L’intervista T eologo della speranza e della croce, Jürgen Moltmann chiede ai cristiani di «riversarsi » nel mondo dei non credenti per annunciare quel Dio «che sta con i senza Dio».
Il pensatore protestante saluta come «urgente e necessaria» l’apertura di un confronto fra laici e cristiani su Dio, come suggerito da Benedetto XVI.
La sua riflessione si è incentrata sulla speranza.
Come essa può interagire nello scambio tra credenti e non credenti? «Non esiste una chiara linea di confine fra credenti e non credenti, come fra cristiani e musulmani.
La fede è universale come l’incredulità.
In ogni credente si trova l’incredulità ed in ogni ateo la fede.
In ciascun essere umano si svolge un dialogo fra fede e incredulità: ‘Signore, io credo, ma tu aiutami nella mia incredulità’, grida il padre del giovane malato nel Vangelo di Marco.
Nessuno è soddisfatto della propria incredulità.
La speranza è più ampia perché legata all’amore per la vita.
Speriamo finché respiriamo e, se dubitiamo e diventiamo tristi, la speranza persa ci tormenta.
Dove viene distrutta la speranza nella vita inizia la violenza e la morte».
Cosa offre «in più» la fede cristiana? «Il cristianesimo costituisce la ‘religione della speranza’: chi spera in Dio ha sempre aperti nuovi orizzonti.
La fede è fiduciosa speranza: il futuro non è estrinseco al cristianesimo, bensì l’elemento della sua fede, la nota su cui si accordano le sue canzoni, i colori con cui sono dipinti i suoi quadri.
Una speranza viva risveglia ogni nostro senso per il nuovo giorno e ci riempie di un meraviglioso amore per la vita, poiché sappiamo che siamo attesi e, quando moriremo, ci attende la festa della vita eterna.
La speranza abbraccia credenti e atei perché Dio spera in noi, ci accoglie e non abbandona nessuno ».
Lei ha scritto molto sulla Croce, che sembra non interessare più l’Europa.
Il Crocifisso può tornare ad essere eloquente? «La questione di Dio e del dolore è il punto di partenza del moderno ateismo europeo.
Muore un bambino, migliaia di persone vengono uccise, innocenti cadono per mano terroristica.
E dov’è Dio? All’antico interrogativo della teodicea non vi è risposta: se Dio è buono e onnipotente, perché la sofferenza? Se Dio vuole il bene ma non impedisce il dolore, non è buono.
La giustificazione migliore di Dio, dice chi lo denigra, è di non esistere.
Ma l’ateismo è una risposta? Se Dio non esiste, perché la sofferenza sulla terra? Non ci serve un Dio da accusare? Questa discussione mi è sempre parsa teorica».
Come affrontare tale scandalo? «Per chi è tormentato dal dolore non si tratta di avere una risposta a un perché: egli cerca un aiuto e una speranza per uscire dal dolore.
Quando ero in pericolo di vita non mi sono chiesto perché mi trovassi in quella situazione: ho domandato aiuto urlando.
Una divinità buona ed onnipotente non può aiutarci.
Al centro del cristianesimo si trova la passione di Dio sulla croce di Cristo.
In ciò si palesa una passione per la vita colma di compassione per le devastazioni della vita.
‘Solo il Dio sofferente può aiutare’ scrisse Bonhoeffer in cella guardando il Dio crocifisso.
Nel Cristo moribondo il dolore di Dio ha trovato la sua espressione umana: Dio soffre le nostre pene.
Cristo viene per cercare ciò che è perduto e lui stesso si dà per perso per trovare i persi.
Chi si avvicina a Cristo prende parte al dolore di Dio e percepisce la sua desolazione.
È successo a Giovanni Paolo II e a Madre Teresa».
Come valuta l’invito di Benedetto XVI per un nuovo dialogo tra credenti e atei? «L’iniziativa del Papa è eccellente, urgente e necessaria.
Se la teologia si ritira in spazi chiusi, la gente perde interesse verso Dio.
Non è solo un problema religioso, ma anche una questione pubblica.
Dopo il 1945 era molto viva la ricerca di Dio rispetto ad Auschwitz.
L’ateismo venne dibattuto così aspramente tanto che lo scrittore Heinrich Boll disse: ‘Non mi piacciono questi atei, parlano sempre di Dio’.
Dopo il riflusso nella felicità privata l’interesse verso Dio è scomparso.
Da allora è aumentato il numero di quanti lo hanno perso e non sentono la mancanza della fede.
Per instaurare un dialogo con costoro i cristiani devono lasciare le mura della Chiesa e andare nel mondo.
I preti operai francesi andarono nelle fabbriche, i teologi della liberazione andarono fra la gente oppressa e ne condivisero il destino.
Ora gli accademici vanno tra i colti e condividono i loro dubbi ».
«Lumi, religioni e ragione comune » è il titolo del Cortile dei gentili a Parigi.
Come affrontare tali tematiche? «Quando Paolo ad Atene si riallacciò al ‘Dio sconosciuto’ non ebbe un grande successo.
Non si può pregare un Dio sconosciuto: non si sa se sia buono o cattivo.
Ma si può chiamare il ‘Dio nascosto’ e urlare.
Gli ebrei chiamano Hester panim il volto nascosto di Dio.
Chi lo percepisce, chiama a sé il volto manifesto di Dio.
Non so se l’espressione ‘dialogo’ sia giusta: un dialogo ha lo scopo di far conoscere meglio i dialoganti.
Esso finisce quando un interlocutore viene convinto.
Ciò non accade invece riguardo alle esperienze di Dio.
Perciò il discorso con i non credenti è molto diverso dal dialogo interreligioso.
Il confronto fra fede e incredulità esige che la Chiesa volga il suo cuore all’esterno.
Lo deve a tutti gli atei sinceri: di’ ciò che credi e credi a ciò che dici.
Prendi sul serio le domande e le accuse di chi non può credere, e cerca con lui una risposta da Dio.
Già troppo a lungo la gente ha relegato il cristianesimo nell’angolo della fede ed esaltato il dialogo fra le religioni per proseguire indisturbata la secolarizzazione.
È tempo che la fede cristiana esca dall’angolo: Cristo non ha fondato una nuova religione, ma ha portato una vita nuova!».
Lei ha scoperto Cristo durante l’ultima guerra.
Di solito si considerano le esperienze di male come cause di allontanamento da Dio.
Come tali realtà possono avvicinarci a lui? «A16 anni volevo studiare matematica; la religione era molto distante dalla ‘laicità’ di casa mia.
Nel 1943 mi arruolai come soldato, sopravvissi alla tempesta che distrusse Amburgo con 40.000 morti.
Quando l’amico accanto a me venne dilaniato da una bomba, per la prima volta urlai a Dio.
Sperimentai come lui celasse il suo volto.
Fatto prigioniero, ricevetti una Bibbia: i Salmi delle lamentazioni esprimevano ciò che provavo.
Capii che Cristo è colui che ci capisce e che è venuto a cercare chi è perduto: è colui che ci trova.
Per volontà di Cristo ho cominciato ad aver fiducia in Dio.
Non sarei arrivato all’idea che esiste un Dio e che Dio è amore appassionato e disposto a soffrire.
In guerra ho sperimentato cosa sia l’abbandono di Dio.
Perciò credo che Dio sia con i senza Dio.
E che lo si possa trovare fra di loro.
In essi Dio attende coloro che credono».
in “Avvenire” del 3 febbraio 2011
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