiamo un altro esempio, interno questa volta, quello dei preti- operai, alcuni dei quali erano miei amici. Quelle persone sono andate da altre persone, a cui hanno detto che il loro impegno nella vita operaia era definitivo, che non erano andati lì solo a fare una visitina.
E tutt’a un tratto, la gerarchia chiede loro di interrompere tutto. Ci si può immaginare facilmente la sensazione di confusione e la perdita di credibilità. È un po’ quello che è successo in Algeria con gli ufficiali francesi che avevano promesso a certe popolazioni che le avrebbero protette qualunque cosa fosse successa e a cui è stato improvvisamente chiesto di lasciar perdere.

 

Il confronto è per lo meno originale…
Forse, ma è proprio osando fare confronti che si capiscono meglio le cose. All’inizio può irritare, ma è estremamente stimolante. Ho scioccato molti intitolando un capitolo di uno dei miei libri “Auschwitz par comparaison” (1). Contrariamente a ciò che pretendono certe persone, il confronto non porta all’assimilazione di ciò che si mette a confronto, al relativismo o all’indifferenza, permette semplicemente di avanzare nella comprensione, di cogliere meglio certi punti di vista, anche, certamente, arrivando a mantenere alla fine il proprio. Prendiamo un altro esempio, quello del terrorismo in Medio Oriente. È sempre interessante ricordare a degli israeliani che anche loro sono ricorsi al terrorismo in una certa epoca. Questo non giustifica nulla, e soprattutto non il terrorismo di certi gruppi armati palestinesi, ma se mi si risponde che questo “non ha niente a che vedere”, allora non chiedo altro che di poter discutere per essere convinto. Ma a discutere  davvero, con argomenti, spiegazioni, discorsi razionali.

 

Che cosa pensa dei dibattiti mediatici sull’identità francese che hanno fatto molto discutere?
Se faccio astrazione dai calcoli politici del momento, faccio molta fatica a capire questi dibattiti.
Abbiamo tutti molteplici appartenenze, nazionali o meno. Io sono un francese ben integrato, il che non impedisce affatto il mantenimento e anzi lo sviluppo della mia cultura tedesca. Non vedo perché non dovrebbe essere così per altra gente proveniente da altri paesi e che possiede altre culture. Certo, io ho avuto un trattamento privilegiato. Quando sono arrivato in Francia all’età di nove anni senza sapere una parola di francese, eravamo solo due stranieri nella mia classe. Le maestre si sono occupate di me in maniera particolare e un anno dopo ho avuto il primo premio in francese. L’essenziale è mantenere una distanza critica rispetto a tutte le nostre appartenenze. È perché sono francese che mi sono opposto agli orrori della guerra d’Algeria, è perché la mia famiglia era ebrea che critico Israele più di ogni altro paese. Trovo del resto che certi cristiani ci guadagnerebbero molto adottando questa distanza critica, non tanto verso la loro fede, quanto verso le credenze che essa sembra implicare.

 

Quali sono i punti di dottrina cristiana o cattolica che le appaiono più estranei, a lei come ateo?
Ce ne sono moltissimi… Il problema della salvezza, ad esempio. Ho l’impressione che il cristiano abbia bisogno di essere salvato almeno quattro volte: c’è stata la prima alleanza con Abramo, la seconda con Gesù, poi il battesimo, e ancora non è finita. Faccio molta fatica anche a comprendere certe forme di devozione mariana. Un esempio: perché, nelle sue “apparizioni” Maria appare come una ragazza giovane e mai come una vecchia ebrea? Più seriamente, se posso dire: ci raccontano anche – sarebbe il famoso terzo segreto di Fatima – che la Vergine avrebbe modificato il percorso della pallottola che doveva colpire Giovanni Paolo II nell’attentato di cui quest’ultimo è stato vittima. Benissimo. Ma perché non ha fatto niente per i sei milioni di ebrei morti durante la Shoah?

 

E in materia di morale, lei che rivendica volentieri il ruolo di moralista?
Qui sono combattuto. Sono contento di vedere che, in generale, le mie convinzioni morali e quelle della Chiesa sono vicine, in particolare per quanto riguarda l’etica sociale. E non sono io ad essere cambiato! Il Dio che punisce, che vedica, che uccide il nemico, anche cristiano, ha lasciato posto al Dio che si è fatto uomo sofferente. Molti valori evangelici, cristiani, sono stati reinventati  contro le Chiese nei secoli XVI, XVIII e XIX.

 

Ci sono comunque dei punti che restano secondo lei problematici nel discorso morale tenuto dalla Chiesa?
Penso ad esempio alla pena di morte. Certo, ci sono dichiarazioni che vanno nel senso della condanna, ma il discorso ufficiale a questo riguardo resta troppo astruso e, stranamente, molto meno vigoroso della condanna dell’aborto… Per quanto riguarda ciò che attiene alla morale sessuale e familiare, non riesco proprio a capire che dei preti che, per definizione, non hanno mai avuto figli e  non hanno mai vissuto in coppia, diano lezioni di vita familiare. Soprattutto se sono cardinali di curia e non hanno mai veramente esercitato come semplici preti di parrocchia.

 

(1) Dans le crime et la mémoire, Flammarion, 1989.

in “Témoignage chrétien” n° 3456 del 1° settembre 2011 (traduzione: www.finesettimana.org)

 

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