1.
Premessa Lo scopo di questo contributo è di mostrare che, se il mondo degli adulti, anziché offrire ai giovani adeguati contenimenti e possibilità di elaborazione delle loro problematiche, resta impigliato esso stesso in modi di essere e pensare di tipo adolescenziale, finisce per produrre esiti patologici, a livello individuale, scolastico e sociale.
La tesi che sostengo è che il malessere degli adolescenti, se in una certa misura è fisiologico, ovvero pertiene alle dinamiche psichiche di questo periodo e alla loro difficile e complessa elaborazione, tuttavia può essere limitato o addirittura trasformato in occasione di benessere psichico, laddove trovi un mondo di adulti che sia in grado di essere in contatto con le problematiche adolescenziali e aiuti i ragazzi a elaborarle, anziché essere incapace di gestirle colludendo con esse.
Per tali motivi, la sofferenza e il benessere degli adolescenti dipendono in larga misura dalla possibilità di trovare uno o più interlocutori — nel mondo adulto e a partire, oltre che dai genitori, proprio dagli educatori e dagli insegnanti — che li aiutino ad attraversare questo periodo e a elaborare la confusione che lo caratterizza.
L’ipotesi da cui parto è che l’adolescenza, prima di essere un periodo reale, è uno stato mentale.
Questo concetto si riferisce a una condizione psichica che può anche cambiare, perciò parlare di «stato mentale» significa parlare di qualcosa che non è fisso, ma fluttuante.(1) Assumere come ipotesi di lavoro che l’adolescenza sia uno stato della mente implica affermare che le problematiche psicologiche ed emotive proprie di questo periodo possono appartenere a qualsiasi persona, in qualunque periodo della vita, così come uno stato mentale infantile può caratterizzare un adulto in una determinata situazione o in uno specifico periodo della sua vita e delle sue relazioni e uno stato mentale adulto può appartenere a un giovane in crescita.
Vale a dire che si può anche dare il caso di giovani adolescenti che, malgrado il travaglio tipico e normale della loro età, mostrano segni di presenza, in loro, di stati mentali adulti, superiori a quelli dei loro interlocutori «adulti», cioè possiamo osservare adolescenti adulti a fronte di adulti adolescenti.
Tuttavia, se stati mentali adolescenziali appartengono agli adulti o, peggio, a coloro che hanno responsabilità educative, ne possono derivare seri danni per lo sviluppo emotivo dei giovani adolescenti.
Accade così che il moderno mondo occidentale dei «grandi», ovvero di quelle che dovrebbero essere le figure di riferimento degli adolescenti, (2) tenda non solo a non svolgere adeguatamente la propria funzione educativa e ad abdicarvi, ma addirittura si ponga spesso come fonte di incremento della confusione addirittura idealizzata come cosa buona e perseguibile.
Così, se i giovani adolescenti trovano un mondo di adulti o di educatori che permangono in questo stato mentale, difficilmente avranno la possibilità di sviluppare maturità e benessere emotivo, ma più spesso svilupperanno disagi sfocianti in varie manifestazioni patologiche, individuali e sociali.
Per condurre l’analisi e sostenere questa tesi, la struttura del mio contributo si articola in tre parti: in primo luogo, descriverò le principali dinamiche psicologiche dell’adolescenza alla luce dei punti di vista della psicoanalisi.
Tra queste approfondirò il cruciale problema della confusione (anche identitaria) che caratterizza la mente adolescenziale.
Tali dinamiche costituiscono lo stato mentale proprio dell’adolescenza.
(3) In secondo luogo, cercherò di mostrare come, e dove, gran parte del mondo adulto moderno presenti ampi spazi di adolescenzialità, venendo perciò a costituirsi come fonte di ulteriori disagi e malessere nei giovani, mentre,laddove questi ultimi trovino strutture, figure e ruoli (una società, in senso lato) capaci di assumersi le loro responsabilità educative e di porre limiti alle pulsioni distruttive o promiscue, hanno la possibilità di raggiungere un migliore sviluppo emotivo.
Ed esemplificherò dove e come, nel mondo degli adulti, si può osservare il venir meno di questa funzione maturativa di chiarimento e i danni che la sua mancanza può provocare nel mondo adolescenziale.
In terzo luogo, indicherò quale potrebbe/dovrebbe essere il compito primario di chi svolge funzioni educative, ovvero la capacità di assumersi la responsabilità emotiva della propria mente, non senza precisare, in conclusione, che tale capacità si può acquisire e sviluppare prevalentemente — per non dire solamente — attraverso un adeguato, approfondito, organico e prolungato processo di formazione, perché l’educatore possa porsi come interlocutore autorevole, che faccia crescere mentalmente l’interlocutore adolescente, piuttosto che come dispensatore di nor- me astratte o, peggio, come figura assente o portatrice di valori e comportamenti ambigui, confusi e confusivi.
Vale a dire come una figura che aiuti a differenziare, chiarire, ovvero che aiuti a pensare e far pensare.
4.
Esemplificazioni 4.1.
A livello sociale e culturale A questo livello, la confusione e la sua idealizzazione significano sostanzialmente: non differenziare, indurre regressione e, unendo le due operazioni, regredire financo intenzionalmente verso l’indifferenziato; perseguire fantasie totalizzanti e fusionali (peraltro il problema è contenuto etimologicamente nel termine stesso di con-fusione); non accettare le diversità.
Significa mancanza di identità collettiva e di coesione sociale, la promozione di agiti, anziché di pensiero (la cosiddetta «politica del fare»); l’assenza di criteri morali, un egocentrismo diffuso.
In senso generale, possiamo dire che la confusione (e l’ambiguità) fa sì che, come osserva Argentieri, «oggi più nessuno si fa carico di porre limiti all’aggressività e alla sessualità» (2008, p.
81).
Ad esempio, frequentemente si sentono proclamare elogi e progetti di trasgressione quando, a dire il vero, sembra che nel mondo d’oggi, almeno in Italia, più che di trasgressione avremmo bisogno di rispetto delle regole e, dunque, la vera trasgressione consisterebbe oggi nel fare, onestamente e con costanza, il proprio dovere.
A tal proposito, un ulteriore e ancor più drammatico aspetto riguarda l’atteggiamento che la nostra società tiene (per bocca dei suoi rappresentanti più significativi e di maggior peso politico e culturale) verso la delinquenzialità, ovvero quello che davvero la nostra società fa o non fa per contenere e ridurre la violenza.
E qui va detto subito che non sembra che le nostre istituzioni siano sempre all’altezza della situazione nel contenere o nel reprimere adeguatamente — quando è il caso — i fenomeni di violenza che anzi spesso, colpevolmente e manipolatoriamente, vengono strumentalizzati a fini di parte o politici.
Ma è proprio in rapporto al problema della violenza che la nostra società (e in particolare quella italiana) corre il rischio di incrementare, quando non promuovere, la confusione, ovvero il modo più sicuro per favorire l’antisocialità giovanile o la sua deriva delinquenziale.
Winnicott scrisse che l’adulto, sia esso genitore o insegnante, deve vigilare affinché gli adolescenti, così come i bambini, «non si trovino di fronte a un’autorità tanto debole da permettere loro di imperversare e fare il diavolo a quattro oppure da costringerli, per paura, ad assumere essi stessi il ruolo di autorità» (1962, p.
193 trad.
it.).
E aggiungeva che «quando un individuo assume un ruolo autoritario per reagire alla propria ansia diventa un dittatore» (ibidem).
