L’intervista « Nessuno ha la certezza che domani cadrà questo o quel governo, però si sta concludendo un ciclo storico, cosa che gli europei non arrivano ancora a capire.
Muore il vecchio mondo arabo, quello della generazione dei miei genitori».
È assolutamente convinto dell’irreversibilità del processo innescato nel Maghreb dalle rivolte tunisine ed egiziane Khaled Fouad Allam, docente di Sociologia del mondo musulmano all’Università di Trieste.
Perché questa convinzione? Quando i ragazzi di oggi sono nati c’erano già gli stessi regimi, le stesse persone al potere, elemento che produce una certa schizofrenia: i governi parlano un linguaggio che la gioventù non capisce più.
Inoltre l’asimmetria demografica è decisiva: è molto più elevato il numero di giovani rispetto ad adulti e anziani.
Perché queste rivolte stanno accadendo ora e non 5 o 10 anni fa? Come in tutti i processi storici non c’è mai un solo motivo, ma un cumulo di fattori che fa sì che a un certo momento esploda la dinamica storica.
L’evento simbolico forte e scatenante in questo caso è stato la Tunisia.
Ma c’è altro da considerare.
A cosa si riferisce? Innanzitutto il fatto che sono cambiate le pratiche religiose: i ragazzi tra i 18 e i 30 anni hanno una pratica religiosa di tipo pietista.
L’islam non è più visto come la soluzione, come sarebbe probabilmente accaduto 10-15 anni fa.
I giovani non credono più che il Corano darà loro il lavoro, come potevano crederlo i loro padri.
Sono credenti e praticanti, ma non hanno una carica ideologica.
E infatti dallo Yemen all’Algeria di slogan religiosi non ne abbiamo sentiti.
I giovani vogliono lavoro e democrazia… In questi ultimi 10 anni è cresciuto il fenomeno dei diplomati e laureati disoccupati, costretti a fare gli ambulanti di frutta e verdura.
È il loro unico mezzo di sussistenza, e non è un caso che tutto sia nato da quel giovane tunisino ambulante che si è dato fuoco.
E poi c’è l’aspetto della globalizzazione: si sta sviluppando una coscienza mondiale della democrazia.
Un ragazzo di Algeri che corrisponde via Internet con un suo amico di Roma si chiede come mai sull’altra sponda del Mediterraneo c’è libertà e nel suo Paese no.
Ciò crea un sentimento molto forte.
Non conta la tecnologia informatica in sé, ma il suo effetto, ovvero un’accelerazione della maturazione della presa di coscienza.
Quanto durerà il vento della rivolta? Le sequenze rivoluzionarie non hanno ogni giorno la stessa intensità, ma questo clima durerà sicuramente molti mesi.
I regimi, se non cadranno, saranno costretti comunque a concedere riforme che forse non avrebbero mai fatto.
Si è aperta una breccia nella storia.
Nessuno di questi leader ha detto che intende presentarsi alle elezioni, e ciò la dice lunga sul sentimento della fine del ciclo di un’epoca.
Sta morendo un vecchio mondo, anche se non si tratta di un processo di breve durata.
Una cosa sono le sommosse di piazza, un’altra il lavorio interno che, a partire da un movimento rivoluzionario, porta al cambiamento.
E come giudica la reazione europea? L’Europa mostra di non avere una politica mediterranea.
Ha stanziato per Tunisi appena 17 milioni di euro, meno di un milione a Paese.
Ciò significa non avere la percezione della necessità di costruire un’architettura di cooperazione con la sponda sud del Mediterraneo.
Bruxelles ha costruito una visione tecnocratica dei rapporti con la sponda sud, ma non ha pensato cosa potesse essere questo rapporto geopoliticamente e geoculturalmente.
Ci vuole un cambio di mentalità e di strategia.
Gli Usa, per quanto criticabili, hanno almeno una loro chiara visione del Mediterraneo in “Avvenire” del 22 febbraio 2011
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