Papa audace in tante direzioni — dalla lotta al comunismo alla predicazione del Vangelo «fino ai confini della terra» — in nessuna Wojtyla fu sorprendente quanto nel «mea culpa» che culminò nella «Giornata del perdono» del 12 marzo 2000.
Nei confronti di quell’eredità Benedetto XVI si pone come prudente continuatore: in due occasioni ha fatto sua la richiesta di perdono per la Shoah formulata dal predecessore e in un’altra ha formulato un proprio «mea culpa» per il peccato della pedofilia del clero.
«Confessione delle colpe e richiesta di perdono» era intitolata la speciale liturgia che si celebrò in San Pietro la prima domenica di Quaresima dell’anno 2000. Sette rappresentanti della Curia romana leggevano altrettanti «invitatori», ai quali rispondeva il Papa con sette «orazioni», riguardanti i «peccati in generale», le «colpe nel servizio della verità», i «peccati» che hanno diviso la Chiesa, le «colpe nei confronti di Israele», le «colpe commesse con comportamenti contro l’amore, la pace, i diritti dei popoli, il rispetto delle culture e delle religioni», i «peccati che hanno ferito la dignità della donna e l’unità del genere umano», i «peccati nel campo dei diritti fondamentali della persona». Ecco la seconda confessione di peccato, riguardante «le colpe nel servizio della verità», che fu letta dal cardinale Ratzinger: «Preghiamo perché ciascuno di noi, riconoscendo che anche uomini di Chiesa, in nome della fede e della morale, hanno talora fatto ricorso a metodi non evangelici nel pur doveroso impegno di difesa della verità, sappia imitare il Signore Gesù, mite e umile di cuore». Così suonò la quarta delle sette «confessioni», riguardante la persecuzione degli ebrei: «Dio dei nostri padri, tu hai scelto Abramo e la sua discendenza perché il
tuo nome fosse portato alle genti; noi siamo profondamente addolorati per il comportamento di quanti nel corso della storia hanno fatto soffrire questi tuoi figli e, chiedendo perdono a Dio, vogliamo impegnarci in un’autentica fraternità con il popolo dell’alleanza». A conclusione di quella liturgia penitenziale, Giovanni Paolo pronunciò cinque «mai più» che suonano come una delle utopie evangeliche più forti che siano state affermate nella nostra epoca disincantata: «Mai più contraddizioni alla carità nel servizio della verità, mai più gesti contro la comunione della Chiesa, mai più offese verso qualsiasi popolo, mai più ricorsi alla violenza, mai più discriminazioni, esclusioni, oppressioni, disprezzo dei poveri e degli ultimi». Dal riesame del caso Galileo (impostato nel novembre del 1969) all’ultimo pronunciamento autocritico, riguardante i tribunali dell’Inquisizione (arrivato il 15 giugno 2004, con la lettera di accompagnamento della pubblicazione degli atti del simposio storico sull’Inquisizione dell’ottobre del 1998) sono oltre un centinaio le circostanze in cui Giovanni Paolo ha riconosciuto «errori» e «colpe» del passato e del presente, o ha invitato i cattolici ad applicarsi a questo «esame». Ai temi già detti vanno aggiunti— tra i principali— la tratta dei neri, il maltrattamento degli indios, la strage degli Ugonotti, il saccheggio di Costantinopoli da parte dei «crociati» nel 1204, il rogo di Giordano Bruno nell’anno 1600. Più volte Benedetto in questi sei anni si è richiamato all’atto penitenziale del predecessore e in due occasioni (il 12 febbraio del 2009 e il 17 gennaio 2010, durante la visita alla sinagoga di Roma) ha fatto sua e ripetuto alla lettera la richiesta di perdono riguardante gli ebrei. L’ 11 giugno 2010 abbiamo invece avuto una richiesta di perdono formulata in proprio dal Papa teologo e proposta a nome della Chiesa per una colpa dei suoi «figli»: lo ha fatto per un «peccato» di oggi—gli abusi sessuali del clero— e non della storia, come invece tante volte aveva fatto Papa Wojtyla ma come lui ha accompagnato il «mea culpa» con l’impegno a fare in modo che quel misfatto non si verifichi «mai più» . Appare dunque chiaro come in questa pedagogia della penitenza e della purificazione Papa Ratzinger segua le orme del predecessore e nello stesso tempo se ne distingua”.
in “Corriere della Sera” del 1 maggio 2011