La confusione si osserva anche quando, anziché scoraggiare i giovani dall’idea che l’aggressività possa essere, in qualche modo, remunerativa o giustificabile (poiché questo indebolisce le inibizioni o rende addirittura moralmente giustificabile l’aggressività stessa), la si presenta come il modo più diretto ed efficace di risolvere i problemi, senza che né le famiglie, né le comunità, né le autorità preposte facciano nulla per sconfiggere questa tragica idea.
In Italia, purtroppo, siamo particolarmente esposti a questo problema perché abbiamo un terzo del territorio nazionale in mano alla delinquenza che fa della violenza e della distruttività l’unico argomento di persuasione.
Non dobbiamo poi scandalizzarci se vediamo sui giornali giovani di vent’anni, o anche meno, che ammazzano e rapinano: l’esempio viene dall’alto e il modello di relazione è che le controversie o le difficoltà si risolvono con la violenza.
La confusione tra diritto e sopruso, tra distruttività e civiltà, è totale e apparentemente irreversibile! 4.2.
Nella sfera politica In politica la confusione e l’ambiguità (e il loro perseguimento in genere manipolatorio e in malafede) godono, nella lingua italiana, di un termine e di un verbo particolarmente felici per definirli: «sollevare un polverone».
La confusione (il polverone) la si osserva in molteplici situazioni e in tante occasioni: quando si fa confusione tra democrazia e autoritarismo; quando non si fanno più differenze tra vittime e persecutori, oppressi e oppressori, tiranni e liberatori, democratici e autoritari.
Clamoroso, poi, è il caso dell’equiparazione che, in Italia, negli ultimi anni, è stata fatta tra la lotta partigiana di liberazione — che aveva visto, tra l’altro, un’unione di tutte le forze democratiche dell’arco costituzionale — con il fascismo (o, addirittura, con i repubblichini di Salò) di cui si dimentica il carattere persecutorio e la follia di aver portato una nazione in guerra con centinaia di migliaia di morti, per non parlare dell’orrore delle leggi razziali.
Confusivo (oltre che un falso storico) è poi il tentativo di riabilitare politici ladri facendoli passare per statisti o di far passare per leader democratici quelli che sono stati leader manipolatori e autoritari.
La confusione in politica ha a che fare con la propaganda, che è la bugia trasposta sul piano collettivo, quel veleno sociale che fa ammalare, moralmente e relazionalmente, uno Stato.
Infatti, la menzogna, fondata sull’intorbidamento delle acque o sull’insabbiamento dei misfatti, distrugge le società e in ultima istanza fa perdere la cosa più importante: il senso di responsabilità.
4.3.
A livello dei leader In rapporto a questo ruolo, si può rilevare la confusione quando si idealizzano perversamente leader narcisistici e tirannici spacciando, come diceva Bobbio (1974), come forza ciò che, invece, è mera violenza e scambiando per capacità decisionale l’arroganza senza ascolto e senza attenzione alle persone.
L’adolescenzialità di tali comportamenti — che peraltro fanno intravedere alla base anche altri e ben più patologici problemi — consiste nel delegare proiettivamente le proprie pretese infantili onnipotenti su figure ritenute capaci (onnipotentemente appunto) di soddisfarle.
4.4.
A livello ideologico Possiamo parlare di un’ambiguità particolarmente ripugnante quando si osservano difensori della famiglia con due moglie e molteplici amanti; rappresentanti della legalità che vivono di truffe; presunti protettori della comunità che rubano allegramente; personaggi pubblici con responsabilità amministrative primarie che evadono le tasse; persone con ruoli di responsabilità pubblica che erogano favoritismi.
Persone insomma che, sulla carta, dichiarano esattamente l’opposto di quello che fanno, in pratica, senza nessuna preoccupazione di coerenza e con una sfacciataggine considerate apprezzabili in quanto segni di saper stare al mondo.
4.5.
A livello religioso Anche a questo livello non sono poche le situazioni confusive.
Si possono vedere in quei difensori della fede che professano l’intolleranza trasformando la religiosità, da fatto attinente al proprio foro interiore, a fatto secolare tutto esteriore.
A questo livello la confusione sta nell’interpretare e vivere la religione come un fatto di appartenenza di gruppo piuttosto che come vicenda individuale.
Qui lo stato mentale adolescenziale lo si vede in quei gruppi di «credenti» che mettono in atto manifestazioni esteriori più simili a quelle dei tifosi che a quelle dei religiosi.
In questo senso si può essere «baciapile» e non avere un’autentica religiosità, così come si può essere laici o agnostici, financo atei e avere un atteggiamento profondamente religioso verso la vita e gli oggetti animati e inanimati, poiché l’atteggiamento religioso è indipendente dalla fede (con la quale può, o non può, essere collegato), essendo invece la conseguenza di uno stato mentale etico di cui l’appartenenza religiosa è la versione esterna.
Non sono dunque le ideologie, i moralismi o le fedi che fanno acquisire un comportamento etico, ma avviene esattamente il contrario, poiché è la presenza di uno stato mentale etico che porta ad assumere un atteggiamento religioso autentico.
Ciò significa che io mi comporto «bene» non perché devo seguire regole religiose (qualsiasi esse siano) dettate da Mosè, ma assumo un atteggiamento religioso (indipendentemente dal fatto che lo faccia seguire dalla fede in qualche dio a mia scelta) perché prima ho una struttura etica nel mio mondo interiore.
Non siamo molto lontani all’imperativo categorico kantiano che indica di perseguire il bene per il bene non in senso strumentale.
Questa posizione, di ispirazione psicoanalitica kleiniana, secondo la quale non è l’etica che discende dalla religione ma la religione che discende dall’etica, concorda con quella del filosofo franco-lituano Lévinas, che di questi argomenti si è occupato.
Anzi, ne fornisce una fondazione psicologica.
4.6.
Nei mass media Nei media è perfin troppo facile osservare come la confusione imperi.
Quando gli ignoranti, i volgari vengono trattati come star; quando osserviamo personaggi dal passato discutibile e dal presente censurabile che manipolano le persone e si configurano, in virtù della loro presenza continua e asfissiante, come maître à penser, mentre non fanno altro che contribuire all’addormentamento delle coscienze, questo sì — come sostenevano le vecchie teorie critiche dei media, oggi abbandonate ma da recuperare — è al servizio del potere.
O quando personaggi maleducati e prepotenti occupano spazi mediatici importanti, presentando un modello di relazione e di «dialogo» in cui conta chi urla più forte, chi interrompe l’altro, chi insulta e accreditando tutto questo come esempio di preparazione culturale o «visione» politica, mentre non si tratta che di mera maleducazione.
Una confusione, questa mediatica, davvero drammatica perché trasmette un modello di relazione e di comunicazione di gruppo del tutto distruttivo, privo di qualunque rispetto e attenzione per l’altro.
Assenza totaledi ascolto, insomma.
Per quanto riguarda la televisione, nello specifico, la rinuncia a qualunque intento pedagogico non significa che non svolga egualmente una funzione pedagogica: la svolge ed è quella di mostrare che tutto è uguale a tutto, dai programmi più beceri di intrattenimento in prima serata, a quelle — poche — trasmissioni serie in cui si cerca di promuovere informazione critica e capacità di pensiero.
Purtroppo molti di questi pessimi personaggi mediatici, promotori di confusione e ambiguità, sono delle figure di riferimento per i giovani adolescenti; anzi, oggi, si assiste a un fenomeno inverso, ovvero al fatto che molti adolescenti assurgono, o vengono fatti assurgere, essi stessi a figure di riferimento, portando nel loro essere tutta l’incompletezza culturale ed esperienziale della loro età ed esibendola come una qualità auspicabile.
