«Der Mensch ist was er isst»: questa frase, assonante in tedesco, scritta dal filosofo Feuerbach sulla rivista «Blätter für literarische Unterhaltung» del 12 novembre 1850, sarebbe presto divenuta una sorta di vessillo del materialismo.
Che l’uomo sia ciò che mangia in verità è passibile, però, di un’altra interpretazione, dato che il cibo in tutte le culture è anche un simbolo di comunione nella gioia (si pensi alle parabole nuziali di Gesù che comprendono un banchetto), nel dolore («mangiare il pane del lutto» è una nota locuzione biblica, e i pasti funebri sono ancor oggi praticati in molte nazioni), nell’ospitalità (basti leggere la deliziosa scenetta narrativa di Abramo che accoglie i tre ospiti ignoti nel capitolo 18 della Genesi).
Aveva ragione il magistrato francese Anthelme Brillat-Savarin quando osservava nella sua celebre Fisiologia del gusto (1825) che «gli animali si nutrono, l’uomo mangia, l’uomo di spirito pranza».
Se ci avviassimo sulla strada della simbologia religiosa del cibo, dovremmo, in pratica, allestire un intero orizzonte metaforico: c’è il banchetto pasquale esodico, quello liturgico dei «sacrifici di comunione» nel tempio con le carni immolate, c’è il banchetto messianico ed escatologico, segno di pienezza e di gioia, c’è quello sapienziale di stampo etico (si legga il capitolo 9 dei Proverbi) e c’è la cena eucaristica di Cristo, per non parlare poi della morale raffigurata proprio in apertura alla Bibbia con l’immagine di un frutto «buono da mangiare, gradevole agli occhi e desiderabile», quello dell’albero della conoscenza del bene e del male (Genesi 3,6).
Noi ora ci accontenteremo solo di porre su un’ideale tavola due cibi molto semplici: il pane e il vino.
Paul Claudel nel suo Annunzio a Maria scriveva: «Interroga la vecchia terra, ti risponderà col pane e col vino».
Essi sono gli archetipi dell’alimentazione, tant’è vero che in ebraico lehem, «pane», ha la stessa radice del vocabolo che indica la «guerra», proprio perché si tratta di una conquista primaria dell’esistenza.
Naturalmente la nostra lettura avrà un taglio simbolico cristiano.
Osserviamo innanzitutto che i pranzi hanno un rilievo curioso all’interno della storia di Gesù.
Egli, infatti, accetta spesso di sedere a mensa, senza badare molto alle persone che lo invitano: una volta è un fariseo ad averlo come ospite, altre volte è un pubblicano come Zaccheo o Matteo.
Anzi, a un certo momento si mormorerà di lui: «Costui riceve i peccatori e mangia con loro» (Luca 15, 2).
Inoltre Gesù ama usare il simbolo del banchetto, soprattutto nuziale, per parlare del Regno di Dio: si pensi alla parabola degli invitati a nozze (Matteo 22, 1-14) o a quella delle vergini stolte e prudenti (Matteo 25, 1-13).
Si arriverà persino a dire che egli è «un mangione e beone, amico dei pubblicani e dei peccatori», in contrasto con l’ascetico comportamento del Battista «che non mangia pane e non beve vino» (Luca 7, 33-34).
Nella tradizione cristiana le due prime opere di misericordia «corporale» sono proprio il «dar da mangiare agli affamati e dar da bere agli assetati».
Ci sono due scene emblematiche al riguardo nella Bibbia.
La prima è quella in cui Dio si premura di procurare – come un padre di famiglia – il cibo e l’acqua al suo popolo in marcia nel deserto (l’acqua che scaturisce dalla rupe, la manna e le quaglie).
L’altra scena è quella di Gesù che imbandisce una mensa di pane e di pesci per la folla che lo sta seguendo, moltiplicando quel poco cibo che era a loro disposizione.
A questo punto dedichiamo la nostra attenzione al pane.
Un autore spirituale, il gesuita Charles Pierre, dichiarava: «Il pane conserva quasi una maestà divina.
Mangiarlo nell’ozio è da parassita; guadagnarlo laboriosamente è un dovere; rifiutarsi di dividerlo è da crudeli».
Ora, nella Bibbia col pane si rimanda al cibo in senso generale, tant’è vero che «mangiare il pane» è un’espressione che significa semplicemente «cibarsi».
Nel Vicino Oriente non si può dare il pane agli animali; se si inciampa in un pane caduto per terra, lo si raccoglie e pulisce, e ancor oggi gli arabi non tagliano il pane col coltello per non “ucciderlo”, considerandolo quasi una creatura vivente.
Il pane dei poveri era di orzo, essendo il frumento raro e pregiato.
La farina era ottenuta attraverso macine rudimentali costituite da due pietre, l’una orizzontale, l’altra verticale ruotante.
