Ricerca e carità

Libertà e dialogo per la «nuova città» di Giulio Giorello e Carlo Maria Martini in “Corriere della Sera” del 9 dicembre 2010 Da oggi è in libreria “Ricerca e carità”, un dialogo tra il cardinale Carlo Maria Martini e Giulio Giorello, un confronto su scienza e solidarietà, ed.
San Raffaele, curato da Damiano Modena.
Anticipiamo due estratti tratti dai capitoli “La città dell’uomo” e “Intelligenza e amore”.
GIULIO GIORELLO – Eminenza, può godere di quella «potenza trasformante» dei Vangeli anche chi ritiene che essi siano non la «buona novella», ma una tra le tante buone novelle che dal passato ci arrivano «come la luce di stelle che non ci sono più» (rubo quest’espressione a Luca Ronconi)? Tale luce a noi serve ancora, rischiara la nostra notte.
Dobbiamo riprendere tutte le buone novelle, anche quelle redatte dai miscredenti, come «l’ateo Spinoza» (così lo chiamavano i bigotti nella sua Amsterdam).
Ritengo che questa sia una via praticabile per ridare senso alle parole, come lei stesso desidera.
Un esempio: ho riletto di recente quei passi della Monarchia di Dante, in cui viene prospettato come grande momento nella storia dell’umanità la fondazione delle prime città.
Semiramide sarà stata pure colei che «libito fe’ licito in sua legge» ( Inferno V, 56), ma è anche colei che pose o custodì le mura delle grandi città assire di cui era sovrana.
Ecco cos’è una città: un elemento al tempo stesso di inclusione ed esclusione, che configura il modo in cui si costituisce l’umanità; l’uomo riconosce alcuni come compagni nella propria avventura, cioè con-cittadini ed esclude altri come estranei, se non nemici.
Questo movimento di inclusione ed esclusione è sostanzialmente il processo fondativo della città, le cui mura non sono soltanto segno ostile verso il nemico; sono anche, e non a caso, l’elemento che marca il carattere di quella comunità.
La città rappresenta, allora, una mediazione tra natura e cultura; e di conseguenza l’esperienza della cittadinanza si ritrova alla base della nostra stessa modernità.
In che modo, allora, un essere umano si realizza nella città? E vi può essere una città globale? Ovvero, possiamo pensare al mondo come un’unica grande città? La città di oggi conosce, per altro, una drammatica esperienza della diversità, quella che indichiamo con vari termini (non sempre esattamente equivalenti), come multiculturalismo, multietnicità, pluralismo.
È solo un ricordo del passato il modello di convivenza e integrazione della Cordova dell’età d’oro dei musulmani in Andalusia,  quando a poca distanza coesistevano la moschea, la sinagoga e la chiesa? Quale delicato equilibrio può proporsi oggi? Gli stessi mutamenti prodotti da scienza e tecnica non potrebbero essere quelli che porteranno prima o poi alla disgregazione della città armoniosa in cui diverse fedi, etnie, forme di vita potrebbero prosperare insieme? E soprattutto, si può andare oltre la mera coesistenza? (…) Come ci dovremmo regolare con il ruolo politico delle altre religioni? Nel Corano si legge che è volontà di Dio che il Califfo intervenga quando i propri magistrati sono corrotti: questa linea è idealmente migliore del «Rendete a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio»? CARLO MARIA MARTINI — Come lei sa, nei miei ventidue anni di servizio episcopale a Milano ho posto la città come uno dei cardini riflessivi.
Non era un vezzo, ma la coscienza che sia  nell’Antico sia nel Nuovo Testamento la città, con le sue dinamiche e le sue contraddizioni, è il luogo dove Dio dialoga con l’uomo.
Gerusalemme, addirittura, è il luogo dove Dio prende dimora.
Non saprei bene come un individuo si realizzi nella città.
In generale, un essere umano si realizza quando scopre in sé delle potenzialità e può esprimerle contestualizzandole in un determinato ambiente, senza contrastare l’impegno dell’altro, la sua identità, la sua libertà, la sua responsabilità.
Tuttavia, il mondo intero ha in sé le stesse dinamiche positive e gli stessi peccati di una città, sicché può essere considerato come un’unica grande città.
Ma lei sottolinea il carattere drammatico della diversità all’interno della città.
A me, invece, pare che ciò non sia così drammatico.
La diversità è una ricchezza.