Nella nostra società, dunque, i media hanno spesso una funzione patologizzante mentre potrebbero averne una terapeutica.
Creano malessere quando seminano ansie o assuefazioni anestetizzanti, cioè incapacità di sentire e pensare mentre potrebbero (dovrebbero) contribuire a creare benessere dando informazioni adeguate e critiche, aiutando a pensare, a distinguere, a differenziare e diventando spazioluogo per elaborare i fenomeni sociali della vita quotidiana.
Come dire che anche i giornali, la TV e la radio (oltre alla scuola) potrebbero essere degli psicoterapeuti se aiutassero a uscire dalla confusione invece di incrementarla.
4.7.
Nelle organizzazioni sociali Nelle organizzazioni produttive e sociali, private e pubbliche, si nota la confusione quando, mentre si dichiara di voler premiare l’autonomia, la creatività e la collaborazione, di fatto si premia esattamente l’opposto, ovvero la dipendenza, il conformismo e il pensiero convergente; quando si premiano gli esecutori piuttosto che gli innovatori, i doppio-giochisti piuttosto che le persone corrette.
Nelle organizzazioni, insomma, l’ambiguità e la confusione si osservano quando si presta più attenzione ai rapporti di potere all’interno delle organizzazioni stesse che al servizio rivolto all’utente.
L’adolescenzialità di tali comportamenti consiste nel preoccuparsi di sé piuttosto che dell’altro, come se non si riuscisse a transitare da una posizione egocentrica a una decentrata.
4.8.
A livello familiare La confusività è particolarmente grave a livello familiare perché impedisce la differenziazione e la separazione istituendo schemi relazionali invischianti fino al limite della psicotizzazione, come bene hanno messo in luce le ricerche della Scuola Sistemica.
Ancora una volta, non si può non concordare con Simona Argentieri quando scrive che oggi «separarsi, differenziarsi non solo è faticoso, ma non è più un valore» (2008, p.
46).
La confusività si rileva anche in quei genitori che, anziché svolgere il loro ruolo genitoriale, vogliono fare gli «amici» dei figli assumendo imbarazzanti atteggiamenti giovanilisti, segnale dell’incapacità di accettare il passare del tempo o di un’invidia non elaborata verso i giovani.
Vecchi che non accettano di essere tali e adulti che adottano comportamenti fuori tempo: adulti bambini.
E ancora la confusività si manifesta quando non c’è più differenziazione tra madri e padri, ruolo paterno e materno, laddove ci sono madri tutte centrate sulla carriera, e quindi molto «maschili», e padri che fanno i «mammi», rinunciando all’esercizio della funzione normativa paterna, psicologicamente necessaria al processo di crescita del figlio.
4.9.
A livello di identità di genere La confusione appare quando non si fanno più differenze di identità tra uomini e donne, maschile e femminile.
Ad esempio, io penso che l’irruzione sulla scena pubblica dei transessuali, a questo proposito, sia emblematica: queste figure che sono uomo e donna contemporaneamente ben incarnano la fantasia onnipotente di un essere umano senza limiti, che sia tutto.
Non mi riferisco — sia ben chiaro! — ai singoli individui, con i loro spesso drammatici problemi e con le loro sofferenze; faccio invece riferimento a un certo uso sociale di queste figure per trasmettere un modello di non accettazione dei limiti poiché, laddove si ha un’identità da maschio, non si potrà mai averne una da donna e viceversa.
L’accettazione di questo limite costitutivo degli esseri umani, ossia il riconoscimento della propria non onnipotenza, è l’essenza più vera del cosiddetto complesso d’Edipo e infatti la sua acquisizione va sotto il nome di competenza edipica.
Nell’idealizzazione della confusione che spesso il mondo adulto presenta all’adolescente c’è, invece, esattamente il contrario e questo è davvero molto patologizzante a livello individuale e sociale, nel senso che non si trasmettono implicitamente più delle regole e delle limitazioni ma tutto appare onnipotentemente possibile.
Anche la giusta condanna dell’omofobia e la sacrosanta attenzione ai diritti degli omosessuali rischiano di capovolgersi in un’esaltazione acritica, sbrigativamente solidale, dei comportamenti sessuali non tradizionali (per così dire) di cui l’esempio più eclatante sono i Gay Pride, quasi che la scelta o l’orientamento o l’identità omosessuale (come la definiscono le più recenti ricerche statunitensi) non fosse un fatto privato, ma una fonte di orgoglio.
Mi sono sempre chiesto — e neppure tanto scherzosamente — se allora, su questa logica confusionale e capobozza volta, non si dovrebbe fare anche un «etero-pride» o un «impotence pride» o un «non-mi-interessa-per-nulla-il-problema pride».
4.10.
A livello di psicopatologia individuale A questo livello la confusione si manifesta quando non si fa nessuna differenza tra sani o matti.
Questo problema fu già proprio della deriva antipsichiatrica quando, condannando giustamente l’obbrobrioso stigma che colpiva i malati mentali con la concomitante istituzionalizzazione, si finiva, come dicono gli inglesi, con il buttare il bambino con l’acqua del bagno, ovvero con il negare la malattia mentale stessa: nessuna differenza tra persone (relativamente) sane e persone palesemente matte le quali, alla fin fine, sono persone che soffrono e, se si nega la loro malattia, di fatto si nega la loro sofferenza, finendo in tal modo per riproporre proprio quell’esclusione che si voleva combattere.
4.11.
A livello psicologico Anche a livello psicologico la confusione dilaga: nei mass media, come nell’opinione pubblica corrente, la psicologia viene trattata e considerata per lo più in modo confuso, generico e illegittimamente semplificatorio (cfr.
Blandino, 2000) e non viene adeguatamente differenziata e diversificata, non solo nei suoi vari orientamenti, talvolta del tutto opposti, ma nemmeno nei suoi molteplici campi applicativi: cosi questa disciplina si trasforma, da scienza, in un qualcosa di magmatico e indefinito, confuso appunto, dove le affermazioni generiche e superficiali, le confusioni tra psicologia e scienze contigue, le sovrapposizioni di ruoli o le imprecise attribuzioni di competenze si manifestano a vari livelli e in vari modi.
4.12.
Nella sfera scolastica Infine, la confusione è presente nel mondo della scuola che è il settore che, in questa sede, più ci interessa.
La confusione si può osservare quando vediamo docenti che abdicano al proprio ruolo annullando le differenze (ad esempio dandosi un reciproco «tu» automatico con gli allievi, senza alcuna previa elaborazione) in nome di una maggiore vicinanza emotiva allo studente, che è tale solo all’interno del rispetto della diversità dei ruoli e delle regole.
O quando non ci sono più differenze tra i compiti/doveri dei genitori e delle famiglie e i compiti/doveri e diritti degli insegnanti.
Dunque, per i suddetti motivi, qui rapidamente elencati, l’adolescente, per lo stato mentale che gli è proprio, si trova a essere, tra i vari soggetti sociali, quello che è maggiormente danneggiato dalle componenti confusive della nostra cultura contemporanea.
Infatti gli adolescenti che, come dice Di Chiara, «sono spinti da una movimentazione di affetti di base, amore, curiosità, entusiasmo, sdegno, e lottano per trovare l’espressione migliore al loro senso di individuazione», a fronte di un siffatto mondo adulto vengono coinvolti in quelle che lui chiama sindromi psicosociali, situazioni psicopatologiche che hanno funzioni difensive e di cui la confusività e l’ambiguità sono un esempio assai problematico (1999, p.
