Giuseppe Casale, Per riformare la Chiesa, La Meridiana, Molfetta 2010 Un libro, questo di Giuseppe Casale, di poche pagine, ma che ne vale molte, tanto vibra speranza e, intriso di ardimento evangelico e visione ampia delle urgenze pastorali dell’oggi, affronta senza esitazione anche problemi di solito tabù per l’establishment ecclesiastico.
Classe 1923, vescovo di Vallo della Lucania nel 1974 e, dall’88 al ’99, di Foggia, il prelato ormai vive come «emerito»; ma non solo non si è estraniato dall’agorà ecclesiale, ma su di essa riflette a voce alta, e coraggiosamente parla di quello che molti suoi confratelli sembrano non vedere, o che altri pur vedono, ma non osano nominare: e cioè delle riforme che la Chiesa romana dovrebbe attuare per essere più fedele al messaggio di Gesù e per non seppellire il Vaticano II.
«Appunti per una stagione conciliare» è, infatti, il sottotitolo del libro, le cui considerazioni sono tese tra l’ultimo Concilio e la nuova stagione che Casale si augura per attuare quelle riforme che il Vaticano II non poté fare, o solo prospettò in germe, o la cui esigenza, emersa solamente in questi ultimi anni, oggi reclama di essere valutata con ponderazione, fiducia e disponibilità all’ascolto dello Spirito e al cambiamento.
Spiega, infatti, l’autore nella premessa: «I tempi del Concilio! Quante speranze e quanta gioia nell’attuarne gli insegnamenti.
Soprattutto nel sentirsi popolo di Dio in cammino nella storia per farvi penetrare il lievito evangelico.
Da vescovo ho cercato di camminare insieme con la mia gente del Sud, condividendo la loro vita e animando un impegno di riscossa contro antiche e nuove oppressioni.
Non ho pensato che tutto potesse filar liscio come l’olio.
Non credo che il Vangelo possa prescindere dalla logica della Croce e ridursi a passeggero entusiasmo.
Però non bisogna eludere le domande che la società ci pone.
Il Concilio ha avviato un confronto che va continuato.
Non chiudiamoci in difesa inventandoci complotti contro la Chiesa.
O riducendo a chiacchiericcio le voci che denunziano le nostre mancanze di fedeltà al Vangelo» (pagine 7-8).
Il primo argomento che Casale tocca è quello del dialogo nella Chiesa, riferendosi a quanto, in proposito, auspicava Paolo VI nell’enciclica Ecclesiam suam (1964).
Nota Casale: «Quanto lontane sembrano queste parole [del papa] e quanta tristezza per l’attuale incomunicabilità nella Chiesa.
Bisogna essere intimamente convinti che la vitalità della Chiesa cresce quando c’è dialogo nell’obbedienza.
Le inquietudini del post-Concilio hanno condotto a sopire, a mettere il silenziatore sulle voci del dissenso, sulle richieste di una più fedele attuazione degli orientamenti conciliari.
L’unità è stata intesa come piatto conformismo, mancanza di creatività, adesione a programmi studiati a tavolino e non rispondenti alle urgenze dell’ora presente.
Nella Chiesa è prevalsa la parola del ritorno all’ordine, frenando i tentativi di nuove esperienze che meglio interpretassero e pienamente attuassero lo spirito del Concilio.
Messe a tacere le voci che invocavano riflessione attenta, confronto sereno, verifica del rapporto Chiesa-società, si sono fatte forti e insistenti le voci dei cattolici plaudenti.
Cattolici che vivono tranquilli nelle loro posizioni di comodo, all’ombra dell’autorità…
Si è fatto un gran parlare del progetto culturale [particolarmente voluto dal cardinale Camillo Ruini, per tre lustri presidente della Conferenza episcopale italiana].
Ma, che cosa rappresenta un colloquio tra cosiddetti intellettuali che vogliono continuare a tenere legata la Chiesa ad un occidente che ha ormai eliminato il vangelo dalla vita quotidiana? Come rompere la ragnatela di compromissioni, omertà, paure, connivenze che stringe in una morsa velenosa e avvilente non solo alcune regioni dell’Italia meridionale, ma ormai l’intero paese?» (pagine 13- 14).
Casale elenca quindi la necessità di riforme, ma che siano «vere», e non come quelle apportate ad esempio nella Curia romana, che «hanno abbellito l’aspetto esterno dell’istituzione ecclesiastica, hanno creato nuovi organismi, ma non hanno eliminato o modificato mentalità e atteggiamenti del passato.
Il clericalismo rimane dominante» (pagine 17-18).
Ampio è poi il ventaglio dei ponderosi temi che egli propone di affrontare: una reale attuazione della collegialità episcopale e perciò il cambiamento (già auspicato, ma non attuato, da papa Wojtyla) del modo di esercizio del ministero petrino; l’ammissione dei viri probati (uomini di età matura, già sposati, ordinati presbiteri); la ridiscussione del divieto ai divorziati risposati di accostarsi all’Eucaristia; una più ponderata riflessione sul testamento biologico (il prelato dissente dalla rigida posizione delle gerarchie ecclesiastiche nel caso di Eluana Englaro); la scelta della povertà come norma costitutiva anche per l’istituzione ecclesiastica; un vero riconoscimento dell’autonomia del laicato…
Per fare questo, egli conclude, urge aprire una nuova «stagione conciliare», un tempo di aperto dibattito sui problemi emergenti per infine approdare, chissà, ad un nuovo Concilio di riforma.
Proposte analoghe sono state indicate spesso da vescovi africani o latinoamericani; che si odano anche in Italia è davvero un segno di speranza.
Malgrado molte gelate, il Vaticano II non è passato invano.
Il tranquillo coraggio di un italiano vescovo di David Gabrielli in “Confronti” n.
1 del gennaio 2011
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