Perseverare nella speranza


Cari amici e ospiti,


quanti di voi ci frequentano con maggiore assiduità o seguono gli interventi del Priore su giornali e periodici avranno notato una nostra crescente preoccupazione per la situazione ecclesiale, italiana ma non solo. Avvertiamo un clima di stanchezza, di fatica, di scoramento che qualcuno ha riassunto in un’espressione molto efficace: “Manca il respiro”. Quello che già anni fa era stato definito uno “scisma sommerso” ha assunto più i tratti di un sofferto silenzio, di un ritrarsi in disparte riflettendo su un grigiore che come nebbia autunnale sembra avvolgere e intridere tutto. Anche tra di noi, i più anziani, che han conosciuto lo slancio della primavera conciliare, vedono sfuocarsi sempre più le speranze nate allora dalla fede salda e dall’audacia profetica non di singole figure ma della massima autorità magisteriale cattolica: un concilio ecumenico cum Petro et sub Petro. I più giovani risentono del clima da orizzonte chiuso con cui deve quotidianamente confrontarsi la loro
generazione cui viene negata la credibilità stessa di un possibile futuro migliore. Sì, dire che “manca il respiro” non significa solo avvertire l’affanno di polmoni affaticati o non irrorati da aria fresca, ma vuol dire anche constatare che “il nostro respiro” di credenti, lo Spirito del Signore risorto trova ostacoli nell’aprire mente e cuore alla sua volontà di pace e vita piena.


Assistiamo alla voce sempre più soffocata di quella che nella chiesa non si dovrebbe chiamare “opinione pubblica” ma piuttosto sensus fidelium: la sensibilità, la percezione della fede e delle sue implicazioni che ogni battezzato è abilitato dallo Spirito santo a esercitare e ad alimentare attraverso il confronto con i fratelli e le sorelle nella fede, attraverso la correzione fraterna, l’ascolto reciproco, la comune edificazione di quell’edificio spirituale di cui siamo chiamati a essere “pietre vive” (cf. 1Pt 2,5). Oggi, nel torpore dominante, molte delle stesse guide della comunità cristiana paiono incapaci di una parola convinta, decisa, obbediente al “sì sì, no no” evangelico, una parola in grado cioè di far risuonare con vigore nell’oggi della storia le assolute esigenze cristiane. Quando anche la voce di un pastore si leva con parresia, questa cade senza ulteriori risonanze perché il paradossale intreccio di mutismo e frastuono, unito all’assuefazione alla menzogna, la soffocano sul nascere o la relegano nel campo delle buone intenzioni di un personaggio “singolare”.


Per contro, quasi ogni giorno vi è chi vuol far apparire la chiesa come un’arena in cui si fronteggiano fazioni contrapposte, incapaci di ascoltarsi e di ricercare insieme un cammino di comunione e tese invece a tacitare “l’altro”, a prevalere negli organigrammi, a “vincere” chissà quale conflitto ideologico. Eppure Gesù ha ammonito con forza i suoi discepoli. “Non così tra voi!” (Mc 10,43). E “non così” si erano comportati i padri conciliari al Vaticano II, che avevano saputo confrontare le loro diverse visioni di chiesa per sottometterle al giudizio della parola di Dio e del suo farsi storia nell’oggi dell’umanità, fino a farle convergere in una lettura condivisa perché docile allo Spirito.


Questo nostro tempo si sta rivelando tempo di prova e di sofferenza. Certo, non la prova estrema della persecuzione e del martirio, cui tanti nostri fratelli e sorelle nella fede vanno incontro, ma la prova della perseveranza, della fedeltà a scrutare “come se si vedesse l’invisibile”. Anche dopo la vittoria di Cristo, dopo la sua resurrezione e la trasmissione delle energie del Risorto al cristiano, resta infatti ancora operante l’influsso del “principe di questo mondo” (2 Cor 4,4), sicché il tempo del cristiano permane tempo di esilio, di pellegrinaggio, in attesa della realtà escatologica in cui Dio sarà tutto in tutti. Il cristiano infatti sa – e non ci stancheremo mai di ripeterlo in un’epoca che non ha più il coraggio di parlare né di perseveranza né tanto meno di eternità, in un’epoca appiattita sull’immediato e sull’attualità – che il tempo è aperto all’eternità, alla vita eterna, a un tempo riempito solo da Dio: questa è la meta di tutti i tempi, in cui “Cristo è lo stesso ieri, oggi e sempre”
(Ebr 13,8). Il télos delle nostre vite è la vita eterna e quindi i nostri giorni sono attesa di questo incontro con il Dio che viene.


Risuonano quanto mai attuali le parole di Dietrich Bonhoeffer, testimone di Cristo in mezzo ai suoi fratelli in una stagione di martirio per quei cristiani che avevano rifiutato ogni compromesso con la barbarie nazista: “La perdita della memoria morale non è forse il motivo dello sfaldarsi di tutti i vincoli, dell’amore, del matrimonio, dell’amicizia, della fedeltà? Niente resta, niente si radica. Tutto è a breve termine, tutto ha breve respiro. Ma beni come la giustizia, la verità, la bellezza e in generale tutte le grandi realizzazioni richiedono tempo, stabilità, ‘memoria’, altrimenti degenerano.


Chi non è disposto a portare la responsabilità di un passato e a dare forma a un futuro, costui è uno ‘smemorato’, e io non so come si possa colpire, affrontare, far riflettere una persona simile”. Scritte quasi settant’anni fa, queste parole pongono il problema della fedeltà e della perseveranza: realtà oggi rare, parole che non sappiamo più declinare, dimensione a volte sentite perfino come sospette o sorpassate e di cui – si pensa – solo qualche nostalgico dei “valori di una volta” potrebbe auspicare un ritorno.


Ora, se la fedeltà è virtù essenziale a ogni relazione interpersonale, la perseveranza è la virtù specifica del tempo: esse pertanto ci interpellano sulla relazione con l’altro. Non solo, i valori che tutti proclamiamo grandi e assoluti esistono e prendono forma solo grazie ad esse: che cos’è la
giustizia senza la fedeltà di uomini giusti? Che cos’è la libertà senza la perseveranza di persone libere? Non esiste valore né virtù senza  perseveranza e fedeltà! Oggi, nel tempo frantumato e senza vincoli, queste realtà si configurano come una sfida per ogni essere umano e, in particolare, per il cristiano. Ma come riconoscere la propria fedeltà se non a partire dalla fede in Colui che è fedele?
In questo senso il cristiano “fedele” è colui che è capace di memoria Dei, che ricorda l’agire del Signore: la memoria sempre rinnovata della fedeltà divina è ciò che può suscitare e sostenere la fedeltà del credente nel momento stesso in cui gli rivela la propria infedeltà. E questo è esattamente ciò che, al cuore della vita della chiesa, avviene nell’anamnesi eucaristica.


È lì, al cuore della nostra fede, che dobbiamo tornare per ritrovare speranza contro ogni speranza, per ritrovare un respiro capace di riaprirci orizzonti di vita piena, perché nulla mai potrà separarci dall’amore di Dio e dal Vangelo che ce lo ha narrato I fratelli e le sorelle di Bose


in “ lettera agli amici” n. 52 (http://www.monasterodibose.it) del 12 giugno 2011

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