Intervista ad Angelo Bagnasco sui 150 anni dell’unità

 

“Politica in difficoltà ad ascoltare il Paese.

Estrema cautela nel cambiare la Carta”

 

 

 

Il cardinale Angelo Bagnasco ci riceve nello studio che fu di Giuseppe Siri, «un grande padre e un grande maestro». Anche l’inginocchiatoio e la cattedra, nella piccola cappella a fianco, sono gli stessi. Alle pareti, i ritratti dei  predecessori, Dionigi Tettamanzi e Tarcisio Bertone, lo stemma episcopale con il motto Christus spes mea, Cristo mia speranza. Dalle finestre si vedono i vicoli di Genova. Bagnasco è cresciuto in uno di questi, salita Montagnola della Marina. Ora è arcivescovo della sua città e capo dei vescovi italiani. Sottile, dita lunghe da statua gotica; molto cortese, molto fermo.

Eminenza, parlando dei fatti di 150 anni fa lei ha detto che «mai come in quella stagione la Provvidenza guidò gli eventi». Resta il fatto che il Risorgimento si fece contro la Chiesa, o no?
«Fu il cardinale Montini, per la prima volta, in un discorso al Campidoglio del 1961, a evocare “il gioco” della Provvidenza nella risoluzione della questione romana. In effetti, parte della Chiesa riteneva che la mancanza di un territorio geografico per garantire l’indipendenza del Papa dinanzi al mondo costituisse un problema insuperabile. Col tempo, al contrario, ci si sarebbe resi conto che la perdita del potere politico ha enormemente accresciuto la rilevanza morale della Chiesa nel mondo.
Il Risorgimento, se è parso all’inizio “contro” la Chiesa, in realtà non si è compiuto “senza” di essa.
Basterebbe pensare, nel filone risorgimentale, al contributo più federalista di Gioberti o di Rosmini, rispetto a quello più “unitarista”di Mazzini o di Garibaldi».

Vede rischi per l’unità nazionale in futuro?
«Ne vedo alcuni a partire da segnali in genere sottovalutati: a cominciare dal cambiamento demografico, dalla crisi economica, dalla fatica a uscire dai particolarismi e a promuovere le mediazioni necessarie per perseguire il bene comune. C’è poi la sfida della mondializzazione che un Paese spesso ripiegato su polemiche interne rischia di non cogliere. Il futuro dell’unità nazionale dipende anche dalla capacità del Paese di trovare una sua collocazione nello scenario globale. E rispetto a questo punto la Chiesa, che è una rete globale per vocazione ma anche nei fatti, può dare
un contributo importante. Dovremmo farci tutti più consapevoli del peso storico del nostro Paese, che è universalmente noto per la sua cultura e per la sua arte, ma che rappresenta pure il cuore del cattolicesimo. Dal Vangelo nasce quell’umanesimo plenario che è patrimonio universale. La sfida è concepire questa centralità non come una semplice eredità del passato, ma come un investimento per il futuro: l’unità non si fa solo attorno all’economia e alla politica, ma attorno a dei valori. Solo un nucleo vivo di valori suscita quel senso di appartenenza che resiste alle crisi ed è capace di generare una storia comune, di far superare ogni rischio di fuga e disgregazione».

Viviamo da anni in un clima di conflittualità permanente. È una rappresentazione esasperata del microcosmo politico o no? Quanto la divisione è reale, nel Paese?
«La scena pubblica offre una rappresentazione certamente distorta rispetto alla realtà del Paese.
Doppiamente distorta si può dire, dai media e dalla politica. I media, perché spesso esasperano episodi o realtà secondarie, mentre tacciono di altre ben più importanti o rendono invisibili le realtà positive di cui l’Italia è ricca. A volte, il sensazionalismo e la spettacolarizzazione creano una specie di “inquinamento ambientale”. E poi la distorsione della politica, che pare sempre meno il luogo della mediazione dei conflitti e degli interessi in funzione del bene comune, e sempre più un’arena in cui si cerca di neutralizzare l’avversario senza esclusione di colpi. Si alimenta così una sfiducia e un disinteresse per la politica, soprattutto nelle giovani generazioni, che non fa bene a nessuno.
Questa sorta di specchi deformanti lasciano fuori l’Italia più vera, la parte più sana e più vitale del Paese, che continua a rigenerare quegli elementi che fanno la ricchezza della nostra identità: la generosità, l’operosità, la creatività, la capacità di innovare nel solco di una tradizione, di sperare oltre difficoltà vecchie e nuove. Questa Italia esiste, ed è quella che costruisce l’unità».

