Le rivolte arabe hanno sorpreso tutti.
Le proteste nascono da dure condizioni di vita ma anche dall’umiliazione di regimi corrotti.
È una rivolta in buona parte di giovani: il 61% degli egiziani, il 58% dei libici e il 74% degli yemeniti hanno meno di trent’anni.
I giovani non si sono rassegnati all’intimidazione che ha trattenuto i loro padri per anni.
Gente alfabetizzata e globalizzata reagisce in modo nuovo: si sente soggetto, non solo oggetto della storia.
Il sistema autoritario non riesce a bloccare chi ha vissuto una rivoluzione mentale.
Si sollevano società civili e classi medie umiliate con la coscienza di non essere più isolate, ma parte di una comunità globale con nuovi mezzi per comunicare.
«Siamo tutti egiziani» — si leggeva su un cartello in piazza Tahrir, mentre fraternizzavano musulmani e cristiani.
Eppure papa Shenouda, capo di vari milioni di copti (sempre critico verso le vessazioni del governo), ha sostenuto Mubarak: ha chiesto ai suoi giovani di non scendere in piazza.
Le minoranze cristiane hanno paura.
Gli autocrati sembrano garantirle di fronte alla marea musulmana.
Ma trapelano sospetti che il ministro dell’Interno di Mubarak abbia avuto connivenze nell’attentato alla chiesa copta di Alessandria.
Allora si capisce meglio la furente reazione egiziana alle proteste italiane e alle parole di Benedetto XVI per la strage.
A piazza Tahrir un giovane cristiano brandiva un cartello: «Sono copto e sto qui malgrado papa Shenouda».
Un piccolo episodio ignorato riguarda la sinagoga vicino piazza Tahrir, sempre protetta da blindati.
Con la rivolta, i militari sono spariti e i dimostranti, divenuti padroni della zona, hanno rispettato il tempio.
Sintomo di un sentire maturo? Certo preoccupano le dichiarazioni di alcuni religiosi contro Israele ed è inquietante l’arrivo di due navi iraniane nel Mediterraneo via Suez.
Il futuro politico delle rivolte arabe non è chiaro.
Un ingegnere libico ha detto all’inviato de La Stampa: «Vuol sapere come finirà? Non lo so proprio, so soltanto che non ci fermeremo».
La politica e le analisi europee sono state a lungo bloccate dall’alternativa secca tra autocrati e pericolo islamico.
Di fronte agli ultimi eventi ci si è troppo limitati alla legittima, ma riduttiva domanda se ne guadagnasse l’islamismo.
Ma, per esportare la democrazia in Iraq contro un sanguinario dittatore, si è combattuta una guerra.
Poca simpatia è spirata da noi verso il «vento di libertà» di piazza Tahrir.
Si tratta di un nuovo ’68, di un ’89 o che altro? Per il «vento della libertà», laddove è vittorioso, comincia ora un delicato viaggio verso la democrazia attraverso le istituzioni e la politica.
L’entusiasmo per la libertà riuscirà a fondare un senso della cittadinanza che superi il fondamentalismo delle identità? In ogni caso mi pare dovuta un’apertura di credito da parte di chi crede nei valori democratici e nella libertà.
La paura è un cattivo consigliere.
Ha bloccato la politica occidentale verso gli arabi con il timore dell’Urss e poi del fondamentalismo.
Certo si capiscono gli interessi economici (come in Libia).
Ma c’è un limite, già da tempo oltrepassato da Gheddafi.
E mille morti pesano.
La radicalizzazione repressiva poi fa il gioco degli estremisti.
Il ministro Frattini, reduce dall’Egitto, ha indicato una prospettiva nuova al convegno tra cristiani e musulmani sulle ragioni della convivenza, tenutosi mercoledì a Sant’Egidio: «Bisogna passare dalla partnership della convenienza a quella della convivenza» — ha detto.
La convivenza è riconoscimento del pluralismo.
Un simile riconoscimento da parte musulmana è solida garanzia alle minoranze cristiane, del cui valore l’Europa comincia ad accorgersi.
Dopo tanta retorica mediterranea, oggi le due rive sono più vicine e il mondo arabo meno lontano da noi.
Il futuro è nelle mani di tutti, arabi ed europei, in un mondo più globale.
in “Corriere della Sera” del 25 febbraio 2011
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