Il vescovo di Tripoli, Giovanni Innocenzo Martinelli si rivela una fonte inattesa di controversia internazionale.
Da più di un quarto di secolo, il pacato padre con un volto luminoso quasi beato e una certa qual somiglianza con papa Giovanni Paolo II è alla guida della chiesa cattolica romana di San Francesco d’Assisi.
Così il vescovo di Tripoli, Giovanni Innocenzo Martinelli ha fornito con discrezione la sua assistenza alla piccola comunità cattolica dal maestoso edificio di pietra bianca costruito al culmine del dominio coloniale italiano all’epoca di Benito Mussolini, coi suoi 100 metri di campanile che svetta in un orizzonte di minareti.
Ma dal momento che le bombe occidentali hanno cominciato a essere sganciate sulla Libia di Muammar Gheddafi, Martinelli, 69 anni, è diventato una fonte inattesa di controversia internazionale.
La sua critica persistente alla campagna guidata dalla NATO ha portato alcuni a considerarlo un pacificatore nei confronti di Gheddafi, e a suggerirgli che sarebbe stato meglio per lui il dedicarsi a questioni spirituali.
Martinelli, nato in Libia e figlio di colonizzatori italiani, respinge l’idea che si debba mettere a tacere la sua voce, usando la conoscenza da lui posseduta sia di questa nazione del Nord Africa che dell’Occidente per perorare la sua causa.
“Gheddafi è un beduino. Non si può fargli cambiare idea bombardandolo. Non è possibile annientare i beduini così”, ha dichiarato di recente il vescovo Martinelli nel patio ombreggiato di un albergo a cinque stelle a Tripoli, mentre detonazioni fragorose scuotevano la capitale, fatto che sembra accentuare il suo punto di vista.
“E’ un uomo orgoglioso. Provate a parlare con un beduino. Esiste una sorta di sublime nel beduino, l’uomo del deserto”, ha detto, scivolando dall’inglese alla sua lingua nativa, l’italiano.
Il vescovo, che ha incontrato Gheddafi e che ammette il suo “rispetto” per il leader, si posiziona come un sostenitore della pace e del negoziato.
“Bombardare è sempre un atto immorale”, ha detto all’agenzia ufficiale del Vaticano, Fides. “Io rispetto le Nazioni Unite, rispetto la NATO, ma devo anche dichiarare che la guerra è immorale. Se ci sono violazioni dei diritti umani, non posso utilizzare lo stesso metodo per fermarle”.
Papa Benedetto XVI ha invocato il dialogo e la diplomazia per porre fine al conflitto libico. Ma da molto tempo il vicario apostolico della Santa Sede a Tripoli è andato molto più in là, e a quanto pare con la benedizione del Vaticano.
Il vescovo è in contatto quotidiano con le agenzie cattoliche in Europa, e manda sempre lo stesso messaggio: i bombardamenti della NATO sembrano avranno il risultato di arrecare più vittime fra i civili che indurre la capitolazione del regime.
Mentre condanna in modo inequivocabile il bombardamento occidentale, Martinelli ha eluso le domande riguardo agli attacchi del regime contro i civili. Ha detto che aborrisce ogni forma di violenza, spostando il tema verso quello che lui chiama i risultati positivi di Gheddafi: un welfare sociale, la parità relativa per le donne e, più puntualmente, una libertà di culto in questo Paese a stragrande maggioranza musulmana.
La rivoluzione del 1969, guidata da un allora oscuro tenente dell’esercito di nome Gheddafi, ha portato alla espulsione della maggior parte degli italiani rimasti e la chiusura delle chiese, simbolo della colonizzazione brutale dell’Italia del XX secolo. Una ex cattedrale è diventata qui ora una moschea; la cattedrale, nella città dei ribelli di Bengasi, con le sue doppie cupole che si ergono davanti al porto, è avvolta da ponteggi e in cattivo stato di conservazione. Altre chiese sono state convertite in palestre e sale riunioni, e, in almeno un caso, persino in un caffè.
Ma Gheddafi, rivoluzionario laico, ha permesso ben presto ai cristiani di praticare liberamente la loro religione, restituendo la chiesa di San Francesco e quella del centro di Bengasi, in una strada ancora denominata Via Torino. Lo stato vieta però il proselitismo e limita le attività di beneficenza all’interno dei locali della chiesa, ma suore cattoliche sono all’interno degli ospedali, centri per disabili, orfani e anziani. Giovanni Paolo II aveva anche ripreso le relazioni diplomatiche con Tripoli nel momento in cui il regime era considerato un paria internazionale a motivo dei legami di Gheddafi con il terrorismo.
“Gheddafi ci ha concesso libertà come Chiesa”, ha detto il vescovo Martinelli, citando altri esempi nel mondo arabo, dove i cristiani subiscono invece severe restrizioni e, nel caso del post-Saddam Hussein anche in Iraq, per lui emblema di un massacro. “Guardate l’Iraq – ha detto – hanno distrutto Saddam Hussein, ma è ancora molto difficile organizzare la vita da quel momento”.
Non dimentica neppure l’attuale dispiegarsi della cosiddetta “Arab Spring” (Primavera araba) dove gli autocrati secolari della regione – Hussein, la dinastia Assad in Siria, Hosni Mubarak in Egitto – sono stati tolleranti nei confronti delle minoranze cristiane.