La politica vive una stagione di crisi?
«La politica è diventata strumentale, sembra priva di grandi idee dopo la stagione per niente invidiabile delle ideologie, autoreferenziale e in difficoltà ad ascoltare il Paese, ad intercettare i bisogni e le speranze delle persone. È un gioco tra poteri, fortemente personalizzati, fatto di colpi bassi che demoliscono la fiducia nella democrazia e fanno il gioco del nichilismo, anche quando a parole si afferma il contrario. Alimentare lo scontro può essere una strategia per interessi che non sono quelli del Paese».


C’è il rischio che il federalismo impoverisca ulteriormente il Sud e allenti la coesione nazionale?

«È importante declinare la pluralità in chiave unitaria. C’è un modo di essere plurali che, nel valorizzare l’articolazione del Paese, può aiutare a conservare una unità di fronte alle spinte disgregatrici della globalizzazione. In questo senso un federalismo maturo non può voler dire localismo. Al contrario, vuol dire rinnovato patto di alleanza tra cittadini, territorio e Stato. Vuol dire realizzare il principio di sussidiarietà intersecando quello di solidarietà. Perché la sussidiarietà senza la solidarietà scade nel particolarismo sociale, così come la solidarietà senza la sussidiarietà
scade nell’assistenzialismo».

Il presidente del Consiglio è sotto processo per reati gravi. Quali riflessioni le suscita questa vicenda? Sono questioni private? O, se provate e condannate, rendono incompatibile la permanenza in una carica pubblica così importante come la guida del governo?
«Mi pare che la domanda esuli dal 150 ° e si concentri… sugli ultimi 150 giorni. In ogni caso, per il rispetto che si deve alla realtà, occorre attendere gli esiti della vicenda. È saggio non anticipare valutazioni e ancor meno sentenze, fermo restando il principio formulato nell’articolo 54 della Costituzione che recita: “Chiunque accetta di assumere un  mandato politico deve essere consapevole della misura e della sobrietà, della disciplina e dell’onore che esso comporta”».

In quale misura la Costituzione può essere modificata?
«La Costituzione non è un dogma di fede, però è un punto basilare. Non è che possiamo trattare la Carta con superficialità; andrebbe contro la sua stessa natura. In alcuni punti può essere opportunamente rivista, ma non la si può prendere alla leggera. La Carta è troppo seria, importante, costitutiva di una società e di uno Stato per esporla a incertezze che riguardano l’identità e la fisionomia di un popolo. Va trattata con estrema cautela. L’esperienza ci insegna che i processi di rivisitazione storicamente necessari si sa come cominciano ma non si sa mai come finiscano».

Che impressione le fa l’annunciata riforma della giustizia?
«Sento che da molte parti, di vario indirizzo, si invoca una certa rivisitazione, un migliore equilibrio. Questo è quel che sento dire. Dato che questo auspicio viene da parti diverse, che conosco molto bene, mi pare sia una testimonianza di verità. Del resto leggo e sento dichiarazioni dal mondo politico molto più possibiliste rispetto a qualche tempo fa, rispetto al niet assoluto. Mi sembra un altro segnale di onestà rispetto a situazioni di carattere strutturale che hanno bisogno di essere riviste».

La Cei come la Santa Sede hanno mostrato negli ultimi mesi grande sintonia con il Quirinale.
È anche un segnale di attenzione agli «arbitri» istituzionali, perché non vengano trascinati nello scontro?

«La figura del capo dello Stato realizza anche visivamente l’unità del Paese. Questo compito, che il presidente Napolitano svolge con competenza e dedizione, esprime una posizione sempre più necessaria in momenti di ricorrente contrasto politico. Anche la Chiesa non intende certo identificarsi con l’una o l’altra parte politica, ma svolgere il suo servizio a beneficio di tutti, credenti e non credenti».

La Chiesa denuncia da tempo l’emergenza educativa. Napolitano ha lanciato l’allarme su formazione e occupazione dei giovani. Cosa si può fare per loro, per l’Italia di domani?
«La perdita di senso del futuro è uno dei dati più preoccupanti del nostro Paese. Lo spazio per i giovani può essere ricreato se si torna a coltivare la speranza, che non è un generico atteggiamento di ottimismo ma un impegno verso qualcosa a cui come individui e come collettività tendiamo.
Nessuna società può prosperare senza investire nell’educazione dei suoi giovani. È un’antica saggezza che non dobbiamo smarrire neanche per un istante».

