L’intervista «Quando arrivammo qui a Trastevere, negli Anni 70, ci rubarono i motorini.
La prima trattativa di Sant’Egidio — racconta il fondatore, Andrea Riccardi — fu con i ladri, per farceli restituire.
Allora a Trastevere c’era il popolo.
Si viveva nei bassi.
Ora le case valgono 10, 12, anche 15 mila euro al metro quadro».
E Sant’Egidio è stata riconosciuta dalla Farnesina come «istituzione internazionale», segnata da «terzietà» e «indipendenza da qualsiasi tendenza politica».
Che cosa significa? «Non distacco.
Semmai, diversità di visione.
Approccio alle questioni sociali a partire dai poveri.
Ci sentiamo profondamente radicati nella romanità e nel carattere italiano, e nello stesso tempo decisi ad aprirci all’Africa, all’America latina, ai mondi asiatici.
Un’apertura in controtendenza rispetto al ripiegamento, all’introversione degli ultimi anni».
Come vede oggi l’Italia nel mondo? «Rimpicciolita.
Ho cominciato a frequentare gli scenari africani e mediorientali negli Anni 80, e allora l’Italia era considerata un grande Paese.
Eravamo la frontiera tra Oriente e Occidente, la marca di passaggio tra Nord e Sud.
Non è solo la globalizzazione; è l’Italia che si è assentata, ripiegata su se stessa».
Come valuta le vicende di questi giorni? «Le inquadro in una stagione finita, che si potrebbe definire la storia di un bambino mai nato.
La Seconda Repubblica non è mai nata, eppure si ha la sensazione che stia morendo.
Si è passati dalla Repubblica dei partiti a quella della tv e dei talk-show.
Non dico sia tutto da buttare.
Abbiamo l’euro.
Ma non abbiamo più fiducia nell’Europa: e come possiamo reggere il passo di Cina e India con le navicelle degli Stati europei? Benedetto XV diceva che le nazioni non possono morire.
Ma gli Stati forse sì.
Il Belgio ad esempio si sta suicidando».
Anche l’unità italiana è a rischio? «Un rischio c’è.
I 150 anni sono un po’ una festa triste.
Non riusciamo a fare un discorso sull’Italia.
Non abbiamo un’idea del Paese, della sua missione.
L’ultimo che l’ha avuta è Wojtyla, di cui sto per pubblicare la biografia.
Giovanni Paolo II aveva un’idea dell’Italia, e del suo ruolo del mondo.
L’aveva anche di Roma, di cui leggeva il nome come un palindromo: Amor».
Il voto anticipato sarebbe un dramma o una svolta? «Né l’uno né l’altra.
Sono stanco dell’enfasi apocalittica dell’ultima notizia politica.
Ci manca una visione.
Non vediamo la crisi del ceto medio, l’impoverimento del Paese.
Alle nostre mense venivano gli stranieri: ora vengono signore borghesi, impiegati.
Conosco divorziati che devono lasciare le loro case e dormono per strada, finendo per perdere anche il lavoro.
Ci allarmiamo per gli zingari, che a Roma sono 5 mila su 3 milioni di abitanti, e presentiamo gli sgomberi come una grande operazione, mentre è solo teatro, che per loro diventa tragedia.
Temiamo gli immigrati, che sono una ricchezza; e intanto chiudiamo i nostri anziani nei cronicari o nella villetta con la badante».
Il mondo cattolico ha dato troppo credito a Berlusconi? «Il mondo cattolico ha fatto la Dc; poi, dopo il Concilio, con la Dc ha desolidarizzato.
Qualcuno l’ha votata turandosi il naso, altri hanno seguito il provvidenzialismo del principe rosso liberatore.
Dopo l’ 89, il mondo cattolico si è spezzato in tanti frammenti.
Il cardinale Ruini ha dato credito all’ipotesi di Berlusconi.
Ma il sistema bipolare non ha garantito la stabilità.
A ben vedere, a modo loro erano più stabili i governi d emocristiani.
Mi chiedo se non sia tempo che il mondo cattolico assuma un’altra posizione, dia il suo contributo di idee nuove in un assetto politico diverso, plurale».
Lei una volta disse che il Partito democratico non è la soluzione.
«I due poli non sono la soluzione.
E il terzo polo, allo stato, è un cartello elettorale.
C’è molto cammino da fare.
Forse è tempo di costruire un centro, ma non solo per aggregazioni.
I cattolici sono chiamati a elaborare visioni.
A pensare di più.
A costruire una nuova idea dell’Italia, una missione per l’Europa.
Ci sono tante energie nel Paese.
È il tono antropologico che va giù, sono l’uomo e la donna italiani».
Non può essere ancora Berlusconi il leader per rilanciare il Paese? «Chi ha gestito la Seconda Repubblica non può rilanciare il Paese».
Chi allora? Un’alleanza tra il centro e il Pd? «Non basta discutere di cronaca politica.
Un’alleanza ci può essere, ma non si può partire da lì.
Il problema è che ci sia un centro.
Non si tratta di far rinascere la Dc, ma di aprire una stagione nuova, con un appello alla gente, per offrirle non solo sacrifici, anche prospettiva e respiro.
Serve una legge elettorale diversa da questa, che non esprime la geografia profonda della realtà italiana e manda in Parlamento i nominati dai leader.
Credo che al mondo ci sia un posto per l’Italia.
Noi abbiamo un genio, una funzione.
E abbiamo dei punti di riferimento: Napolitano, la Chiesa.
Il mondo cattolico ha un vissuto e risorse per aiutare a costruire un’identità nazionale e laica, non in contrasto con l’essere cristiani.
E mi chiedo se dal mondo cattolico non possa venire qualcosa di intelligente, di politicamente originale».
Quale direzione prenderà la rivolta del Nordafrica? Cosa può fare l’Occidente? «L’Occidente ha passato gli ultimi dieci anni a guardarsi dal pericolo verde.
Ma gli islamici sono rimasti spiazzati dalla rivolta.
I ribelli sono giovani, si convocano via sms.
Gli islamici sono vecchi.
Certo, il passaggio dalla democrazia degli sms al governo non è facile.
Ma l’Occidente dovrebbe fidarsi meno di questi guardiani che abbiamo appoggiato fino all’ultimo, come Ben Ali.
E potrebbe dare il suo contributo alla “democristianizzazione” degli islamici, sul modello turco di Erdogan.
Questa non è la rivoluzione araba.
L’idea di rivoluzione, durata due secoli, è morta con l’ 89 e con Wojtyla.
Possiamo costruire una transizione pacifica».
in “Corriere della Sera” del 4 febbraio 2011
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