Nel mattino del mondo di Bruno Forte in “Il Sole 24 Ore” del 23 gennaio 2011 È il silenzio il custode dell’inizio: sta oltre ogni parola ciò di cui si potrebbe parlare solo prescindendo dalle condizioni già poste del dire.
Pensare puramente l’inizio equivarrebbe a pensare quanto precede le strutture stesse del pensiero, per affacciarsi a ciò che è “fuori” dello spazio e “prima” del tempo: il vagheggiato «primo mattino del mondo» sfugge alla ricerca del soggetto, che, per quanto si sforzi, non è in grado di uscire da queste categorie dello spazio e del tempo.
L’ultimo approdo dell’indagine volta a scrutare l’inizio è dunque il senso del mistero che tutto avvolge, la percezione dell’incompiutezza di ogni sforzo teso dal basso a voler offrire una spiegazione totale.
La posta in gioco è alta, perché abbraccia il senso del vivere e del morire umano: perciò essa ci riguarda tutti, come mostrano i possibili esiti della risposta alla domanda sulle origini di tutto ciò che esiste.
Così, la resa al silenzio dell’ultima sponda può assumere la forma della rinuncia nichilista: si può rinunciare alla domanda, che muove la ricerca, sopprimendo la stessa nostalgia che è alla base dell’interrogare; si può accettare come unica evidenza attingibile la dignità di vivere eroicamente il frammento del presente, come se esso fosse capace di ospitare tutta la consistenza o la leggerezza dell’essere.
La resa nichilista, però, è solo apparente: assegnare al nulla il ruolo di orizzonte originario e finale significa restare nel trionfo del già posseduto.
Il nulla – se esteso ad avvolgere tutte le cose – resta una forma rovesciata del trionfo dell’io: ciò che manca al nichilista è la coscienza dell’altro, l’uscita dalla solitudine del soggetto e dalla rinuncia a comunicare.
L’itinerario che muove dalla domanda sull’inizio conduce, però, a un altro possibile approdo: dove è riconosciuto lo spazio silenzioso di ciò che è al di là dello spazio e il tempo senza tempo di ciò che è al di là del tempo, una voce può offrirsi.
Non una voce dell’al di qua, semplice prolungamento dei ragionamenti mondani imprigionati negli schemi dell’identità, ma la voce dell’Altro, che sia puramente tale.
L’alterità irrompe nel regno della logica prigioniera di sé; la differenza si fa strada nel dominio dell’identità.
L’evento di questo puro inizio, che supera le secche delle proiezioni dei desideri e dei fallimenti mondani, perché non diviene nella coscienza dell’uomo, ma viene a lui, indeducibile e improgrammabile, è il miracolo della rivelazione.
E la rivelazione parla dell’inizio parlando della creazione.
La creazione “preistoria” dell’alleanza.
«La Bibbia parla della creazione in guisa di racconto (Dio ha creato il mondo, gli uomini) e di corrispondente risposta espressa nella lode del Creatore.
Ma stranamente nella Bibbia ciò non costituisce una formula di fede…».
Nei racconti delle origini Israele riflette un patrimonio comune all’umanità arcaica, connesso al bisogno originario dell’essere umano di garantire in qualche modo la consistenza del mondo, dando sicurezza alla conturbante fragilità della vita.
Ciò che è nuovo e peculiare nel discorso biblico è il legame che esso stabilisce fra il racconto dell’inizio e la storia della salvezza d’Israele.
Si potrebbe dire che la testimonianza della Genesi sulla creazione è una «profezia retrospettiva»: partendo dall’esperienza che il popolo eletto ha fatto del Dio della storia, lo sguardo della fede biblica si estende ad abbracciare la realtà delle origini, colta come una sorta di «preistoria dell’alleanza» (Vorgeschichte des Bundes:Karl Barth).
Fra le due componenti non c’è semplice sovrapposizione, ma integrazione, senza peraltro escludere una non perfetta fusione (testimoniata ad esempio dalle ripetizioni di Gen 1,6 e 7; n e 12; 14s.
e 16ss.; 24 e 25; dalla sfasatura fra il numero delle opere e il numero dei giorni; e dal contrasto fra l’atto creatore significato in Gen 1,1 e l’idea di un caos primordiale, preesistente all’azione creatrice-ordinatrice).
Diventa allora di particolare interesse discernere gli elementi di originalità del racconto biblico circa le origini del mondo (Gen 1).
Il primo di questi è l’articolazione della narrazione in sei giorni, che tendono al riposo del settimo: la presentazione della creazione della luce è posta per prima precisamente al fine di garantire la distribuzione cronologica delle opere.