Ha davvero senso “consegnare anche la morte” a una legge? Non sarebbe meglio lasciare alla sensibilità di malati, medici e familiari la questione, compresa la possibilità di lasciarsi morire?
«Non si tratta di “consegnare la morte” alla legge, ma di garantire la tutela della salute e della vita di ogni persona umana in tutte le sue fasi e condizioni dell’esistenza, in particolare quelle più deboli.
Anche lo strumento di una legge può essere utile, dopo che l’esperienza degli ultimi anni ha mostrato i rischi derivanti dall’attuale vuoto legislativo».

Alcuni notano in lei uno stile meno «interventista» rispetto al suo predecessore. Sbagliano?
«Ciascuno porta con sé i tratti del proprio temperamento e della propria storia personale. Sono di natura piuttosto riservato. Non amo essere catapultato al centro della scena. Per il resto non credo ci sia discontinuità rispetto ai temi e alle questioni sollevate dal mio predecessore. A volte sorrido e qualche volta mi rammarico nel constatare quanto forzate siano certe interpretazioni, e quanto fantasiose siano le ricostruzioni su supposte divergenze dentro la Chiesa italiana e addirittura tra la Cei e il Vaticano».

Dopo gli studi classici in seminario e l’ordinazione sacerdotale, lei si iscrisse e si laureò in Filosofia alla Statale di Genova. Perché quella scelta?
«La scelta non fu la mia, ma del mio arcivescovo, il cardinale Giuseppe Siri. Fu lui che mi invitò, anzi mi ordinò di iscrivermi alla Facoltà di Filosofia, proprio negli anni della contestazione studentesca. Ricordo che ho sempre registrato rispetto e accoglienza. Erano tempi di barricate, di lezioni in birreria… Per me è stata una lezione importante di conoscenza e di dialogo a tutto campo con una cultura che non può fare a meno di cimentarsi con la grande questione cristiana e con le domande radicali circa il problema del male, il senso della vita, della storia e della morte».

Che ricordo personale ha di Siri?
«Conosceva intus et in cute tutti i suoi preti: dentro l’animo, e fuori. Nonostante il protocollo, che doveva essere assolutamente rispettato, tutto il clero avvertiva una grande paternità e un grande affetto. Tanto tuonava dal pulpito, tanto era accogliente e paziente nel rapporto personale. Sapeva ascoltare».

Crede che Siri sia stato sconfitto ma il suo pensiero abbia trovato una rivincita con il tempo?
«Il cardinale è stato se stesso sempre, anche nei momenti più difficili, sapendo che la storia avrebbe purificato tante conflittualità, alcune punte di ideologia. Non cercava l’affermazione di sé; desiderava solo servire la verità, anche quando non era riconosciuta, vista o presentata come faceva lui. La storia non evidenzia chi vince o chi perde. Fa emergere quel che rimane».

Tornando al Risorgimento, che cosa rimane della figura di Pio IX?
«La sua figura è segnata dal dilemma intorno alla necessità o meno del potere temporale in ordine alla missione universale. Non a caso Papa Mastai Ferretti non fu del tutto contrario alle prime aperture sociali e politiche, anche se poi dovette fare i conti con la realtà che rischiava di sfuggire di mano. L’essere stato di recente proclamato santo da Giovanni Paolo II attesta che la cifra più profonda della sua personalità resta comunque la sua fede incrollabile, pure dinanzi allo sfaldamento di un mondo. Alla fine, ciò che rende Pio IX se stesso è il suo slancio apostolico più che la sua strategia politica».

Come replica a chi oggi accusa la Chiesa di ingerenza?

«Mi sembrano accuse come minimo ingenerose. Gesù ha separato, come mai prima di lui, fede e politica, come ha scritto Benedetto XVI nel suo ultimo libro. La Chiesa, che ha a cuore l’essere umano e la sua umanità, non può non essere presente, con le opere oltre che con la parola, soprattutto laddove l’umanità è fragile e ha bisogno di essere riconosciuta, accompagnata, difesa.
Troppo spesso si definisce “ingerenza” la semplice presenza, che disturba il fondamentalismo laico perché propone una prospettiva antropologica incompatibile con l’idea di immanenza assoluta e individualista, e afferma una diversa idea di libertà e di umanità. La Chiesa interviene per difendere l’uomo debole, marginale, senza diritti: di volta in volta può essere il bambino nato e non nato, il giovane reso irrilevante da questa nostra società competitiva, l’anziano che rischia l’abbandono da parte di una società sempre più cinica e distratta. Ma questo non è politica. È servizio alla causa
dell’uomo nel nome del Signore».

 

in “Corriere della Sera” del 17 marzo 2011

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