Chi difende Asia Bibi muore.
Ai primi di gennaio, in Pakistan, era stato assassinato Salman Taseer, il governatore del Punjab che aveva presentato una richiesta di grazia a favore della donna cristiana, madre di cinque figli, arrestata nel 2009 e condannata a morte nel 2010 per il reato di blasfemia.
Adesso la violenza dell’estremismo islamico si è abbattuta su Shabhaz Bhatti, il ministro per le Minoranze che proprio a partire dal caso di Asia Bibi aveva avviato una battaglia per la riforma della legge sulla blasfemia.
Il nesso, dunque, è più che evidente.
Ma sarebbe un errore limitare la portata degli eventi a un solo caso, seppure emblematico.
La persecuzione dei cristiani in oltre 60 Paesi del mondo è un’innegabile realtà e il Pakistan (la “terra dei puri”, la Repubblica islamica nata nel 1947 per accogliere i musulmani del subcontinente indiano) dimostra che essa ha un nocciolo politico.
Taseer era un musulmano, Bhatti un cattolico.
Sono morti allo stesso modo e per la stessa causa.
La legge sulla blasfemia, in Pakistan, consente di accusare chiunque sulla base di presunte offese ad Allah, e di ottenere con prove inesistenti o sommarie condanne pesantissime da tribunali complici o, a loro volta, intimiditi.
Non esistono leggi analoghe per il Dio cristiano o gli dei hindù, il che diventa un potente strumento di conservazione sociale a favore dei musulmani.
Ma non solo: la legge è stata spesso applicata da musulmani ai danni di musulmani, e quasi sempre per risolvere contese politiche o economiche.
Un’arma micidiale nelle mani di movimenti e partiti dell’estremismo islamico, che riescono facilmente a istruire cause e trovare testimoni e che già approfittano della debolezza del governo centrale pakistano per indebolirlo – e in alcune regioni addirittura sostituirsi a esso – in settori cruciali come l’assistenza sociale o l’educazione scolastica.
La risposta a un problema politico dev’essere anch’essa politica.
Le campagne per mobilitare le coscienze, come quella lanciata in Italia per Asia Bibi, sono indispensabili.
Dietro le coscienze, però, devono muoversi le istituzioni.
Il nostro governo si è fatto più volte sentire.
Manca ancora, però, una serie presa di posizione internazionale: dell’Unione Europea o, meglio, dell’Onu.
Perché la dimensione politica della scia di sangue che unisce Asia Bibi a Salman Taseer a Shabhaz Bhatti prosegue fino alla morte del capitano Massimo Ranzani e a quella dei 2.535 soldati occidentali e degli oltre 10mila soldati e poliziotti afghani caduti con lui.
Le teste e le mani che hanno armato gli assassini del ministro Bhatti sono nella North West Frontier Province, l’area del Pakistan che confina con l’Afghanistan e si è trasformata nel santuario del fondamentalismo.
Si muore in Afghanistan perché la regione non vada in pezzi, quindi anche perché il Pakistan (Paese dotato di armi atomiche) non diventi il nuovo centro propulsivo del terrorismo islamico.
Cosa che avverrebbe se il fragile governo democratico del premier Raza Gilani e del presidente Ali Zardari fallisse o cadesse.
Per Asia Bibi e contro Osama Benladen, la battaglia è la stessa.
Prima lo capiremo, più facile sarà ottenere risultati positivi.
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