La purezza cristallina del suo pensare lo rivela come un teologo rigoroso (non per nulla è uno dei pochi a fregiarsi della laurea honoris causa di un’università così prestigiosa com’è quella di Heidelberg).
L’ardore della sua comunicazione scritta e orale ne manifesta la missione di pastore ecclesiale.
L’essenzialità trasparente e poco ornata del suo dettato ne denota la qualità di autore letto e ascoltato (per questo ha una specifica collana di libri che reca il suo nome).
L’intensità delle sue pagine e la testimonianza della sua vita gli assegnano il titolo che forse gli è più caro, quello di cristiano evangelico.
Stiamo parlando di Paolo Ricca, teologo, pastore, docente e credente appassionato, appartenente alla comunità valdese, ma anche fervido protagonista dell’ecumenismo.
Anche se egli, per primo, vorrà schermirsi dal profilo che abbiamo tracciato e ai miei occhi può far velo l’antico legame d’amicizia che a lui mi unisce, appoggio con calore la lettura delle sue pagine o l’ascolto dei suoi frequenti interventi radiofonici a Uomini e profeti di Rai 3, nonostante la diversità delle nostre situazioni (lui protestante, io cardinale della Chiesa cattolica).
Il suo messaggio, infatti, punta sempre al cuore dell’annuncio biblico, ove tutti i cristiani dovrebbero trovare la loro patria comune, ma la sua sensibilità è tale da coinvolgere anche chi non aderisce a questo o ad altro credo.
È il caso di un libretto che apparentemente è eterogeneo, perché raccoglie 17 contributi pubblicati o pronunciati in momenti e ambiti diversi, ma che si ricompone a mosaico proprio attorno al tema enucleato dal titolo, Le ragioni della fede.
In questo si svelano le nostre coincidenze di fondo: io stesso ho appena edito un libro intitolato Questioni di fede, muovendomi sul suo stesso territorio e partendo proprio con una sorta di “grammatica della domanda”, così come Ricca in apertura al suo testo delinea «l’uomo come domanda».
Fede e ragione sono state variamente coniugate e separate tra loro, anche secondo le diverse prospettive teologiche cattoliche o protestanti.
È per questo che Ricca opta per la formula «le ragioni della fede» e, per capire il suo approccio, è indispensabile citare un suo paragrafo: «Questa espressione ha un doppio significato.
Può significare in primo luogo le ragioni che la fede elabora su quello che crede, la fede cioè che pensa se stessa e riflette sul suo statuto e sui suoi contenuti, li illustra, li spiega, li motiva.
In secondo luogo può significare le ragioni che si possono addurre per credere.
Queste ragioni non sono prove né dimostrazioni, sono però argomenti che possono essere offerti alla riflessione di chiunque.
La fede, lo sappiamo, non viene dalla ragione e parlare delle ragioni della fede non significa affermare, implicitamente, che la fede abbia ragione.
Significa però darle la parola e invitarla a spiegarsi, sostenendo le sue ragioni.
La fede insomma non è muta e sa organizzarsi come discorso».
Proprio perché la fede non è cieca, segue un suo coerente statuto epistemologico che partecipa ma non si identifica con quello della razionalità (non è ciò che accade anche per l’arte e per il linguaggio d’amore?) e offre un suo progetto interpretativo profondo dell’essere e dell’esistere, dovrebbe essere normale che anche il non credente ascoltasse «le ragioni della fede».
Esse sono tutt’altro che assurde o infantili, come vorrebbe suggerire un certo ateismo nazionalpopolare molto sommario e superficiale.
Ricca in queste pagine opta per una serie di scorci: ad esempio, apre squarci sulla salvezza, sul pensiero, sulla misericordia, sulla giustizia, sulla libertà, sul «timore e tremore», sull’escatologia, su Paolo e Cristo.
Ma non teme di inoltrarsi sui sentieri d’altura, come nel caso del bellissimo capitoletto sull’«Ineffabile dai molti nomi», ossia su quel Dio che è, sì, trascendente e ineffabile ma invocabile, affidabile, reperibile.
Non esita neppure a costeggiare la frontiera.
Citando in questo caso Pico della Mirandola, si domanda se «il dubbio può essere l’anticamera della fede».
Lo stesso Manzoni, nella sua Storia della Colonna infame, consigliava che «è men male l’agitarsi nel dubbio che il riposar nell’errore».
Il nostro autore sottolinea il paradosso della fede nella quale il dubbio è legittimo e illegittimo al tempo stesso: «Sì, perché l’invisibile non si mostra, e qui il dubbio ci può stare; no, perché la fede, a modo suo, dimostra l’invisibile».
In questa luce si può condividere con Ricca la nota definizione del teologo Paul Tillich secondo la quale la fede è Mut zum Sein, o Courage to be.
Ci vuole coraggio per imboccare questa via perché il suo obiettivo è quello di condurti a essere e a comprendere l’ultima radice dell’essere.
Folgorante, come spesso gli accadeva, è Kierkegaard in Timore e tremore: «La fede è la più alta passione d’ogni uomo.
Ci sono forse in ogni generazione molti uomini che non arrivano fino ad essa, ma nessuno va oltre».
in “Il Sole 24 Ore” del 6 marzo 2011