La pasta era preparata in una madia di legno: una pittura egizia rappresenta i panettieri che impastano la farina con acqua, sale e lievito, schiacciandola coi piedi! È noto, però, che il pane più comune era quello azzimo, cioè una specie di sfoglia non lievitata, di facile preparazione nel deserto e senza forno (bastava una lastra riscaldata di pietra o di metallo).
Il vero impegno religioso – ammoniva Isaia (25, 7) – consiste nel «dividere il pane con l’affamato».
Anzi, come dovrebbe essere vero anche per noi cristiani (lo è per la stessa usanza musulmana del Ramadan), il digiuno non è una dieta o un gesto masochistico, bensì un atto penitenziale di distacco dal benessere per trasformarlo in un atto di carità per i miseri.
Esemplari sono ancora le parole di Isaia: «È questo il digiuno che io (il Signore) voglio: sciogliere le catene inique, togliere i legami del giogo, rimandare liberi gli oppressi e spezzare ogni giogo.
Non consiste forse (il vero digiuno) nel dividere il pane con l’affamato, nell’introdurre in casa i miseri, i senza tetto, nel vestire uno che vedi nudo, senza distogliere gli occhi da quelli della tua carne?» (58, 6-7).
Gesù, comunque, ha dato un rilievo spirituale ulteriore al pane: non si può non pensare all’eucaristia che nel linguaggio neotestamentario era definita come «la frazione del pane» (Atti 2, 42) perché con quel gesto si segnalava la comunione di tutti i fedeli con Cristo e tra loro.
In quel rito tipicamente cristiano in cui il pane diventa il corpo di Cristo che si dona e comunica ai credenti, si ha un’altra presenza “materiale” trasfigurata nel segno efficace del sangue di Cristo, ossia il vino: «Gesù prese il calice, rese grazie, lo diede loro dicendo: Bevetene tutti, perché questo è il mio sangue dell’alleanza, che è versato per molti per il perdono dei peccati.
Io vi dico che d’ora in poi non berrò di questo frutto della vite fino al giorno in cui lo berrò nuovo con voi, nel regno del Padre mio» (Matteo 26, 27-29).
Questa bevanda, però, aveva per la Bibbia anche un valore immediato e realistico, essendo espressione della festa e dell’allegria.
Il Salmo 104, 15 lo canta come ciò che «allieta il cuore dell’uomo».
L’era messianica è dipinta sotto immagini “enologiche”: «Verranno giorni in cui dai monti stillerà il vino nuovo e colerà giù dalle colline»; «Preparerà il Signore degli eserciti un banchetto di vini eccellenti, di cibi succulenti, di vini raffinati» (Amos 9,14 e Isaia 25, 6).
Nella Bibbia, a partire da Noè, il vino costituisce una presenza semplice e spontanea, con le sue capacità di generare gioia, amore, amicizia, festa ma anche con i suoi rischi.
Al riguardo evochiamo due passi molto brillanti.
Il Siracide, sapiente del II secolo a.C., scrive: «Non fare forte uso del vino perché ha mandato molti in rovina…
Il vino è come la vita per gli uomini, purché tu lo beva con misura.
Che vita è quella di chi non ha vino? Esso, infatti, fu creato per la gioia degli uomini.
Allegria del cuore e gioia dell’anima è il vino bevuto a tempo e a misura.
Amarezza dell’anima è il vino bevuto in quantità, con eccitazione e per sfida.
L’ubriachezza accresce l’ira dello stupido a sua rovina…» (31, 25-30).
Nei Proverbi, invece, si ha un ritratto vivace dell’ubriaco: «Non guardare il vino quando rosseggia, quando scintilla nella coppa e scende piano piano; finirà col morderti come un serpente.
I tuoi occhi vedranno cose strane e la tua mente dirà cose sconnesse.
Ti parrà di giacere in alto mare o di dormire in cima all’albero maestro…» (si legga Proverbi 23,29-35).
La religione cristiana non è, dunque, una vaga emozione interiore che ci invita a decollare dalla realtà verso cieli mitici e mistici.
È una fede legata ai corpi, alla storia, all’esistenza.
Una società sbrigativa e superficiale che ingurgita cibi a caso in un fast food, che ignora lo spreco alimentare, che si infastidisce quando si evoca lo spettro della fame nel mondo, che si oppone all’ospitalità, ha perso non solo la dimensione simbolica del cibo ma anche la spiritualità che in quel segno è celata.
Per questo ritornare alla civiltà e alla simbologia del cibo ha un valore culturale e spirituale.
Forse non esagerava lo scrittore inglese Charles Lamb, vissuto tra il Sette e l’Ottocento, quando nei suoi Saggi di Elia scriveva: «Detesto l’uomo che manda giù il suo cibo affettando di non sapere che cosa mangia.
Dubito del suo gusto in cose più importanti».
in “Il Sole 24 Ore” del 30 gennaio 2011
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