Le cinque perle di Giovanni Paolo II

 

i gesti di Wojtyla che hanno cambiato la storia

un bilancio storico e spirituale di un pontificato.

 

In vista della beatificazione di Giovanni Paolo II ha ripreso slancio un’operazione tutt’altro che semplice, inauguratasi già immediatamente dopo la sua morte: quella di tracciare un bilancio storico e spirituale di un pontificato che non solo è durato più di venticinque anni, ma che ha attraversato un periodo storico estremamente complesso e sconvolgente – basti pensare ai due crolli epocali: il muro di Berlino e le Torri gemelle o, prima ancora, all’attentato subito dal papa – e il cui protagonista aveva a sua volta vissuto in prima persona il dramma della seconda guerra mondiale e della Shoah, la cattività comunista e l’evento di grazia del Vaticano II. Su quali elementi soffermarsi per un’analisi complessiva? I documenti portanti del magistero, come le encicliche? I messaggi veicolati dagli innumerevoli viaggi? La tipologia della moltitudine di santi e beati canonizzati? Le caratteristiche e gli orientamenti teologici degli ecclesiastici nominati all’episcopato o al cardinalato? La gestione dei rapporti interni alla Curia o delle relazioni con i capi di stato?
Un’opzione rischiosa ma al contempo feconda è stata quella scelta da Alberto Melloni – docente di Storia del cristianesimo all’ Università di Modena-Reggio Emilia e direttore della Fondazione per le Scienze religiose di Bologna – che ha individuato Le cinque perle di Giovanni Paolo II (Mondadori, pp. 154, 18), cioè «i gesti di Wojtyla che hanno cambiato la storia», come recita il sottotitolo. Scelta non facile, che l’autore motiva efficacemente nelle prime pagine del libro, e che lo porta a isolare delle gemme preziose per poterle incastonare nell’insieme del pontificato wojtyliano così da permetterne una lettura luminosa e al contempo destinata a durare ben al di là della momentanea attenzione mediatica legata alla beatificazione.
Di queste «perle», l’aver celebrato il concilio come la «grande grazia del XX secolo», la visita alla sinagoga di Roma e il primo incontro delle religioni ad Assisi appartengono al biennio 1985-1986, la richiesta di perdono per i peccati commessi dai figli della chiesa nel corso della storia è al cuore del Giubileo del 2000, mentre la strenue opposizione alla guerra si colloca già nel periodo del progressivo declino fisico del Papa. Sono cinque eventi che contengono sì una forte carica innovativa rispetto al passato, ma che, paradossalmente, rivelano anche una profonda continuità con
la grande tradizione della chiesa e la sua capacità di annunciare il vangelo in un mondo che cambia.
Non a caso mi sembra che la «perla» chiave che ha in sé la capacità di suscitare le altre sia proprio la prima: la valorizzazione del Vaticano II attraverso un «sinodo straordinario» dei vescovi che ne riafferma la qualità di massima espressione del magistero pontificio e quindi di criterio alla luce del quale discernere a valutare ogni scelta successiva, e non viceversa. Non sorprende allora che negli altri gesti, ricostruiti ed evidenziati da Melloni con sagacia e copiosa documentazione, l’ispirazione profondamente conciliare emerga con particolare evidenza e sia esplicitamente richiamata dal papa stesso.
Davvero sono perle che «hanno bisogno di essere narrate per essere comprese» e che anche quanti, come la nostra generazione, hanno avuto il privilegio di vederle risplendere sotto i loro occhi, devono rileggere e rielaborare per assaporarne tutta la portata evangelica, così da trasmetterle come tesoro prezioso alle generazioni che verranno.

Le cinque perle di Wojtyla
di Enzo Bianchi
in “La Stampa” del 30 aprile 2011

 

 


Melloni: Ecco le cinque perle di Giovanni Paolo II


By Rai Vaticano | Aprile 25, 2011

A pochi giorni dalla beatificazione di Papa Giovanni Paolo II, lo storico Alberto Melloni ci propone nel suo nuovo libro “Le cinque perle di Giovanni Paolo II”, edito da Mondadori, una sua chiave di lettura del pontificato del papa polacco. Si tratta di un approfondimento di alcuni eventi che hanno lasciato il segno e che hanno bisogno di essere compresi in una prospettiva autonoma. Le cinque perle di Giovanni Paolo II sono i gesti e i momenti della vita e del pontificato di  questo Papa, che agiscono dentro la Chiesa . Ho chiesto all’autore di spiegarci meglio alcuni punti del suo libro.

 

 

I rapporti tra la comunità ebraica e il Papa non sono mai stati una semiretta”, afferma nel secondo capitolo del suo libro, ma possiamo dire che il rapporto tra il rabbino Toaff  e Papa Wojtyla è stato particolare, non a caso è citato nel testamento del Pontefice. Come è stato il loro rapporto? Che cosa ha rappresentato la visita di Giovanni Paolo II alla sinagoga di Roma nel 1986 in questa complessa storia tra la Chiesa cattolica e gli ebrei?

