Non si può certo negare: molte componenti della Chiesa appaiono e si dicono stanche, comunque prive di attesa. Molti presbiteri e religiosi si lamentano sovente, molti semplici fedeli prendono, ogni giorno di più, distanza dalle forme visibili dell’appartenenza alla Chiesa.
Lo sappiamo bene dai vescovi stessi: in Germania, in Austria, in Francia e in Belgio non sono pochi quelli che con rumore lasciano la Chiesa, che addirittura vorrebbero cancellare il loro nome dall’elenco di appartenenza alla parrocchia o persino dai registri del Battesimo. In Italia, con meno clamore, senza più le contestazioni conosciute negli anni ’70 del secolo scorso, si registra il fenomeno di quelli che semplicemente continuano a vivere la loro fede etsi ecclesia non daretur, anche se la Chiesa non ci fosse».
Sì, siamo di fronte a una Chiesa affaticata, anzi, usando un’espressione del magistero papale vorrei parlare di una ecclesia afflicta. Più volte in questi tempi leggo e rileggo san Basilio, il grande padre della Chiesa che nel De iudicio Dei cercava di comprendere la situazione ecclesiale del suo tempo: i suoi giudizi, le sue sofferenze sono simili a quelli che anch’io porto nel cuore, nella preghiera, nel confronto con gli uomini e le donne che incontro. Non è un momento facile per la Chiesa, perché la Chiesa stessa si trova lacerata, divisa: in essa «troppi si mordono a vicenda», come ha scritto Benedetto XVI, trasformando ogni diversità, anche legittima, in aspro conflitto, in condanna, in censura, o addirittura in interventi ossessivi che fanno la caricatura dell’altro – il quale resta pur sempre un fratello o una sorella per il quale Cristo è morto, un appartenente alla Chiesa cattolica – fino al disprezzo e alla delegittimazione… Nell’epoca culturale in cui si è fatto debole e svanisce il senso dell’appartenenza, occorrerebbe vigilare e quindi reagire a questa deriva che può aprire a uno «scisma muto», che non solo indebolisce la Chiesa, ma la riduce a un «movimento», come ha analizzato recentemente con intelligenza il segretario della Cei, monsignor Crociata.
Ma da dove deriva questo affaticamento? Esistono cause leggibili? Certamente la diminutio della comunità cristiana in termini di appartenenti, e in particolare di vocazioni alla vita presbiterale e religiosa – almeno nell’Occidente in cui si colloca l’Italia, perché è a questa realtà che va il nostro sguardo –, anche se non minaccia le convinzioni, rende però più difficile la vita ecclesiale e, soprattutto, affatica i presbiteri – sempre più oberati di servizi e lavoro, con un’età media sempre più alta – ed espone la vita religiosa alla tentazione di non sperare più in sé stessa. Non dimentico
neppure il clima culturale in cui viviamo, o meglio siamo precipitati, sempre più contrassegnato da valori che sono all’opposto di quelli cristiani: l’affievolimento dei principi etici, la scomparsa dell’orizzonte comunitario, l’individualismo crescente, il nichilismo, I’egolatria, la dittatura delle emozioni e dei sentimenti, l’incapacità di perseveranza, la perdita del senso della fedeltà.
Conosciamo ormai tutti bene e a memoria questo elenco che dice la realtà del clima attuale, dell’aria che si respira.
Credo però che occorra riconoscere che anche aspetti di vita interna della Chiesa contribuiscono ad affaticarci. Quando penso allo sforzo che la mia generazione ha fatto in obbedienza alla Chiesa per un rinnovamento attraverso il Concilio, e poi constato che oggi nella Chiesa molti lavorano contro il Vaticano II, criticandolo e prendendone le distanze, operano contro l’ecumenismo e la riforma liturgica, allora osservo che in molti altri si fa largo un sentimento di confusione. Alcuni dicono con molto rispetto: «Non capisco più!»; altri finiscono per soffrire fino alla frustrazione…
Tanta fatica per cambiare, quasi cinquant’anni fa – uno sforzo compiuto con entusiasmo ma a volte anche a prezzo di sofferenza e sottomettendo le nostre nostalgie personali al bene della vita ecclesiale – secondo le indicazioni del Concilio e del Papa: e oggi? Perché ci sono presenze nella Chiesa che vorrebbero spingerci a essere con il Papa contro i vescovi oppure con i vescovi contro il Papa, persino quando si tratta di celebrare l’Eucaristia, luogo per eccellenza della comunione ecclesiale? Si dice che il cammino ecumenico è irreversibile, ma poi vediamo che molti vorrebbero
correggere la sua comprensione consegnataci dal Vaticano II. Papi e vescovi ci hanno insegnato che il vero ecumenismo non significava ritorno alla Chiesa cattolica, bensì cammino verso un’unità che i cattolici confessano essere un principio già presente nella loro Chiesa, ma che deve essere ancora completata, in quanto mai piena nelle diverse forme e convergenze. Abbiamo forse avuto vescovi e Papi come «cattivi maestri»? E i “gesti” così eloquenti compiuti dagli ultimi Papi erano forse temerari, favole da non prendere sul serio?
Ho quasi settant’anni, ho lavorato tutta la mia vita per l’unità delle Chiese e la comunione nella mia Chiesa, ma oggi sento e constato tante contraddizioni. Sì, faccio fatica anch’io, sono stanco di queste guerre tra fazioni ecclesiali combattute sui blog per mezzo di giornalisti compiacenti; sono stanco di accuse che mostrano come non si voglia né ascoltare né conoscere la verità ma soltanto far tacere l’altro. E mi chiedo con molti altri: dove va la Chiesa? Questa nostra Chiesa che abbiamo tanto amato e vogliamo ancora amare in un’appartenenza leale, non adulatrice e che non cerca né privilegi né promozioni… Questa Chiesa che amiamo, più di noi stessi.
in “Jesus” dell’aprile 2011