Nato durante la seconda guerra mondiale in una famiglia di agricoltori italiani a sud-est di Tripoli, Martinelli era andato in Italia da giovane e lì è stato ordinato sacerdote francescano a Salerno nel 1967. Poi è stato rinviato nel Maghreb per guidare una piccola residua comunità italiana in una regione dove era fiorita la chiesa primitiva, generando uno dei maggiori luminari intellettuali del cattolicesimo, Sant’Agostino di Ippona, nativo di quella che oggi è l’Algeria. Le invasioni arabe avevano cancellato il cristianesimo in Libia per secoli, fino a quando i commercianti italiani e i colonizzatori non vi hanno riportato la fede se pure in modo limitato.
Fin dall’inizio dei bombardamenti, Gheddafi ha cercato di invocare il periodo precedente al conflitto tra cristiani e musulmani, inquadrando la guerra come un’alleanza stile “crociata” di aggressori fanatici di Al Qaeda.
“Perché volete morire sotto la croce?”, così Gheddafi ha schernito i ribelli in un recente messaggio audio.
Il vescovo ammette che Gheddafi è lento a rispondere alle esigenze della popolazione e ha trascurato per troppo tempo la Libia orientale, dove è covata la ribellione. Molto prima che le proteste scoppiassero nel mese di febbraio, Martinelli sottolinea come fra i libici si avvertisse già la nostalgia per una maggiore libertà, maggiore giustizia e migliori opportunità economiche.
Gheddafi “non era in grado di ascoltare i giovani di Bengasi, non era in grado di capirli” – ha riconosciuto con un certo rammarico Martinelli, che ha prestato il suo servizio di sacerdote per una dozzina di anni a Bengasi – il che implica che la guerra avrebbe potuto essere evitata se il regime avesse destinato maggiori investimenti nella parte orientale del paese. La violenza è diventata quasi una malattia allergica a Bengasi”.
Il vescovo ha scelto con cura le sue parole che di solito sono conformi con la linea del governo: “Sì, Gheddafi ha commesso degli errori, ma il regime è ormai pronto a negoziare un cessate il fuoco e la transizione verso elezioni democratiche. I capi dei ribelli, e anche quelli dei governi occidentali, affermano però che questo non si può comprare, ma piuttosto che Gheddafi deve andarsene dopo più di quattro decenni al potere.
Martinelli, naturalmente, parla da una posizione precaria. Ogni straniero che critichi il regime rischia l’espulsione, o peggio, di finire alla mercé della polizia di Gheddafi. Dire la cosa sbagliata potrebbe avere conseguenze catastrofiche per un gregge estremamente vulnerabile e per di più notevolmente diminuito dopo i disordini scoppiati nel paese, da cui molti cristiani sono partiti con voli aerei, altri a bordo delle navi sgangherate per navigare l’imprevedibile mar Mediterraneo.
In questo angolo della capitale, la messa settimanale è una delle poche consolazioni dei suoi parrocchiani, una singolare fonte di conforto spirituale.
“Ci dà coraggio”, ha detto Alex Attisso, nativo del Togo che dirige un coro composto da persone provenienti dall’Africa occidentale, una serie di splendidi cantori che in un recente servizio liturgico hanno mostrato i loro abiti viola con berretti piatti carichi di fiocchi.
Tempo e difficoltà hanno trasformato l’antica fortezza spirituale dei maestri costruttori coloniali libici in qualcosa di diverso: un rifugio per immigrati in ansia, tra cui lavoratori dell’Africa subsahariana, operatori sanitari delle Filippine e artigiani dell’Asia del Sud, tutti attratti da posti di lavoro di un pese ricco di petrolio come la Libia.
I fedeli frequentano ancora perlopiù la domenica, anche se il giorno con la frequenza più massiccia ai servizi liturgici è il venerdì, giorno della preghiera musulmana, quando la maggior parte non deve recarsi al lavoro. Alla chiesa di San Francesco, uscieri africani indicano ai partecipanti i loro posti a sedere, danno loro in mano i fogli stampati per la preghiera e ricordano loro di spegnere i cellulari, prima di indirizzarli ai banchi.
In un recente venerdì, il vescovo stava accogliendo gli ospiti prima della Messa. Tra loro c’era una donna del Bangladesh che stava cercando di organizzare il battesimo della figlia. Una famiglia senza tetto dall’Eritrea che chiedeva rifugio. Un gruppo di filippini che comunicava tra le lacrime lapartenza.
“Vanno via dopo 25 anni”, ha detto il vescovo, con un tono malinconico in questi giorni tristi di distacco.
Nella parrocchia di San Francesco, l’inquietudine del momento ha accentuato la dimensione metaforica della Bibbia. Un passaggio, quello riguardo all’uomo cieco che riacquista la vista, rappresenta un po’ “un simbolo di questa umanità, accecata dalla guerra, ma senza perdere mai la speranza che la luce della ragione venga riacquistata”, aveva confidato Martinelli ad un giornalista vaticano.
La chiesa in Libia, ha detto, deve essere “purificata” di nuovo, sopportando l’ultimo passaggio in un dramma millenario che l’ha vista lievitare a grandi altezze, scomparire dalla vista e poi di nuovo rinascere.
Il vescovo è fiducioso riguardo alla sopravvivenza della sua Chiesa qui in Libia, anche se il destino di questa nazione in frantumi rimane il vero punto interrogativo.
(McDonnell è stato recentemente in missione a Tripoli).
di Patrick J. McDonnell
in “Los Angeles Times” del 3 luglio 2011 (traduzione di Maria Teresa Pontara Pederiva)