II termine “laico”, nonostante l’attuale accezione dominante, ha sostanzialmente una genesi “religiosa” (designava, infatti, il semplice fedele “popolare” – da laós, in greco “popolo” – rispetto alla gerarchia ecclesiastica).
Per impostare il discorso sulla laicità è legittimo risalire a una scena evangelica, così nota da diventare proverbiale.
È l’unico pronunciamento direttamente politico di Gesù.
Egli viene provocato dai suoi avversari a intervenire sulla questione fiscale, ossia sul tributo imperiale da versare da parte dei cittadini dei territori occupati da Roma.
La replica di Cristo è lapidaria: «Ta Kaisaros apodote Kaisari kai ta Theou Theo», «rendete a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio» (si può leggere l’episodio sia nel Vangelo di Matteo, sia in quello di Marco o di Luca).
Risposta tagliente e a prima vista netta nel tracciare una linea di demarcazione che dovrebbe esorcizzare ogni teocrazia (la shari’a musulmana, per la quale il codice di diritto canonico diventa il codice civile, non è evangelica) e ogni cesaropapismo.
Tuttavia, il discorso è più sofisticato e complesso se si tiene conto della parabola in azione che si consuma attorno a quella frase.
Cristo, infatti, argomenta tenendo tra le mani simbolicamente una moneta con l'”immagine”, l’icona (eikon in greco) dell’imperatore, simbolo evidente della politica e dell’economia, alla quale viene riconosciuta una sua autonomia, un campo di esercizio proprio, una sua capacità e indipendenza normativa.
Ma ai lettori di oggi sfugge l’ammiccamento testuale ulteriore che Gesù introduce per il suo uditorio ebraico: nel libro della Genesi (1, 27) si ha una celebre e suggestiva definizione dell’essere umano come «immagine» (nella versione greca eikon, icona) di Dio.
Si delinea, in tal modo, un profilo specifico dell’area «di Dio» distinta da quella «di Cesare».
Si tratta della tutela della dignità superiore e inalienabile della persona e della sua natura intrinseca: la libertà, le relazioni, l’amore (nel passo della Genesi si rimanda esplicitamente al «maschio» e alla «femmina» e non al solo maschio come «immagine» divina), i grandi valori etici assoluti della solidarietà, della giustizia, della vita non possono essere meramente funzionalizzati all’interesse politico-finanziario e piegati esclusivamente alle esigenze delle strategie del sistema o del mercato.
La missione dei profeti biblici e dello stesso Cristo è stata appunto quella di essere una sentinella sulla frontiera tra Cesare e Dio, proprio nella difesa di questi valori.
Memorabile è il «Non ti è lecito!» che Giovanni Battista grida all’arroganza del potere del re Erode Antipa.
È, però, indiscutibile che la questione si aggrovigli quando si procede nella declinazione storica di questa visione di principio, proprio perché entrambi gli attori, Cesare e Dio, ossia lo Stato e la Chiesa o il laico e il credente, si interessano di un soggetto comune, la società fatta di uomini e donne, e quindi i contrappunti e i conflitti di giudizio sono sempre in agguato.
Ci si è, così, lasciati spesso tentare dalle scorciatoie.
Da un lato, si è configurato il progetto teocratico, talora esplicito oppure solo sognato: «Questo tempio è il mio paese, non ne riconosco altri», proclamava il sommo sacerdote ebreo nella Atalia di Racine.
E proprio perché a gestire questo disegno era il clero, prevalente rispetto ai laici, cioè i semplici fedeli, il termine “clericale” ha acquisito una connotazione sospetta o essenzialmente negativa.
D’altro lato, però, prendeva contemporaneamente corpo la spinta opposta, caratterizzata da un atteggiamento di protesta contro il distendersi del manto sacrale, ma anche dallo stizzito desiderio di ridurre alle corde la casta religiosa, espellendola radicalmente dalla polis per relegarla nel ristretto spazio templare, tra le volute degli incensi e i melismi dei canti liturgici.
È in questa linea che il termine “laico” acquistava l’accezione ora dominante, spoglia di qualsiasi radice religiosa originaria, e si trasformava nell’orgogliosa affermazione dell’assoluta indipendenza e del primato della politica sulla religione.
Lo stesso motto – spesso celebrato come applicazione del citato detto evangelico – della «libera Chiesa in libero Stato» in verità ha sotteso non un concetto di parità ma di subordinazione: è lo Stato che assegna alla Chiesa il diritto di sussistenza, confinandola però nella coscienza dell’individuo o nel perimetro sacrale del culto.
A questo punto, a essere più rigorosi, dobbiamo distinguere tra “laicità” («rendete a Cesare ciò che è di Cesare») e “laicismo” (che elide o reprime il «rendete a Dio ciò che è di Dio»), vocaboli che non sono sinonimi, così come non si devono identificare “secolarità” e “secolarismo” (o “secolarizzazione”), fermo restando che la stessa distinzione vale tra “religiosità” e “teocrazia”.