16).
Per dirla altrimenti, gli adolescenti si aspettano di trovare adulti che abbiano risolto i problemi della confusione e che li aiutino a risolverli, non adulti che incrementino ulteriormente questa confusione.
Si aspettano di trovare una società che cerchi di riconoscere e soddisfare i bisogni autentici degli individui, mentre, attraverso la confusione e l’ambiguità, non si fa che offrire una sorta di appoggio sociale alle difese nevrotiche individuali.
Così accade che troppo spesso agli adolescenti non vengano offerti esempi di funzionamento mentale adeguato, ma vengano presentati esempi di funzionamento superficiale o difensivo, evacuatorio di tutto ciò che può creare pensiero.
Non escludo che molti comportamenti adolescenziali aggressivi o antisociali dipendano proprio da questa diffusa confusività e assenza di regole, perseguita dal mondo degli adulti o inconsapevolmente e quindi irresponsabilmente, o intenzionalmente e quindi psicopatologicamente.
Le condotte aggressive adolescenziali, in questo caso, possono anche essere lette come un modo per manifestare all’esterno un’angoscia che non si riesce a contenere e a elaborare, un comportamento impulsivo che serve a espellere dalla propria mente contenuti troppo dolorosi per poter essere tollerati e pensati.
Ma il risultato è concretamente tragico.
3.
Adolescenza come processo di elaborazione della confusione In una situazione psicologica di questo genere, l’adolescente, allorché cadono le certezze infantili, sperimenta uno stato di grande confusione e insicurezza (in cui tutto può essere normale e tutto può essere patologico), alla cui elaborazione possono essere ricondotti i comportamenti, le attività di scuola e tempo libero, i tipi di relazione, i sentimenti e i pensieri degli adolescenti intesi come un modo per cercare di risolvere questo stato.
La confusione, dunque, è una delle caratteristiche (normali) dello stato mentale adolescenziale e dei giovani.
È per questo motivo che Meltzer parla, in maniera suggestiva, dell’adolescenza come di un processo di elaborazione della confusione (1978).
Pertanto, se il processo di crescita è adeguato, il soggetto evolve da uno stato di confusione emotiva interna verso uno stato di chiarezza e consapevolezza del ruolo adulto e dell’abbandono degli stati mentali infantili.
Ma quando questa operazione, del tutto fisiologica anche se non priva di autentica sofferenza (la cosiddetta «crisi adolescenziale»), non va a buon fine, o trova intralci emotivi troppo forti, il rischio è che vi sia un capovolgimento della situazione e ciò che è problematico diventi auspicabile: in altri termini il rischio è che vi sia un’idealizzazione della confusione considerata, anziché come qualcosa di problematico e patologico, come qualcosa di apprezzabile e di valore.
Accade così che sovente gli adolescenti scivolino in questo tipo di idealizzazione che è pericolosissima per tutte le complicazioni a cui dà origine.
Ad esempio, in questo periodo (dico in «questo» periodo perché questi gruppi cambiano di frequente) si è formato un gruppo di giovani adolescenti che vanno sotto il nome di Emo (diminutivo di «emozionale» e termini correlati).
(5 ) Nelle dichiarazioni e nei comportamenti di questo gruppo si può notare chiaramente l’idealizzazione della confusione, perseguita come un valore: parlano di confusione sessuale, emotiva, ideologica, perfino verbale, accompagnata da abbigliamenti, capigliature, piercing, stili di comunicazione, ecc., tutti tesi a sottolineare quest’ambiguità di base.
Ora, a parte i risvolti psico-patologici (di tipo borderline) di alcuni comportamenti messi in atto dai membri di questi gruppi; a parte taluni aspetti francamente comici e grotteschi che li caratterizzano; a parte, infine, la concomitante assenza di una cultura di base — vale a dire questi membri sono degli emeriti ignoranti! (perché va pur detto che conoscere e studiare è un dovere per un adolescente, al di là di tutta la possibile comprensione che si può nutrire nei loro confronti per le loro difficoltà) —, l’osservazione di questi gruppi esemplifica, come meglio non si potrebbe, a quali livelli di patologia individuale e collettiva fa approdare la confusione quando viene idealizzata come un valore.
L’idealizzazione della confusione si ha quando non si fanno più differenze, quando cioè, per dirla hegelianamente, siamo in una notte nera in cui tutte le vacche sono nere.
Ciò è ben testimoniato da una docente di psichiatria in una scuola per infermieri professionali che, a fronte delle difficoltà degli studenti a orientarsi nel campo e a comprendere le varie teorie e tecniche, sosteneva che il suo scopo non era di farli uscire dalla confusione ma di creargliene ancora di più: «Devono essere confusi», diceva compiaciuta, credendo in tal modo di addestrarli al pensiero critico senza accorgersi che finiva per fare esattamente il contrario.
Ma va detto che la docente stessa era la prima a essere confusa e, sapendo che esercitava la professione psichiatrica, lascio immaginare al lettore quanto bene potesse svolgere il suo lavoro con i suoi pazienti, partendo da questi presupposti.
L’idealizzazione della confusione è testimoniata anche da quell’educatore (con una mentalità davvero adolescenziale, nel senso peggiore del termine) che con i suoi utenti non distingueva tra i vari modelli, metodi e strumenti di intervento e di lavoro (psicologici, sociologici, pedagogici) usandoli ecletticamente, ma di fatto in modo «pasticciato», senza averne chiare le diversità di base, con nefasti risultati.
I danni di una confusione non elaborata sono ben raccontati anche da quello studente di un mio corso di psicologia dinamica che alcuni anni fa mi chiese: «Ma noi poveri studenti, passando da una teoria all’altra, da un opposto all’altro, come possiamo farci un’idea della psicologia senza diventare pazzi?».
Affermazione che, nella sua ingenuità esemplare, ci dice del bisogno dei giovani di fare un’integrazione delle esperienze conoscitive, esigenza che non trova né risposta, né aiuto da parte della struttura accademica.(6) Quando tale idealizzazione della confusione è ratificata esplicitamente o implicitamente dagli adulti: genitori, insegnanti, opinion makers, leader vari o figure di riferimento o, infine, mass-media, ne conseguono effetti a dir poco disastrosi dove, nella migliore delle ipotesi, c’è una collusione, da parte degli adulti, con l’adolescente, a dimostrazione di come gran parte del mondo adulto sia in effetti ancora adolescenziale.
Molti problemi sociali odierni nascono proprio da questa confusività che, in questa luce, appare espressione di una società adolescenziale o di modalità adolescenziali di gestire il potere o di vivere nel sociale.
E qui veniamo al punto che ci interessa.
La confusione propugnata come fattopositivo, o non combattuta, costituisce, a mio modo di vedere e per i motivi che ho cercato di illustrare, una delle principali cause del malessere sociale e giovanile in particolare.
Malessere, si badi, spesso esperito e vissuto dagli adolescenti senza consapevolezza e coscienza, ma solo come una forma di disagio esistenziale, estrinsecato magari attraverso disagi fisico-somatici (anoressia, bulimia), comportamenti tossicomanici, antisociali o autodistruttivi.
Un illuminante approfondimento psicoanalitico dei danni della confusività e della non differenziazione lo si trova nel saggio di Simona Argentieri L’ambiguità (2008), nel quale si mostra quanto la confusione si manifesti nella forma dell’ambiguità (spesso supportata dalla malafede) e quanto la nostra società sia confusiva.
