II Domenica del Tempo Ordinario Anno A

Preghiere e racconti  Tre angeli assistono al battesimo di Cristo mentre alle loro spalle l’uomo nuovo, il battezzando, si staglia seminudo sul fondo dei coloratissimi vestiti degli uomini vecchi.
La composizione è monumentale.
Pura è l’aria, pura è l’acqua e pura è la terra.
Gli uomini e il mondo non sono intaccati dall’ombra/peccato, perché la stessa ombra è col ore intriso di luce, delicato come una carezza.
Il paesaggio è quello aretino.
Eppure sa di paradiso.
Il segreto pittorico di questo risultato è nella combinazione unica di realtà e astrazione, di vita e contemplazione, ottenuta mediante la prospettiva, la forma, il colore e soprattutto la luce che tutto investe compenetrandolo.
Non si muove niente, perché tutto sa di sospeso.
Sospeso è il braccio di Giovanni Battista, sospeso è il gesto del battezzando che li sta dietro.
Non è per incertezza o fatica, ma per lo stupore che rende impercettibile anche il respiro: l’uomo è investito da una tale dignità che basta il suo «essersi» per riempire di dignità regale il suo corpo, la usa posa e il suo sguardo.
Il paesaggio stesso si umanizza e partecipa dell’eterna giovinezza dell’uomo.
Di quale uomo? Di quello che sta al centro, dell’uomo-Dio.
Il grande Giotto aveva dato figura al Dio-uomo; ora il Quattrocento rovescia il rapporto: è così umano questo Gesù che solo Dio poteva essere in Lui.
  Questo uomo ha la dignità del re.
Occupa il centro del mondo.
Accanto a lui il terribile e selvatico Giovanni Battista si è trasformato in un dignitario di corte.
Aveva tuonato contro Gerusalemme, il tempio, le menzogne, i furbi; aveva invocato la scure e il fuoco per distruggere il male.
Invitava a preparare la strada al re che sarebbe arrivato.
Ora un volto, uno dei mille nella folla alle acque del Giordano, lo ha fulminato.
Che cosa ha visto in esso? Ci facciamo aiutare da Piero della Francesca.
Il pittore non è evangelista, ma è spontaneo che la Parola susciti negli occhi la voglia di vedere.
Con tutti i limiti, ogni uomo e ogni epoca hanno diritto a un volto-Vangelo.
E l’occasione più alta per cogliere il volto-Vangelo di Gesù è l’esperienza che il Nazareno ha fatto al Giordano.
Forse è anche la più difficile da «immaginare».
Ma Piero della Francesca è grande.
«Mentre pregava…», dice il Vangelo.
E Gesù, nel quadro, sta pregando.
«…
il cielo si aprì e scese su di lui lo Spirito Santo in apparenza corporea, come di colomba, e vi fu una voce dal cielo: Tu sei il mio figlio prediletto, in te mi sono compiaciuto» (Lc 3, 21-22).
Nel quadro non si vedono i cieli aprirsi.
È evidente che si tratta di un’esperienza spirituale, che avviene sulla punta più profonda dell’essere.
La colomba è attentissima a non battere le ali: essa svolge il suo compito di tramite simbolico; il fremito vero sta salendo come linfa da dentro: tutto il Nazareno ne è invaso.
L’umile falegname alla ricerca della sua vocazione, mentre prega il Padre, fa l’esperienza di essere figlio.
Presto schizzerà via di lì a dire al mondo che il Regno è arrivato, che Dio abita questo mondo, questa carne, questa avventura.
Sì, perché lui è il Figlio, è Dio.
Non lo è diventato in quel momento, ma è in quel momento che la verità sta attraversando i suoi sensi, interiori ed esteriori.
La verità è sulla sua pelle.
Nel Cristo splende la luce della coscienza filiale.
L’infinita dolcezza, l’onnipotente tenerezza, la pazza voglia del Padre di far vivere, ora è anche nella sua psicologia, nel suo modo di guardare gli uomini, la donna che impasta, il papa che accende la lanterna alla sera…
Tutti quelli che incontrerà, se lo vorranno, vedranno nei suoi occhi il Regno di Dio.
«Non temete più niente – dirà a tutti – Dio si è fatto prossimo all’uomo.
È Vangelo, è lieta notizia.
Non c’è carne umana che non sia anche avventura divina.
L’ho visto nei cieli aperti».
Giovanni è il primo ad accorgersi.
Glielo ha letto in faccia.
E ora compie su di Lui un gesto particolare che sa di incoronazione.
La lieta notizia ora si fa luce del mondo.
Tutto nel quadro diventa terso, puro e sacro.
