Enzo Bianchi: Una vita da priore

La campana a Bose suona alle 5.30. Prima un tocco, sospeso nel vuoto. E poi altri, con le campane
che diventano due, a rincorrersi, veloci. È tempo di svegliarsi. I monaci svegli lo sono già, da un’ora.

 

 

Accendono la lampada alle 4.30 e cominciano la giornata con una lectio divina: leggono, meditano, pregano, scrivono, studiano, ridono o piangono nel segreto delle loro celle. «Dall’aurora io ti cerco», dice un verso di un salmo che cantano assieme all’alba nella chiesa al centro del monastero. Nei loro abiti bianchi i monaci siedono nella navata sinistra della chiesa. Le monache con gli stessi abiti e il cappuccio sul capo siedono dall’altro lato. Sono un’ottantina. Al centro c’è un leggio con una bibbia aperta. In fondo il crocifisso e il tabernacolo. Sopra, dalle  finestre, si intravedono nel buio i contorni innevati dei monti del biellese: Mucrone, Mars, Camino.
Bose è un gruppo di case di campagna, un tempo abbandonate, sulle colline piemontesi, tra campi chiazzati, filari di larici, betulle, un bosco di abeti e di cipressi. L’unico rumore, in questi giorni, è quello della neve che si scioglie, l’acqua scorre nelle gronde e nei canali. Alle 8 del mattino, dopo la fine di quello che qui chiamano il Grande silenzio – inizia la sera prima alle 20 dopo la cena – ognuno comincia la propria attività. Tutti hanno un lavoro da svolgere. E lo fanno con cura, con un ordine che sembra prestabilito. Nessuna cosa viene imposta. C’è un senso di libertà e di quiete. «Se vai in capo il mondo, trovi le tracce di Dio. Se scendi nel tuo profondo, trovi lo stesso Dio» è scritto nel foglio del monastero che accoglie gli ospiti.
Enzo Bianchi, 68 anni, per tutti qui “il priore”, ha uno sguardo profondo, la barba lunga bianca su un corpo di quercia. «Sono un figlio della cultura contadina» del Monferrato e delle Langhe. Il suo ultimo libro Ogni cosa alla sua stagione (Einaudi,130 pagine 17 euro) ha venduto in poche settimane oltre 130mila copie. Parla di ricordi, di terra, di spiritualità nascosta nelle persone semplici, di vecchiaia, di vita monastica e di ascesi. Successo editoriale curioso, in un paese come l’Italia dove si legge poco e il volume in cima alle classifiche di vendita è un manuale di ricette di cucina. «Ha stupito anche me questo successo. C’è un forte bisogno di profondità, di cose vere».
Il suo rapporto con la scrittura è strettamente legato alla vita monastica. «La mia scrittura nasce dal silenzio. Ho una cella nel bosco dove regna un grande silenzio e questo mi aiuta molto a dosare le parole, a discernere e a capire… Se non avessi ore e ore di silenzio sarei incapace di parlare e di scrivere».
Quando ha cominciato la vita a Bose, nel 1965, l’anno della fine del Concilio Vaticano II, era solo.
Studente di economia e commercio all’Università di Torino, aveva formato un gruppo di preghiera «ecumenico, prima ancora del concilio» con altri giovani cattolici, valdesi, ortodossi. «Sentivamo il bisogno di far coincidere la spiritualità cristiana e l’umanità». La svolta avviene nel 1965 quando trascorre tre mesi in Francia a fianco dell’Abbé Pierre. «Vivevamo in una catapecchia vicino al fiume, alla periferia di Rouen: io, l’Abbé Pierre, Dominique, un fratello laico, assieme a clochard, ex legionari, ex carcerati. Svuotavamo cantine, raccoglievamo stracci e li  vendevamo». Tornato a Torino non era più lo stesso. «Volevo continuare a vivere così: una vita cristiana radicale». All’inizio erano in quattro, ma rimase subito solo: uno dei compagni perse la fede, due ragazze decisero di sposarsi.
«Mio padre diceva che ero pazzo». Pazzo di Dio.
Nella prima casupola di Bose non c’era l’elettricità, né riscaldamento o acqua calda. Solo una stufa a legna durante i lunghi inverni, l’orto, le traduzioni dal francese per mantenersi e la vita monastica, in solitudine. Per tre anni. «In quel periodo ho toccato con mano quanto sia difficile l’arte di abitare con se stessi. La mia vita era come è adesso, con la liturgia delle ore, il silenzio e il lavoro. Durante l’inverno restavo lunghi mesi da solo senza vedere nessuno. Il sabato e la domenica, nella bella stagione, qualcuno veniva su a trovarmi. Le giornate erano lunghe ma piene. Avevo trovato una ragione per spendere la vita. Non desideravo altro… Quando ci ripenso ho nostalgia di quel tempo».

L’esperienza di Bose, per niente mondana, ha un qualche successo, lo dimostrano le vendite del suo
libro e le 18mila persone che ogni anno vengono a visitare questo luogo sperduto nella campagna
piemontese. È una storia vera, di identità, di cristianesimo vissuto. «Tanta gente arriva qui, anche non
credenti. Facciamo una vita semplice. Io ho sempre cercato di creare rapporti veri, di comunicazione
sincera».
Rimpianti? No, non ci sono, ricordi piuttosto. «Adesso, con l’età che avanza, si comincia a guardare indietro, sempre più spesso. Quando sono nella solitudine della mia cella, alla sera, ripenso alle persone fondamentali nella mia vita: l’Abbé Pierre, Roger Schutz, Atenagora, ma anche ad alcune persone semplici che sono state importanti nel mio cammino». Nel libro racconta la storia di Teresina del Muchèt. Una donna che viveva sola sul pianoro ai bordi del paese natio, con la compagnia dei suoi animali «ed emanava un odore acre, un misto di stalla, di pecora, di sudore».
Parlava poco Teresina ma quando lo faceva era piena di sapienza, «poche frasi che coglievano sempre nel segno». Tra le pagine scorre anche la storia di Cocco ed Etta, la postina e la maestra del paese. Due donne non sposate, che vivevano insieme dandosi del lei, e che dopo h morte della madre lo hanno cresciuto alla vita, trasmettendogli valori e tolleranza.
«Ho avuto la grazia di trovare chi credeva in me. Avere qualcuno che crede in noi è decisivo  affinché possiamo a nostra volta credere negli altri, è determinante per riuscire a trovare senso nella vita».
Se oggi dovesse lasciare questa terra e le si chiedesse una parola, l’ultima, da lasciare ai suoi, un testamento racchiuso in una parola, cosa direbbe?: «Direi questo: ascoltate. Imparate ad ascoltare.
Per me è la cosa più importante. L’unica cosa che vorrei che si dicesse di me quando non ci sarò più è: “Era un uomo che ascoltava”».

 

in “Il Sole-24 Ore” del 27 marzo 2011

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