Nel saggio si illustrano gli ambigui e molteplici comportamenti pubblici delle figure che dovrebbero avere un ruolo, se non di guida, almeno di esempio e si spiega come tutto questo sia rovinoso per la salute mentale dei singoli individui, per i rapporti lavorativi nelle organizzazioni, per i rapporti sociali nella comunità e, in ultima istanza, per la convivenza civile.
Come a dire che confusione e ambiguità sono causa ed effetto, al contempo, di comportamenti delinquenziali e omertosimafiosi, (7) poiché è nella confusione, nell’ambiguità, nella mancanza di chiarezza, nella vischiosità delle relazioni che prosperano l’intrigo, il delitto, la manipolazione, ovvero tutto ciò che è, per definizione, antidemocratico e naturalmente, per restare al nostro ambito, antieducativo.
In termini psicoanalitici possiamo dire che la confusione e l’ambiguità sono funzioni psichiche proiettive, ovvero quelle per cui si espelle dalla propria mente e dal proprio sentire tutto ciò che è problematico, attribuendolo o scaricandolo sugli altri, colpevolizzandoli, senza mai prendersi la responsabilità di ciò che si fa, si pensa, si sente.
La confusione e l’ambiguità, dunque, sono il frutto del rifiuto di assumersi le proprie responsabilità e quindi di fare l’esperienza della conflittualità.
E in definitiva l’indifferenziato e il confusivo hanno una funzione di rifugio regressivo contro le angosce della vita e il doversi confrontare con i suoi limiti e le sue limitazioni.
Ma va anche precisato che una certa confusione e un certo disorientamento sono, per così dire, normali nella misura in cui l’incontro con il nuovo, se è davvero incisivo e non relega l’esperienza conoscitiva a mero fatto intellettualistico, e quindi difensivo, è sempre fonte di incertezza.
Infatti, quello che si sperimenta nell’esistenza umana, ad esempio quando si incontra un’altra persona o ci si confronta con una nuova esperienza, comporta sempre una certa dose di angoscia confusionale, come qualcosa che è intrinseco nel processo di conoscenza, la paura di perdere le proprie possibilità di pensare.
Una conoscenza significativa dunque è — per definizione — sempre disorientante poiché scardina il modo di vedere precedente e obbliga a confrontarsi con difficoltà, irritazioni, rifiuti.
Di una certa confusività quindi bisogna fare tesoro e non spaventarsi, ma piuttosto riflettere sul perché si provano delle confusioni e in che misura ci sono delle difficoltà a mettere insieme dei punti di vista che talvolta sono realmente diversi.
A questo punto del mio discorso devo tuttavia fare una precisazione: ciò che intendo stigmatizzare non è la confusione in sé che, come si è detto, fa parte del normale sviluppo psichico dell’adolescente, ma la sua idealizzazione da parte degli adulti — questa sì patologica — che va a colludere con l’idealizzazione degli adolescenti e sconfina, consciamente o inconsciamente, nell’ambiguità.
Un po’ come se, per riprendere l’esempio precedente degli Emo, un genitore che si accorgesse che il proprio figlio partecipa a gruppi di tal fatta, anziché aiutarlo a uscirne e a elaborarne le problematiche sottostanti, lo incoraggiasse e lo approvasse.
O come se — e purtroppo sovente capita — non se ne accorgesse nemmeno e se ne disinteressasse.
O, addirittura, se ciò lo divertisse.
Dunque, della confusione e dell’ambiguità ciò che va stigmatizzato è il suo «andare al servizio della contraddizione e della malafede» (Argentieri, 2008, p.
103).
Perciò, se in qualche misura è inevitabile e perfino fonte di creatività («è dal caos che è nato il mondo» come si dice!), va tuttavia risolta, altrimenti, anziché essere fonte di soluzioni innovative, creative appunto, diventa fonte di stagnazione, regressione, sofferenza.
Nello specifico, se in adolescenza la confusione è — relativamente — fisiologica e si configura come uno stato della mente in evoluzione, nel mondo adulto il prezzo che si paga è altissimo poiché si configura come una vera e propria patologia sociale, indicatrice di permanenza di stati mentali adolescenziali non elaborati e dunque forieri di varie problematiche che causano quel malessere, non solo più adolescenziale, di cui i giovani, per la loro fragilità emotiva intrinseca, sono drammaticamente tra i più colpiti e vittime.
Il mantenimento (o addirittura la promozione) di stati confusionali, se è consapevole e intenzionale, si configura come una vera e propria manipolazione delle coscienze, non solo eticamente condannabile, ma strutturalmente dittatoriale.
Se invece è inconsapevole, si configura come sintomo di grave patologia psichica (e sociale).
Evitare la confusione dovrebbe dunque essere, se non un imperativo categorico, almeno un costante e sorvegliato impegno morale (a maggior ragione per chi svolge funzioni educative o politiche) perché, come scriveva il filosofo Gianni Vattimo,8 «la confusione mentale non è un gioco innocente, un puro problema privato di letture mal digerite e di entusiasmi mal riposti», bensì «una minaccia che ci tocca tutti, magari senza mettere a repentaglio la nostra fisicità, ma con il rischio di ridurre alcune libertà, borghesi e banali, di cui godiamo» (1998, p.
24).
Tutto ciò comporta che coloro i quali ricoprono ruoli di responsabilità educativa o politica e che, in quanto tali, dovrebbero svolgere una funzione protettrice ed evolutiva, non dovrebbero mai essere o farsi complici degli aspetti più regressivi e distruttivi.
Nel sociale si osserva a vari livelli la presenza di confusioni o la loro idealizzazione — propria di stati mentali adolescenziali non risolti —, che sconfina immediatamente nell’ambiguità e nel suo elogio.
Ne indicherò alcuni per esemplificare concretamente quanto sto affermando.
i Barbera 5.
Quale aiuto da parte degli adulti? In questa prospettiva è evidente che chi svolge funzioni educativo-formative con una popolazione adolescente dovrebbe non solo essere consapevole di queste problematiche, complesse e delicate, ma anche evitare, per conto suo, di intralciare il processo di crescita di soggetti che sono impegnati in una battaglia psicologica così vitale, opponendo competenza a confusione, chiarezza di relazioni a vischiosità, ascolto a imposizioni, presenza a disinteresse, tolleranza ad autoritarismo, riflessioni in comune a direttive calate dall’alto da supposti esperti.
Compito degli adulti — genitori e educatori vari — dovrebbe perciò essere quello di aiutare gli adolescenti a elaborare questa confusione o almeno di creare delle condizioni in cui i giovani e gli adolescenti possano pensare e crescere.
Infatti, senza questo aiuto gli adolescenti si sentono privi di punti di riferimento, con i quali magari anche contrapporsi, ma tali da poter offrire loro un contenimento.
Allo stesso tempo e allo stesso modo, compito di una società «sana» dovrebbe essere quello di creare, nelle sue varie componenti, le condizioni in cui i giovani possano essere aiutati a evolvere emotivamente, oltre che a discernere intellettualmente, sviluppando un pensiero critico e non un’omologazione addormentata su modelli consumistici o superficiali veicolati da ipnosi collettive o mass-mediatiche.
Invece, muoversi nella direzione opposta, con messaggi contraddittori o ambigui o con vere e proprie mistificazioni della realtà attuale e storica, è il modo più sicuro non solo per non fermare il disagio e la violenza giovanile, ma anche per incrementarli cinicamente.