Tutto è evidente alla luce di un tempo senza tempo, in uno spazio che sa di trasfigurazione.
«Mentre pregava…»: forse è bello immaginarlo così Gesù, quando, stanco e in preda alla delusione («Vanno capiti, poveretti: è una notizia troppo grande quella del Regno.
Come arrabbiarmi se fanno fatica a credermi?»), si rifugiava nella preghiera.
È bello immaginarlo che pregava così, come Piero della Francesca l’ha figurato in questo quadro.
        Ancora e sempre sul monte di luce                                      Ancora e sempre sul monte di luce                                    Cristo ci guidi perché comprendiamo                                 il suo mistero di Dio e di uomo, umanità che si apre al divino.
  Ora sappiamo che è il figlio diletto in cui Dio Padre si è compiaciuto; ancor risuona la voce: «Ascoltatelo», perché egli solo ha parole di vita.
  In lui soltanto l’umana natura trasfigurata è in presenza divina, in lui già ora son giunti a pienezza giorni e millenni, e legge e profeti.
  Andiamo dunque al monte di luce, liberi andiamo da ogni possesso; solo dal monte possiamo diffondere luce e speranza per ogni fratello.
  Al Padre, al Figlio, allo Spirito santo gloria cantiamo esultanti per sempre: cantiamo lode perché questo è il tempo in cui fiorisce la luce del mondo.
(David Maria Turoldo).
  Uomo fra gli uomini   Gesù, piccolo come uno di noi, vulnerabile e nudo, a metà fra nascita e morte, fra silenzio e parola;   un uomo venuto dalla polvere, tessuto di fuoco, di vento e d’acqua, fra un ventre di donna e quello della terra; un figlio d’uomo, per pochi istanti in piedi, ritto fra i sassi e le stelle;   che uomo che va per la sua strada fra una locanda chiusa e quella di Emmaus;   un uomo fra ieri e domani, con la fatica addosso, con lacrime di gioia negli occhi, e talvolta un singhiozzo che gli traversa la gola – e per piangere se ne va in disparte;   soltanto un uomo, che ha paura di morire come tutti, e lo dice, ed è morto infatti, abbandonato da tutti, abbandonato dal suo Dio, lasciato a se stesso;   un uomo senz’armi né armatura, indifeso come il vento, parola offerta, seme nascosto, sale della terra, fiamma sul monte piegata dalla tempesta e mai spenta, fonte viva mille volte calpestata, ancora chiara e fresca, sempre pronta per la nostra sete, vino pronto a essere servito, pane spezzato pronto sulla tavola;   un uomo, carne e sangue in mano ai fratelli, sotto l’ala dello Spirito, in mano a Dio: uomo fra gli uomini, nella sua solitudine dove l’amore improvvisamente si accende come il fuoco in un fascio di ginestre, si attacca come la brina ai rami di biancospino;   un uomo immenso, che è nato da Dio, che è tutto l’uomo e che è Dio, che è noi stessi, tutti e ciascuno;   in lui noi siamo e senza di lui non saremmo nulla, o ben poco; in lui noi siamo, coronati di gloria, vestiti di forza, appena di sopra degli angeli e poco meno di Dio;   Gesù, l’uomo Nel quale anche noi possiamo dire: come un prodigio mi hai fatto e prodigiose sono le tue opere, o Dio!   (Didier Rimaud).
          * Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di: – Lezionario domenicale e festivo.
Anno A, a cura della Conferenza Episcopale Italiana, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2007.
– Temi di predicazione.
Omelie.
Ciclo A, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2004.  – Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.
– COMUNITÀ MONASTICA SS.
TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade, «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano» 91 (2010) 10,  71 pp.
– E.
Bianchi et al., Eucaristia e Parola.
Testi per le celebrazioni eucaristiche.
Tempo ordinario anno A [prima parte], in «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano» 89 (2008) 4, 84 pp.
– Fernando ARMELLI, Ascoltarti è una festa.
Le letture domenicali spiegate alla comunità, Anno A, Padova, Messaggero, 2001.
        II DOMENICA TEMPO ORDINARIO   Lectio – Anno A   Prima lettura: Isaia 49,3.5-6          Il Signore mi ha detto: «Mio servo tu sei, Israele, sul quale manifesterò la mia gloria».
Ora ha parlato il Signore, che mi ha plasmato suo servo dal seno materno per ricondurre a lui Giacobbe e a lui riunire Israele – poiché ero stato onorato dal Signore e Dio era stato la mia forza –  e ha detto: «È troppo poco che tu sia mio servo per restaurare le tribù di Giacobbe e ricondurre i superstiti d’Israele.