Modelli nuovi di convivenza pacifica potranno essere raggiunti; anzi, sono già in atto in ogni parte del mondo, a cominciare dalla città che mi è più cara.
Pochi sanno, infatti, del movimento che a Gerusalemme unisce i familiari delle vittime della guerra israelo-palestinese in momenti di dialogo e di preghiera comune molto belli e intensi.
La diversità è una ricchezza non sempre compresa come tale.
E la sofferenza è uguale per tutte le madri, per tutti i figli, di qualsiasi cultura, religione o Stato.
Ecco quel superamento della semplice coesistenza cui lei fa riferimento! Condividere il dolore, soprattutto il dolore innocente, subito, costruisce relazioni ben più profonde dell’essere coinquilini della stessa terra.
«Perciò anche Gesù, per santificare il popolo con il proprio sangue, patì fuori della porta della città» (Eb 13, 12).
L’immagine di Gesù crocefisso fuori dalle mura di Gerusalemme ci ricorda quali dolorose conseguenze possa avere l’esclusione di ciò che scandalizza, il rifiuto di chi è diverso.
Lei solleva non pochi cruciali problemi.
Allora, le rispondo pensando anzitutto che cos’è una città unita: essa è un luogo dove le differenze dialogano per il bene comune, dove si cede alle convinzioni altrui se rappresentano realmente un bene maggiore per tutti.
Un luogo dove la Chiesa, per ciò che le compete, e l’Autorità, per ciò che le compete, offrono ai più deboli un sostegno immediato e uno a lungo termine.
Anche se non ha il compito di interferire direttamente nella vita politica, la Chiesa senza dubbio ne condiziona lo svolgimento con i suoi interventi, seppure in seconda battuta.
La sua sola missione è quella di annunciare Gesù, e questi crocefisso.
Non credo, tuttavia, che la distinzione tra ciò che è di Cesare e ciò che è di Dio sia così individualista come sembrano suggerire le sue riflessioni.
Sarebbe giusto, se la coscienza fosse egualmente matura in tutti.
Ma sappiamo che per alcune coscienze tutto è di Cesare e per certe altre tutto è di Dio.
Io penso che sia di Cesare tutto ciò che riguarda il potere, il ben-essere, il ben-avere, il volere; e siano invece di Dio il servizio, l’umiltà, la povertà, l’essere, il dono, la carità.
(…) GIULIO GIORELLO — Credo che la ricerca abbia bisogno di idee, capaci di far parlare i fatti; altrimenti, come ebbe bene a dire un mio maestro, il matematico René Thom, «quel che minaccia la  verità non è la falsità, ma l’insignificante».
Non basta una miriade di numeri, misurazioni dopo misurazioni, dati e ancora dati: occorre un’idea che ci permetta di rendere comprensibili intellettualmente i fatti più diversi.
Non è stato così, per esempio, con l’intuizione di Galileo del pendolo o con la celebre «mela di Newton» che ha mostrato come la forza che fa sì che quel pomo cada è la stessa che fa sì che la Luna non cada sulla Terra? O con la concezione evoluzionistica di Darwin, o con l’idea di Einstein della «relatività del moto»? O con la congettura di Dirac a proposito dell’antimateria? Servendoci di un’etimologia magari fantasiosa, diciamo che intelligenza risponda a inter legere ovverossia «a scegliere fra»: alla capacità di selezionare ciò che è rilevante da ciò che è insignificante.
Per questo la ricerca ha bisogno di intelligenza.
Ma essa non è nemmeno distinta dalla passione.
Talvolta pensiamo ai ricercatori scientifici come a persone asettiche, che si lasciano alle spalle qualsiasi riferimento al mondo della vita appena entrano in laboratorio o si siedono al computer.
Non credo che questa sia una caratterizzazione completa dell’impresa scientifica; un’impresa scientifica che non portasse seco la passione del conoscere sarebbe un’impresa di scarso respiro… Ancora una volta vorrei citare un passo di Zadig riguardo alle passioni: «”Ah, quanto sono funeste”, diceva Zadig.
“Sono i venti che gonfiano le vele e il vascello”, ribatté l’eremita, “qualche volta lo fanno affondare; ma senza di loro non potrebbe navigare.
La bile rende collerici e malati; ma senza la bile l’uomo non potrebbe vivere.
Tutto è pericoloso in questo mondo, e tutto è altrettanto necessario”».