Il modo «giusto» di porsi verso l’adolescente consiste dunque nel cooperare con lui, nell’ascoltarlo più che nel dargli veri e propri consigli, anche se è vero che l’adolescente va un po’ guidato.
L’apparente contraddizione si risolve laddove si pensi che si può essere guida per l’adolescente non necessariamente impartendo ordini e distribuendo direttive, ma piuttosto accettando che i consigli dati vengano discussi dal giovane, magari criticati e contestati.
Anche la disciplina, seppure mal tollerata, è necessaria perché è un mezzo per proteggere l’adolescente dalle sue forze distruttive interne.
Ma le proibizioni e le norme disciplinari all’interno della scuola, come nella vita quotidiana, hanno senso solo se vengono spiegate, se l’adulto fa sentire al giovane che sono dettate da una reale preoccupazione per lui e per il suo sviluppo, non da una mera attenzione per un astratto rispetto delle norme o, peggio, come intrusiva forma di controllo.
Infatti, se percepisce tutto questo come delle mansioni riduttive, infantilizzanti, che gli tolgono autonomia e identità, anziché come qualcosa proposto in funzione della sua crescita, per fargli acquisire nuove potenzialità, l’adolescente è riluttante ad accettare norme e direttive disciplinari.
Inoltre, poiché l’adolescente non esaurisce le sue informazioni e le sue possibilità di incontro nell’ambito scolastico, può capitare che viva i carichi di studio e di proibizioni come un ostacolo che lo intralcia nella possibilità di fare nuove esperienze di vita.
Perciò va «maneggiato» con cura e, nel suo processo evolutivo, va assistito da un adulto che sappia condurlo fuori dalla confusione facendosi gradualmente da parte.
In concreto l’adulto potrà, ad esempio, parlare all’adolescente delle sue paure, talvolta perfino delle sue disperazioni.
Non certo formulando spiegazioni razionalizzanti o tirando in ballo l’inconscio; tanto meno incasellandolo in quadri diagnostici che emotivamente denotano solo il bisogno di distanziarsi dall’adolescente; non tanto dandogli esortazioni o peggio norme moralistiche («non fare così, fai questo, reagisci, ecc.»), ma parlandogli invece della sua angoscia, dei suoi timori e delle sue speranze.
E accettando anche che il giovane possa non voler parlare o interagire con l’adulto (genitori, insegnanti o educatori vari) ma voglia tenersi i suoi problemi per sé, come a difesa della propria privacy, ossia dei propri spazi mentali interni.
In ogni caso, il primo atto che dovremmo compiere dovrebbe essere quello di resistere alla tendenza di etichettare il comportamento e avere pazienza per capire meglio che cosa sta succedendo non solo all’altro ma in primo luogo a noi stessi, nel momento in cui siamo in relazione con quel particolare soggetto (che, ad esempio, ci irrita o ci offende).
Le indicazioni che ci giungono dalla prospettiva psicodinamica per quanto riguarda le operazioni mentali e relazionali che promuovono il benessere dei giovani sono dunque molto precise: aiutare a contenere l’angoscia e a modularla, piuttosto che a difendersene o addirittura a evacuarla dalla propria mente.
In parole povere, aiutarli a entrare in contatto con i propri sentimenti e le proprie emozioni o, per dirla con uno slogan, aiutarli a dare conoscenza ai sentimenti e sentimenti alla conoscenza.
Se è vero, per citare la ben nota affermazione di Pascal, per cui il cuore ha le sue ragioni che la ragione non conosce, altrettanto potremmo dire della crescita ovvero che la crescita, intesa come fatto mentale, vuol dire imparare a conoscere le ragioni del cuore, ma anche dare cuore alla ragione.
Dunque, i fattori che favoriscono il benessere psichico e la salute mentale dei giovani (ma non solo) possono essere considerati come equivalenti alla capacità di riconoscere, tollerare ed elaborare la sofferenza psichica, cioè come equivalenti alla capacità di contenerla o alla possibilità di essere aiutati a contenerla.
Viceversa, i fattori che la ostacolano o inibiscono sono identificabili nelle forze distruttive della mente la cui mancata elaborazione e integrazione dà luogo, come ricordano Meltzer e Harris (1983, p.
3), alla perdita di attitudini e capacità intellettuali, di abilità linguistiche e, in generale, a un impoverimento della vita sessuale e delle relazioni amorose che favorisce l’instaurarsi di una sessualità perversa, lo sviluppo di tendenze antisociali o di forme di tossicomania e, in ultima istanza, di malattie mentali.
E, aggiungerei, allo sviluppo di anticonoscenza.
6.
Nuove competenze per gli educatori In primo luogo tutto ciò comporta una scuola che non si riduca a uno strumento di sola preparazione tecnica, perché in tal caso sarebbe (è) una scuola inadeguata.
Ma in secondo luogo comporta anche un insegnante/educatore che sia in grado di svolgere, oltre alle funzioni strettamente cognitive, anche le ineludibili funzioni affettive, poiché, così com’è necessaria una madre che abbia capacità di contenere per poter aiutare la strutturazione del Sé del bambino (Winnicott chiama questa funzione holding), altrettanto potremmo dire: nei processi educativi, è necessario che l’educatore sappia svolgere questa funzione per permettere all’adolescente lo sviluppo di un adeguato senso del Sé.
Di quest’ultima funzione gli insegnanti e la scuola sono ampiamente carenti, limitandosi per lo più a fornire informazioni senza che vi sia la possibilità di discutere, approfondire, confrontarsi ed essere supervisionati sui vari casi che si presentano nella quotidianità.
Occorre dunque un insegnante che sappia riconoscere e gestire le dimensioni emozionali, relazionali, soggettive — in una parola psicologiche — che attraversano il processo di apprendimento e insegnamento e la mente del giovane.
Un contributo in questa direzione viene dall’insegnante o dall’educatore che possiede quelle che possiamo chiamare capacità o competenze relazionali, capacità di contatto o di contenimento, capacità di identificazione o empatiche.
Espressioni diverse per indicare la stessa cosa ovvero quella che ho chiamato, sulla scorta di Bion, la funzione psicologica della mente (Blandino, 2009).
Questa funzione (queste competenze, queste capacità) non è data «per natura», ma va attivata, acquisita e sviluppata tramite opportuni, coerenti e costanti processi formativi.
E dunque, al termine della mia disamina, devo dire che la condicio sine qua non per la promozione di condizioni di benessere mentale giovanile passa, in primo luogo, attraverso la presenza di operatori adeguatamente formati, emotivamente maturi e in grado di assumersi quella che mi piace chiamare la responbozza sabilità emotiva, ovvero la consapevolezza di come l’educatore si pone e di cosa accade nella sua mente quando interagisce con i suoi giovani interlocutori.
Perciò mi piace concludere citando il pensiero di Vittorio Foa — uomo della Resistenza, intellettuale e politico ebreo, perseguitato dal fascismo, uno dei padri dell’Italia liberata, esponente di spicco del movimento di liberazione Giustizia e Libertà — che, poco prima di morire, rispondendo a un’intervista giornalistica sui problemi della scuola, dell’ educazione e della formazione dei giovani e sulle necessità che comportano, osservò che abbiamo dimenticato qual è il ruolo dell’esempio: «un insegnante» disse «prima di tutto deve dare l’esempio!».
NOTE 1 Questa proposta di definire l’adolescenza non solo come un periodo della vita e dello sviluppo umano ma, prima ancora, come uno stato della mente si collega ai concetti di stato mentale adulto e stato mentale infantile di Meltzer e Harris (1983).