L’essere nel tempo è in tal modo privilegiato rispetto al semplice dato di esistere.
Il divenire storico, il situarsi nella successione degli atti e la conseguente relazione vitale appaiono più importanti del dominio dell’oggetto.
L’essere, che sta a cuore alla fede biblica, non è statico, ma in relazione, è l’essere storico, proprio della prospettiva dell’alleanza: già qui emerge come la tradizione delle origini sia riletta alla luce dell’esperienza della fede nel Dio salvatore, venuto incontro all’uomo nel tempo.
«L’ebraismo è una religione del tempo che mira alla santificazione del tempo…
L’eminente parola qadosh viene usata per la prima volta nel libro della Genesi alla fine della storia della creazione, ed è estremamente significativo che essa venga applicata al tempo: “E Dio benedisse il settimo giorno e lo santificò”.
Nel racconto della creazione, a nessun oggetto dello spazio viene attribuito il carattere della santità» .
I sei giorni tendono al settimo: la creazione è “ab origine” orientata a un fine.
Meta di tutte le opere e di ogni attività a esse connessa è il riposo di Dio nella creazione e del creato in Dio, in quello che sarà il sabato eterno, di cui il sabato temporale è memoria e anticipazione.
Grazie alla meta sabbatica, il tempo è celebrato in tutta la sua dignità, ma ne è anche indicata la relatività, la necessaria provvisorietà del suo essere “storico”, volto cioè a una fine e a un fine: il sabato della creazione dice non solo la finale destinazione di tutto il creato a Dio e la Sua sovrana trascendenza rispetto a ogni creatura, ma anche l’incompiutezza del tempo, il suo costitutivo e necessario riferimento all’eterno.
Tutte le relazioni storiche devono insomma inverarsi nel sabato eterno, in cui uomo e natura, singolo e comunità saranno riconciliati nella gioia del Dio, che è all’inizio e alla fine di tutto.
«Il Sabato ci mette in sintonia con la santità nel tempo: in questo giorno siamo chiamati a partecipare a ciò che è eterno nel tempo, a volgerci dai risultati della creazione al mistero della creazione; dal mondo della creazione alla creazione del mondo».
In questa luce, ognuna delle opere di Dio nel racconto della creazione è vista come buona, protesa verso Colui da cui proviene.
L’affermazione che conclude l’opera di ognuno dei giorni – «E Dio vide che era cosa buona» – sta a indicare come essa sia adatta al suo fine, volta a incontrare il Creatore nella festa del settimo giorno.
La testimonianza biblica afferma, dunque, la bontà e la bellezza delle creature (l’ebraico tob racchiude i due significati), che consiste nel loro essere aperte verso Dio, relative a Lui, fatte per incontrarLo ed entrare nel Suo riposo.
La storia dell’umanità, come quella del mondo, ha una meta di bellezza, e perciò un senso, che è più forte di ogni caduta possibile.
Il settimo giorno carica il tempo di dignità e di promessa, perché ne mostra l’ultimo sbocco nel giorno del riposo di Dio e della creazione intera in Lui.
Anche l’uomo rientra in quest’assoluta creaturalità: il racconto sacerdotale della Genesi non si interessa al modo della creazione dell’uomo, rispettandone il mistero e situando la creatura umana in una stretta rete di solidarietà con tutte le altre creature.
Si preoccupa, però, di evidenziare – nell’alterità da Dio – l’originaria destinazione dell’essere umano a divenirne il partner nell’alleanza: «Facciamo l’uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza» (1,26).
Solidale col creato, l’uomo altro dal Creatore, creatura fra le creature, è centrale per esso, in quanto interlocutore del Dio vivente: è la creatura relazionale per eccellenza, fatta per la reciprocità («maschio e femmina li creò»: v.
28), nella prospettiva dell’originaria unità dei due.
L’immagine e la somiglianza dell’uomo con Dio vanno lette, dunque, nell’orizzonte dell’alleanza: esse esprimono la capacità dell’uomo a entrare nel patto in maniera consapevole e libera, la sua attitudine a relazionarsi e a situarsi in un rapporto di accoglienza e di gratuità.
Il racconto intende, insomma, evidenziare l’originaria e costitutiva destinazione al patto della creatura responsabile e libera: «L’uomo – ogni uomo – è creato affinché accada qualcosa tra lui e Dio, e la sua vita acquisti proprio per questo il suo significato».
L’articolo di Bruno Forte, arcivescovo di Chieti-Vasto, è un estratto della relazione “La creazione e le origini del mondo” tenuta a Palazzo Ducale di Genova mercoledì 19 gennaio.
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