Perché la passione è così importante? La passione è qualcosa che ti prende, ti rapisce, ti trascina, può essere anche un’esperienza dolorosa, il pericolo di cui parla l’eremita a Zadig, ma nello stesso tempo è qualcosa che dà colore a quanto altrimenti sarebbe un’ontologia grigia rivelata dalla scienza.
Certo, occorre passione; ma passione qui vuol dire un profondo  rapporto con le cose che vengono indagate.
Dobbiamo amare il cielo se vogliamo esplorarlo; sentirci rapiti dalle «infinite forme bellissime» (la citazione è da Darwin) del vivente se vogliano studiarne genesi ed evoluzione.
La costruzione delle teorie scientifiche, le rielaborazioni che spiegano i fatti, l’applicazione delle idee ai nostri macchinari sono tutte prove di amore per il mondo, un interesse specifico per le singole cose, collegate in un intellegere che è colligere.
CARLO MARIA MARTINI — Rispetto agli scienziati che lei cita, ci sono da fare alcune distinzioni importanti.
Mentre Galileo con il pendolo o Newton con la sua leggendaria mela hanno  fatto delle sperimentazioni sulla gravità e hanno mostrato appunto che c’è una forza che attrae i corpi verso il centro della Terra, le intuizioni di Darwin o quelle inerenti l’antimateria sono solo delle teorie.
Altro è l’esperimento che dimostra un’intuizione teorica, altro l’intuizione non sperimentata né sperimentabile.
Ancora, altro è scoprire la composizione dell’acqua, altro comporre l’acqua da un atomo di ossigeno e due di idrogeno.
Uno scienziato potrebbe spiegarne bene la differenza.
Ma sono d’accordo con lei che l’intelligenza non è solo leggere dentro, ma anche leggere «fra», cioè selezionare, discernere ciò che ha valore da ciò che non ne ha.
Siamo anche d’accordo sul fatto che sia necessaria una grande passione nell’ambito della ricerca.Ricordo gli anni dei miei studi sul Codice Vaticano (B) come anni di grande passione: tutte le scienze chiedono una grande passione.
So di alcuni ricercatori che dimenticano di mangiare o di bere durante una fase piuttosto intensa del loro lavoro.
Non c’è dubbio che lo scienziato sia tale anzitutto per l’amore appassionato verso ciò che fa e ciò che lo circonda, verso il mistero che avvolge anche le realtà quotidiane che l’uomo comune ritiene ovvie.
Davvero la conoscenza rende più ricco, vero e puro l’amore, e l’amore rende più profonda, paziente e tenera la conoscenza.
E pur intuendo dove lei vuol condurmi, e cioè che un amore per essere autentico chiede di essere libero e, quindi, anche la scienza che scaturisce dall’amore per la natura chiede una libertà incondizionata, bisogna fare delle precisazioni.
La libertà, nell’amore come nella scienza, chiede di essere sempre accompagnata alla responsabilità.
Il gesuita Bernard Lonergan, pensatore tra i più originali del Novecento seppure non adeguatamente conosciuto, coniuga oggettività della conoscenza e soggettività umana proprio attraverso la responsabilità, nella quale deve necessariamente confluire il processo conoscitivo.
Il vincolo per la scienza è quindi che essa sia rispettosa della dignità umana e della libertà della persona.
Ha idea di cosa potrebbe diventare la scienza senza nessun vincolo? Lei non crede che finirebbe con l’essere molto simile alle sperimentazioni «a fin di bene» praticate nei campi di concentramento durante la Seconda guerra mondiale? Che alcuni diventerebbero «null’altro che» delle cavie?  G.
GIORELLO, C.M.
MARTINI,Ricerca e carità,  Editrice San Raffaele , Milano  2010, ISBN-13: 9788896603208, pp.
92, € 9,00 Un dialogo tra Carlo Maria Martini, arcivescovo di Milano dal 1980 al 2002, e Giulio Giorello, filosofo della scienza, dedicato al nodo tra Ricerca e Carità ovvero tra Conoscenza e Solidarietà, nella convinzione che ricerca sia anche interrogazione sul senso profondo del nostro destino e che l’amore sia lo strumento migliore per sconfiggere il lato oscuro di ogni persona.
Sia che si concluda per una esistenza con Dio o senza Dio, resta un patrimonio di tutti la tensione a l’amor che move il sole e l’altre stelle (Dante, Paradiso, XXXIII, 145).

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