Con tali espressioni non si designano momenti temporali, né si implicano giudizi di valore morale.
Lo stato adulto della mente è conseguente all’acquisizione della posizione depressiva (di kleiniana memoria, 1937; 1959) e quindi è sempre caratterizzato da intenzionalità.
Secondo Meltzer e Harris, l’individuo mentalmente adulto tende a porsi delle finalità ed è privo di qualsiasi idea di obbedienza a precetti morali che prescrivano o vietino determinati comportamenti, poiché questo comporterebbe un indebolimento del senso di responsabilità individuale che si fonda su scelte raggiunte attraverso conflitti di natura esclusivamente interiore (1983, p.
75).
Gli stati mentali infantili rappresentano, invece, l’opposto della posizione adulta e quindi in qualche modo l’opposto della salute mentale e delle capacità relazionali.
La persona che opera da una posizione mentale di questo genere al massimo potrà possedere delle abilità tecniche, ma certamente non delle capacità autentiche di operare, ascoltando e comprendendo.
Sono persone anche di successo pubblico e sociale ma emotivamente così immature da creare danni agli altri e ai gruppi nei quali operano, cui fanno pagare i loro successi esterni, a fronte della povertà emotiva interiore.
La struttura adulta della mente si forma molto presto e se ne possono individuare tracce anche in bambini molto piccoli, così come stati infantili sono ben presenti nella vita adulta.
2 È la cosiddetta «élite senza potere», di cui parlava Alberoni nel 1973, costituita da sportivi, attori, personaggi dello spettacolo, personaggi massmediatici, ecc.
3 L’etimologia della parola «adolescente» ci dice molto delle vicissitudini emotive e psichiche di questo periodo della vita.
Infatti il termine deriva dall’omonimo latino adolescens e significa «in via di crescita», essendo composto dalla preposizione «ad» e dal verbo «alere» (da cui anche «alunno »), cioè alimentare e nutrire.
L’adolescente dunque, come ci mostra la storia della parola, è un essere in via di crescita che ha bisogno di essere nutrito e alimentato.
Non solo fisiologicamente, ma anche mentalmente.
4 Questo paragrafo riprende parti della trattazione sulle problematiche adolescenziali che ho svolto nel cap.
5 del testo La disponibilità ad apprendere (2002a) e nel cap.
12 del testo Le risorse emotive nella scuola (2002b).
Entrambe le opere sono state scritte in collaborazione con B.
Granieri.
5 Chi volesse averne una riprova pratica e visiva, e non volesse andare a cercarli in qualche piazza delle nostre città — Roma in primis —, ne può trovare ampie esemplificazioni dal vivo digitando su you tube il termine «emo».
Oppure può vederne una simpatica caricatura nel recente film di Verdone Io, loro e Lara.
6 Anche se il lettore mi permetterà di rivendicare, senza ombra di presunzione, la mia personale e costante attenzione a muovermi, didatticamente, con i miei studenti, nella direzione di aiutarli a chiarire ciò che imparano durante il loro percorso universitario.
Atteggiamento che tengo propro in conseguenza di ciò che sto enunciando e stigmatizzando.
7 Anche la mafia, prima di essere una tragica realtà criminale reale, è uno stato della mente, fondato sulla menzogna, l’occultamento, la falsità.
Lo stato mafioso della mente è quello in cui le istanze psicopatologiche personali la fanno da padrona, impedendo la conoscenza e l’autoconoscenza, evitando omertosamente di far parlare tra loro parti di sé, in un quadro persecutorio, onnipotente e delinquenziale che appartiene a una logica di funzionamento primitivo di tipo schizoparanoide.
Infatti, sappiamo che, se ragioniamo dal punto di vista psicoanalitico, il mentire è il segno più grande della perversione, mentre la salute mentale si fonda sulla ricerca della verità, come già sosteneva Freud e ribadì Ferenczi.
Per parte sua Bion ricordò che la verità è il nutrimento della mente mentre la bugia ne è il veleno (cfr.
anche Blandino, 2009, cap.
21).
A conforto di quanto vado dicendo, voglio citare un’intervista di qualche anno fa, dell’allora procuratore antimafia Vigna, il quale disse: «il mafioso, per definizione, mente.
Mente sempre».
Possiamo perciò ritenere che ogni gruppo sociale, ampio o piccolo che sia, se si fonda sulla menzogna è strutturalmente mafioso, indipendentemente dal fatto che poi abbia anche delle vere e proprie declinazioni criminali.
8 A proposito di un film censurato e di un articolo confuso che difendeva la censura in nome di presunti valori cristiani.
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In questa prospettiva l’autore sostiene che l’adolescenza, prima di essere un periodo reale, è uno stato mentale che può caratterizzare qualunque persona, in qualunque periodo della vita; e che, se i giovani adolescenti trovano un mondo adulto che permane in questo stato mentale, difficilmente avranno la possibilità di sviluppare benessere emotivo, ma più spesso svilupperanno disagi sfocianti in varie manifestazioni patologiche individuali e sociali.
Il compito primario di un educatore è dunque quello di assumersi la responsabilità emotiva della propria mente, attraverso un adeguato, approfondito, organico e prolungato processo di formazione.
2.
Dinamiche psicologiche dell’adolescenza (4) Mentre il mondo infantile è un mondo relativamente stabile, da un punto di vista emotivo, l’adolescenza, come ricorda Anna Freud (1969), si configura come un periodo di grandi mutamenti corporei, intellettuali, affettivi e sociali, che hanno un rilevante contraccolpo sul mondo interno del giovane e sul suo modo di vivere ed elaborare le esperienze con cui viene in contatto.
Anche da un punto di vista prettamente cognitivo, si osservano cambiamenti nella sfera intellettiva che spingono l’adolescente a porsi molte domande su di sé, a ragionare e a riflettere sui grandi temi della vita (Piaget, 1969).
A causa di tutti questi mutamenti, nell’adolescenza si inizia ad abbandonare gli schemi di adattamento che erano tipici dell’infanzia (cfr.
Josselyn, 1971) e a sperimentare nuovi modi di comportamento per risolvere i propri problemi.
I quali, però, per quanto siano molteplici, complessi e diversificati, hanno una finalità comune: la conquista della propria identità (Erikson, 1968).
L’adolescenza, dunque, è un processo di sviluppo nel quale l’individuo è orientato alla conquista di uno stabile senso del Sé (Spiegel, 1964), per raggiungere il quale compie un drammatico e spesso tormentato lavoro interiore passando attraverso conflitti e confusioni, prove ed errori, confronti e scontri, paure ed emozioni, in una situazione di incertezza e di dolore che costituisce il risvolto emotivamente più impegnativo.
Il soggetto di età adolescenziale si trova dunque a vivere un’alternanza tra essere grande, adulto e fare quindi cose da grande — talvolta anche realmente pericolose — e al contempo essere piccolo, bambino e avere bisogni da bambino.
Perciò, mentre conserva ancora bisogni di protezione, di tipo materno, manifesta contemporaneamente una necessità di indipendenza e quindi una scarsa sopportazione della protezione.
Così, nella battaglia per crescere, gli adolescenti attraversano un conflitto, tipico di questa età, tra uno stato di dipendenza e la lotta per affrancarsene.
È per tale motivo che Meltzer afferma che gli adolescenti sono «costituzionalmente» ribelli (1978).
Un adolescente che non fosse in una certa misura ribelle sarebbe problematico.