La laicità è strutturalmente necessaria anche per una corretta dottrina teologica; il suo mancato rispetto attraverso intromissioni “clericali” esplicite o surrettizie genera disordine e crea tensioni che si riverberano in altri campi paralleli, come sono quelli della scienza e della fede o della ragione e della natura e così via.
Il monito di Schelling, rivolto allo storico e al teologo, a «custodire castamente la propria frontiera» è del tutto pertinente, anche se facilmente declassato sotto l’impulso delle questioni aperte che spesso si insediano appunto sulla frontiera di entrambi i campi.
Detto questo e proprio sulla base dell’impostazione ora descritta, è necessario riconoscere in modo parallelo la libertà di parola e di azione all’area di Dio (per usare la distinzione di Cristo, cioè della religione).
Questo implica non solo l’esercizio del culto e l’elaborazione del pensiero teologico in senso stretto, bensì anche la funzione di essere coscienza critica nei confronti dei valori personali e sociali della giustizia, del bene comune, della vita, della verità, nella consapevolezza che l’uomo e la donna trascendono il pur legittimo ordinamento economico-politico, dotato di sue norme proprie.
Il nodo delicato è precisamente in questa interazione indispensabile, capace di impedire che lo Stato diventi un Moloch e l’economia un Leviatan dominatore e che la Chiesa debordi dal suo orizzonte assumendo forme di integralismo.
Ai nostri giorni la “laicità”, però, si sta accendendo sempre più di un costante sdegno, indispettito e insofferente nei confronti di ogni dichiarazione religiosa di indole civile o sociale, senza cercare prima di vagliarne il merito, se etico oppure fondamentalistico.
In causa è chiamato soprattutto il cristianesimo che è di sua natura “incarnazione”, e quindi non si isola nei cieli mitici e mistici, ma proclama la dignità della “carne “, cioè dei grandi valori umani e la lettura del Vangelo ne è un’immediata conferma.
La religione cristiana autentica e completa ha nel suo stesso Dna una vocazione “sociale”.
Chesterton osservava che «tutta l’iconografia cristiana rappresenta i santi con gli occhi aperti sul mondo, mentre l’iconografia buddhista rappresenta ogni essere con gli occhi chiusi nella contemplazione interiore».
Tuttavia, nelle pagine neotestamentarie, giustamente non si ha mai un progetto politico alternativo in senso stretto; san Paolo si colloca all’interno del sistema imperiale romano, come è indicato nel famoso paragrafo della Lettera ai Romani (13, 1-7) dedicato all’etica fiscale da rispettare, così come san Luca negli Atti degli Apostoli riconosce la sostanziale bontà del diritto romano nei confronti dei suoi cittadini (tra i quali è annoverato appunto anche Paolo).
Questo, però, non esclude che l’autore dell’Apocalisse promuova una serrata critica nei confronti delle prevaricazioni del potere imperiale, colpendo in questo modo la politica repressiva di Domiziano, né si può ignorare che il cristianesimo abbia esercitato una funzione dirompente all’interno del modello sociale dei primi secoli per accelerare il trapasso a una società segnata dall’uguaglianza e dalla coesione fraterna, demolendo l’impianto tradizionale fondato sulla distinzione castale tra liberi e schiavi, indigeni e stranieri, maschi e femmine («Non c’è più né giudeo né greco; non c’è più schiavo né libero; non c’è più né uomo né donna, perché voi siete tutti uno in Cristo Gesù», scrive l’Apostolo Paolo ai Galati).
Senza, perciò, nasconderci le difficoltà pratiche delle collisioni nell’interazione tra i due ambiti, senza voler essere a tutti i costi concordistici e irenici nell’esorcizzare ogni tentazione integristica, sia essa secolaristica o sacrale, riteniamo che sia sempre importante ribadire i principi che reggono gli statuti propri delle diverse sfere di pensiero e di azione.
“Sacro” e “laico” non sono antitetici, pur essendo in radice differenti.
Sbaglia il “sacralismo” clericale quando sogna di “consacrare” il profano ritenendolo in sé negativo, cancellandone l’identità, così come è in errore il “laicismo” secolaristico quando programma l’eliminazione di ogni segno religioso nell’areopago della società come presenza illegittima e indegna e disdegna ogni monito spirituale e morale, considerandolo come un’interferenza inaccettabile.
Il sacro autentico non si oppone né vuole elidere il profano, ma lo chiama a dialogo, lo interpella e ne è interpellato, lo feconda rispettandone le competenze, lo provoca sui valori fondanti e permanenti dell’etica.
Interrogarsi reciprocamente scoprendo il terreno di condivisione è il dialogo necessario che allontana il rigetto o la “con-fusione”.
L’esito finale positivo potrebbe essere quello che Gandhi delineava in questo suo settenario ideale: «L’uomo si distrugge con la politica senza principi etici, con la ricchezza senza lavoro, con l’intelligenza senza il carattere, con gli affari senza morale, con la scienza senza umanità, con la religione senza la fede, con la solidarietà senza il sacrificio di sé».
di Gianfranco Ravasi in “Il Sole 24 Ore” del 6 febbraio 2011
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