Io ti renderò luce delle nazioni, perché porti la mia salvezza fino all’estremità della terra».
        v «Il Signore mi ha detto: “Mio servo tu sei, Israele, sul quale manifesterò la mia gloria”» (Is 49,3).
     Siamo di fronte ad una affermazione paradossale: Dio manifesta la sua gloria nascondendola in un «servo», la cui opera ha tutte le apparenze del fallimento e comporterà molte sofferenze (cf.
Is 49,4; 50,6).
Dio ha scelto Israele non per la sua potenza, o per i suoi meriti, ma per amore gratuito: «il Signore si è legato a voi e vi ha scelti, non perché siete più numerosi di tutti gli altri popoli — siete infatti il più piccolo di tutti i popoli — ma perché il Signore vi ama e perché ha voluto mantenere il giuramento fatto ai vostri padri» (Dt 7,7-8).
     Il «servo del Signore» è stato plasmato da lui fin «dal seno materno» (Is 49,1); Dio gli ha affidato una missione nei confronti di Israele e verso le genti.
Tale missione comporta fatica, sofferenza, morie, ma Dio non lo ha abbandonato come sembra ad uno sguardo superficiale, ma è con lui proprio nel momento della sofferenza, mentre il successo è sì promesso, ma differito ad altro tempo (cf.
Is 52,13-5).
  Seconda lettura: 1Corinzi 1,1-3               Paolo, chiamato a essere apostolo di Cristo Gesù per volontà di Dio, e il fratello Sòstene, alla Chiesa di Dio che è a Corinto, a coloro che sono stati santificati in Cristo Gesù, santi per chiamata, insieme a tutti quelli che in ogni luogo invocano il nome del Signore nostro Gesù Cristo, Signore nostro e loro: grazia a voi e pace da Dio Padre nostro e dal Signore Gesù Cristo!        v Paolo si presenta ai cristiani di Corinto come apostolo, chiamato da Dio (1Cor 1,1).
Egli lo sottolinea con forza qui, come in altre lettere (cf.
Rom 1,1; 2Cor 1,1; Gal 1,1; Col 1,1).
Egli compie la sua missione secondo il volere di Dio e non secondo progetti personali.
«Tutto il merito e la capacità sono di colui che chiama, al chiamato non resta che obbedire»,  dice Giovanni Crisostomo nel suo commento ai primi versetti della lettera ai Corinti, e aggiunge: «siamo stati chiamati perché piacque a Dio, non perché eravamo degni» (cf.
PG 61,13-14).
     Non solo l’apostolo, ma tutti i cristiani sono dei «chiamati», essi, come l’apostolo, «santificati in Cristo Gesù», e chiamati santi devono manifestare nella loro vita la santità seguendo le orme di Gesù, via verso il Padre, pronti anche ad affrontare la croce.
     Paolo augura «grazia e pace».
È l’indirizzo di saluto che l’apostolo ripete, come formula abituale, all’inizio e alla fine delle sue lettere.
Augurare la pace, che nell’orizzonte biblico è un bene grande comprensivo di tutti gli altri beni donati da Dio, è un modo tipico di salutare ebraico che si e mantenuto dai tempi biblici fino ad oggi (cf.
Es 4,18; Gdc 6,23; 18,6; 19,20; 1Sam 1,17; 20,42,25,6.35; 2Re 5,19; 1Cr 112,19).
Gesù risorto appare ai suoi augurando loro la pace (Lc 24,36; Gv 20,19.26).
     Grazia è il favore di Dio assolutamente libero da ogni condizionamento, favore strettamente legato alla sua misericordia (cf.
Es 33,19; Sap 3,9).
Dio stesso nell’apparizione a Mosè nell’Esodo si proclama: «Il Signore, Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di grazia e di fedeltà» (Es 34,6).
I Salmi abbondano di espressioni che inneggiano alla grazia del Signore.
     In Cristo, rivelatore del Padre, Signore Dio ricco di grazia e di misericordia, ci dice Paolo nella lettera ai Romani, abbiamo ricevuto la grazia e la misericordia di Dio, che in lui ha rivolto il suo sguardo sui peccatori (cf.
Rm.
3,21-26).
     La chiamata di Dio in Cristo alla santità e al ministero dentro la comunità è dono di grazia; essa non è una qualità statica, ma accompagna il chiamato e la chiamata nello svolgimento dei loro compiti come Paolo riconosce più volte per se stesso (cf.
1Cor 3,10; 15,10; 12,3; Ef 3,7).
  Vangelo: Giovanni 1,29-34          In quel tempo, Giovanni, vedendo Gesù venire verso di lui, disse: «Ecco l’agnello di Dio, colui che toglie il peccato del mondo! Egli è colui del quale ho detto: “Dopo di me viene un uomo che è avanti a me, perché era prima di me”.