La comunità ebraica di Roma è stata nei secoli testimone di uno sviluppo delle concezioni del potere e della salvezza della chiesa latina: ha visto la prima chiesa perseguitata, quella che prende il potere nell’impero, quella dell’alto medievo, il maturare della discriminazione religiosa, la persecuzione e la ghettizzazione, la pressione rude della conversione, gli accomodamenti con una macchina di governo pontificia, l’emancipazione nello Stato unitario, i diversi atteggiamenti davanti alle leggi razziali e alla persecuzione nazifascista, la stagione del concilio, il lento riconoscimento dello Stato d’Israele. Del percorso che va dal Vaticano II al mea culpa del 2000, è stato testimone diretto Rav Toaff, rabbino capo di una comunità ferita dalla razzia del 16 ottobre e poi dal battesimo del suo rabbino capo Zolli. Quella comunità ha potuto vedere una metamorfosi degli atteggiamenti cattolici con Giovanni XXIII e poi con “Nostra Aetate” , che per Giovanni Paolo II è stato un atto di svolta al quale bisognava rispondere in modo creativo, come ha fatto con la visita alla Sinagoga, ad Assisi e con il mea culpa del 2000. Come sempre nella vita di papa Wojtyla, il gesto conta più delle parole: quella espressione “fratelli maggiori” non è lusinghiera per chi conosca la bibbia, così come il fugace segno di croce al Muro occidentale quando deposita la sua preghiera di perdono nel pellegrinaggio giubilare a Gerusalemme avrebbero potuto suscitare diffidenze o irritazioni. Che non ci furono perché l’eloquenza del gesto superava e spiegava ciò che le parola non dicevano: il coraggio di Rav Toaff è stato quello di pazientare perché quella metamorfosi avviata al concilio producesse tutti i suoi frutti, almeno per quella generazione, in attesa che la prossima faccia la sua parte.

Proseguendo nella lettura del suo libro, la terza perla per lei e’ Assisi, lo spartiacque del nuovo atteggiamento del cattolicesimo contemporaneo verso le altre religioni. Che cosa ha voluto sottolineare in questo capitolo?

Il concilio non aveva programmato un documento sulle religioni, ma solo una dichiarazione sugli ebrei che, a valle della Shoah e dell’ombra che da quella si allungava sulla intera esperienza cristiana di vertice e di base, spiegasse perché la chiesa di Roma sentiva di dover affermare al suo massimo grado il riconoscimento delle promesse, la perennità dell’alleanza e la detestazione dell’antisemitismo “di chiunque e di qualunque epoca”. Fu per attenuare la resistenza dei vescovi arabi e dei loro governi che si decise di estenderlo e mimetizzarlo in un atto, “Nostra Aetate”, che esprimesse stima e attenzione per l’islam, e anche per le altre grandi religioni. Ma così facendo si creava una indiretta analogia: come il rapporto con l’ebraismo era qualcosa di essenziale per la chiesa, si veniva a suggerire che anche nel rapporto da fare con le altre religioni si doveva adottare la stessa grammatica. Israele, come sacramento di tutte le alterità, diventava un modello del bisogno cristiano di comprendere la fede degli altri con gli occhi di Dio. Questa intuizione rimane silente fino al 1986, segmentata in segretariati e mansionari di curia: Assisi rappresenta un evento enorme perché dice come la chiesa di Roma vuole guardare agli altri non come a civiltà o come ad antagonisti, ma come a voci della preghiera comune che sale dalla terra chiedendo a Dio la pace che gli uomini dimenticano di fare.

Papa Benedetto XVI nell’omelia della messa crismale concelebrata in San Pietro, ha fatto esplicitamente il nome di Karol Wojtyla come esempio di riscatto per tutti i cristiani,  e lei  scrive  nel quarto capitolo: “finalmente il momento del perdono e del mea culpa viene fissato al 12 marzo 2000, un gesto il cui annuncio e’ stato accolto polemicamente”. Ci puo’ spiegare?

Il mea culpa era stato proposto fin dal 1993 in un concistoro straordinario: e la reazione di alcuni porporati, come Biffi, era stata molto negativa. Si pensava che chiedere perdono volesse dire aprire una falla nella difesa del magistero e dell’autorità delle autorità: e che dunque quelle cose che la modernità aveva rimproverato alla chiesa andassero al contrario o sbandierate o al massimo contestualizzate in tempi lugubri e violenti per tutti. Wojtyla invece non cede: da padre conciliare aveva vissuto la discussione sul caso Galileo al Vaticano II; da vescovo aveva partecipato all’atto del dare e chiedere perdono con il quale vescovi tedeschi e polacchi si erano abbracciati a vent’anni dalla fine della II guerra mondiale; come persona aveva perdonato chi gli aveva sparato nel 1981 e alla fine ottenne al suo mancato killer la grazia del Quirinale. Per lui il riconoscersi della Chiesa come “casta meretrix” non era una concessione fatta al marketing – anche se poteva perfino essere usata così – ma qualcosa che andava dovuto a Dio. Ancora una volta sul piano delle formule si oscilla (peccato della chiesa, nella chiesa, dei figli della chiesa), ma il senso è chiaro e consente al cattolicesimo romano oggi di poter guardare a orrori come quelli della pedofilia – che non sono certo tipici del suo clero, ma che hanno toccato anche un clero mal guidato – con gli occhi di chi sa che non è della propaganda di sé che la Chiesa ha bisogno ed è ministra, ma di una misericordia di cui è la prima mendicante.

Antonia Pillosio

 


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