Per questi motivi, un certo atteggiamento contestativo fa parte del processo di crescita dell’adolescente: dunque vediamo che l’adolescente, da una parte, ha bisogno di figure significative dal punto di vista educativo ma, dall’altra, ne ha bisogno per contrapporsi in modo da avere un termine di paragone, di confronto, a partire dal quale esplorare la sua capacità di autonomia mentale e a partire dal quale potersi successivamente separare.
Perciò apprezza quell’adulto che è così forte e autorevole da accettare le sue critiche e da tenergli testa.
Questo atteggiamento è un modo per esplorare il mondo e se stessi, in vista della propria crescita, ed è da intendersi non soltanto come una provocatoria ribellione contro gli adulti o come espressione di distruttività, ma anche come espressione di un momento di riorientamento in funzione dell’acquisizione di una propria autonoma identità.
Pertanto, anche una certa impudenza nel linguaggio e nel comportamento, la resistenza ad accettare le norme sociali proprie del comune vivere tra adulti, o comportamenti quali l’irrequietezza, l’incostanza, la scherzosità pesante sono da considerarsi come fenomeni propri dell’adolescenza e vanno quindi concepiti come rientranti nella normalità (cfr.
Redl, 1969).
In questa alternanza di stati mentali e stati d’animo, l’adolescente spesso non sa davvero che cosa sia realmente.
In rapporto a questo conflitto tra bisogno di autonomia e bisogno di dipendenza, Meltzer (1978) osserva che la comunità degli adolescenti si pone a metà strada tra la comunità del bambino, nell’ambito familiare, e la comunità del mondo adulto; ogni singolo adolescente «si sposta avanti e indietro in queste tre comunità»: cerca di entrare nel mondo adulto, mentre tenta di lasciare il mondo dei bambini.
Va verso il mondo adulto agendo nel mondo esterno per mezzo di rapporti sessuali, successi scolastici, affermazioni sociali.
Viceversa, si muove verso il mondo infantile con i sogni, gli ideali, le speranze, gli interessi autentici per gli altri, ma vive questi stati d’animo come una minaccia, come un rischio di restare o ritornare bambino.
Paradossalmente ciò che lo fa crescere e lo rende adulto (emotivamente adulto) è la capacità di provare sentimenti, di interessarsi agli altri, di operare nel sociale, ma tutte queste qualità vengono da lui vissute come un qualcosa che lo infantilizza, mentre ciò che ritiene lo faccia avanzare nel mondo dei grandi — l’invidia, l’avidità, la crudeltà, l’ipocrisia — lo fa in realtà regredire.
La sua sensazione, come evidenzia Meltzer, è che per crescere debba essere spietato e avere successo, ritenendo questi i valori positivi, mentre il provare sentimenti e il sentirsi fragile sono ritenuti fattori negativi che lo riportano indietro facendolo rimanere bambino.
Invece, nella realtà psichica, è esattamente l’opposto: il cinismo e la spietatezza sono ciò che gli impediscono di diventare adulto e responsabile, mentre sono proprio i sentimenti e la consapevolezza dei propri limiti che lo fanno crescere emotivamente (cfr.
Meltzer, 1978, p.
22).
L’adolescente cerca dunque di superare la confusione separando, dentro di lui, il Sé adulto dal Sé bambino.
Per questi motivi l’adolescente può apparire cinico e, in una certa misura, lo è realmente, come reazione a tutta una serie di disillusioni e di confusioni per ciò che accade dentro di sé, nel proprio mondo interno, nella propria mente.
E qui va detto che, contrariamente a quanto si pensa, l’adolescente non è preoccupato tanto di raggiungere soddisfazioni o successi sessuali, quanto di conoscere e capire.
Il suo problema è la conoscenza e il suo dramma sta nella difficoltà a comprendere e a comprendersi.
Le disillusioni riguardano soprattutto i genitori o gli adulti rappresentanti le figure genitoriali, in quanto sono stati idealizzati come onniscienti dall’adolescente, quand’era bambino, ma ora subentra la sensazione, insieme alla delusione, che il mondo adulto sia fatto di ipocriti.
L’adolescente vive allora gli adulti (e tra questi, in particolare, i genitori e gli insegnanti) come coloro che hanno il potere e il controllo delle cose e lo difendono da ogni intrusione.
È quindi portato a ritenere che la comunità degli adulti sia un mondo falso e ipocrita, mentre, parallelamente, disprezza i bambini considerandoli degli schiavi e degli illusi.
E qui entra in gioco il ruolo fondamentale, dal punto di vista psicologico, che ha il gruppo per gli adolescenti.
Infatti, «preso in mezzo» tra questi due gruppi — interni e mentali prima ancora che sociali — in cui non si riconosce più (il gruppo infantile) o in cui non si riconosce ancora (il gruppo adulto), l’adolescente sente che nessuno può aiutarlo nella sua — reale — sofferenza interiore e che gli unici con cui condividere i propri problemi sono i compagni, con i quali l’adolescente realizza una coesione e una collusione in contrasto con gli altri due gruppi.
Così, pur avendo ancora bisogno degli adulti, è prevalentemente con i propri coetanei che l’adolescente condivide e cerca di elaborare ansie, dubbi, paure, desideri e confusioni, cioè tutta quella serie di problemi che attraversano l’età adolescenziale e che abbiamo detto essere connessi all’elaborazione della propria identità.
Insieme, tra loro, gli adolescenti si sentono isolati e in una posizione di incomunicabilità sia con i bambini che con gli adulti.
Quindi, solo il gruppo dei coetanei è sentito come quello che può compartecipare e comprendere i conflitti, l’unico con il quale condividere questa sensazione di solitudine nell’affrontare i propri conflitti interni, dei quali non sempre il giovane è consapevole.
La possibilità di trovare aiuto e dialogo viene pensata possibile solo con i pari che, peraltro, soffrono di queste stesse difficoltà.
Il gruppo di coetanei per l’adolescente è dunque di fondamentale importanza: un mezzo per elaborare e aiutare a sopportare i propri conflitti interni e per mettersi in contatto con il sociale (Palmonari, 1985); un luogo di elaborazione ideologico-culturale; il criterio di riferimento nella soluzione dei problemi.
A questo proposito Josselyn diceva: «un adolescente, che non si conformasse ad alcuno del suo gruppo, dovrebbe esser tenuto attentamente sotto osservazione, poiché un contegno così atipico sarebbe certo foriero di gravi turbe emotive o mentali» (1971, pp.
51-52).
Così osserviamo che i giovani adolescenti sono tanto anticonformisti nei confronti del mondo degli adulti, quanto conformisti nei confronti dei coetanei e rigidamente osservanti delle norme e regole, abitudini del gruppo, formali e informali, esplicite e implicite.
Il che produce tutta quella serie di fenomeni che si configurano come conformismo, fino alle forme più gravi e decisamente antisociali o delinquenziali quali l’appartenenza a bande.
E osserviamo anche quei classici comportamenti adolescenziali quali il muoversi in branco, il seguire certi «modi» o l’usare determinati e comuni atteggiamenti, linguaggi o gerghi, l’occupare il tempo non scolastico con rituali apparentemente stereotipati, il vestirsi tutti nella stessa maniera come modo per affermare tanto un atteggiamento, quanto un’appartenenza di gruppo, vale a dire una «divisa».
Anzi spesso è proprio grazie all’abito (talvolta, purtroppo, «solo» grazie all’abito), a ciò che significa e allo status che è in grado di comunicare, che gli adolescenti trovano una qualche identità, esteriore certo, ma tale proprio perché manca quella interiore.
Tutti questi comportamenti pertanto si possono comprendere meglio se li interpretiamo
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