Io non lo conoscevo, ma sono venuto a battezzare nell’acqua, perché egli fosse manifestato a Israele».  Giovanni testimoniò dicendo: «Ho contemplato lo Spirito discendere come una colomba dal cielo e rimanere su di lui.
Io non lo conoscevo, ma proprio colui che mi ha inviato a battezzare nell’acqua mi disse: “Colui sul quale vedrai discendere e rimanere lo Spirito, è lui che battezza nello Spirito Santo”.
E io ho visto e ho testimoniato che questi è il Figlio di Dio».
    Esegesi   «Ecco l’agnello di Dio, colui che toglie il peccato del mondo!» (Gv 1,29).
     L’evangelista Giovanni ci presenta Gesù come colui che toglie, o meglio, che «prende su di sé» il peccato del mondo.
La traduzione «toglie» non rende efficacemente il significato della parola greca arein, che significa letteralmente sollevare, prendere su di sé, mentre la traduzione italiana «togliere» suggerisce l’idea di eliminare.
Gesù è agli inizi della sua missione e non elimina il peccato con l’instaurazione gloriosa del regno di Dio, regno dove il peccato e le sue conseguenze non avranno più nessun potere, ma incomincia il suo cammino fra i peccatori e in solidarietà con essi.
     Egli, dice ancora l’evangelista, è «l’agnello di Dio».
Che cosa significa questa figura? Per cercare di capirla dobbiamo rifarci all’ambiente religioso ebraico contemporaneo a Gesù e alle Scritture ebraiche (Antico Testamento), che l’evangelista e i suoi interlocutori riconoscono come rivelazione di Dio.
     Un ambito di riferimento possibile è il culto sacrificale del tempio di Gerusalemme; in particolare l’evangelista avrebbe pensato all’agnello pasquale a cui allude direttamente nel racconto della morte in croce (cf.
Gv 19,36 in relazione a Es 12,46; Num 9,12; Sal 34,21).
In questa direzione si muovono altri due passi neotestamentari: «Cristo, nostra pasqua, è stato immolato» (1Cor 5,7) e «foste liberati…
con il sangue prezioso di Cristo, come di agnello senza difetti e senza macchia» (1Pt 1,19; cf.
Es 12,4).
     Sempre nell’ambito del culto sacrificale del tempio potrebbe esserci allusione al sacrificio dei due agnelli immolati ogni giorno nel tempio alla «presenza del Signore» uno al mattino e uno al tramonto (cf.
Es 29,38).
Entrambi questi riferimenti portano a vedere nella figura di Gesù il mediatore fra Dio e gli uomini, che accetta di prendere su di sé le conseguenze del male del mondo con un estremo atto di amore e di offerta di sé a Dio, in solidarietà con tutti gli esseri viventi, facendosi, per così dire, come gli agnelli sacrificati nel tempio «olocausto perenne per tutte le generazioni» (cf.
Es 29,42).
     Alcuni studiosi biblici ritengono che l’espressione «agnello di Dio» sia equivalente a quella di «servo di Dio».
Essi si basano sulla constatazione che il vocabolo greco amnòs, agnello usato da Gv 1,29,36 è lo stesso vocabolo della traduzione dei Settanta di Is 53,7 ripreso in Atti 8,32: «Come pecora fu condotto al macello, e come agnello senza voce innanzi a chi lo tosa, così egli non apre la bocca».
     Queste diverse interpretazioni non si escludono a vicenda, ma aiutano a penetrare nella ricchezza della figura di Gesù, che l’evangelista ci presenta attraverso le parole del Battista.
Come suggerisce anche la prima lettura, possiamo riferirci ai carmi del servo di Isaia per trovare le radici della figura di Gesù e cercare di capire qualcosa di più del mistero della sua missione e della stessa rivelazione di Dio.
     L’«agnello-servo di Dio» è colui a cui Giovanni rende testimonianza, di fronte al quale egli si tira indietro.
È lui quello a cui si deve guardare, è lui colui che deve essere rivelato ad Israele, perché proprio dentro Israele compirà la sua missione.
     La testimonianza del Battista si conclude con la proclamazione di Gesù «Figlio di Dio».
Tale riconoscimento non è frutto di conoscenza umana, ma è conseguenza del dono dello Spirito.
Infatti Giovanni dichiara di non aver conosciuto la persona di Gesù nella profondità del suo mistero di Figlio di Dio, se non dopo aver visto «lo Spirito discendere come una colomba dal cielo e rimanere su di lui» (1Gv 1,32; cf.
Is 11,2; 61,1).
  Meditazione

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