Con una tavola rotonda sul tema “Trasmettere il messaggio della Bibbia nella cultura di oggi” si è concluso sabato 4 dicembre alla Pontificia Università Urbaniana il congresso internazionale “La Sacra Scrittura nella vita e nella missione della Chiesa” dedicato all’Esortazione Apostolica Verbum Domini.
La tavola rotonda è stata presieduta dal cardinale presidente del Pontificio Consiglio della Cultura che, in occasione dei lavori del congresso, ha scritto per il nostro giornale il seguente articolo.
Pubblichiamo anche ampi stralci della relazione del direttore della rivista “Servizio della Parola”.
La recente esortazione apostolica postsinodale Verbum Domini ha un intero capitolo dedicato alla “Parola di Dio e culture”.
È, questa, un’ulteriore declinazione della categoria teologica centrale cristiana, quella dell’Incarnazione.
Essa – afferma Benedetto XVI – “rivela anche il legame indissolubile che esiste tra la Parola divina e le parole umane, mediante le quali si comunica a noi(…) Dio non si rivela all’uomo in astratto, ma assumendo linguaggi, immagini ed espressioni legati alle diverse culture” (109).
Che la Bibbia non sia un aerolito piombato dal cielo della trascendenza, ma sia piuttosto un seme deposto nel terreno della storia è ormai un dato storico-critico e teologico rigettato solo dal fondamentalismo.
Il cuore del cristianesimo è nell’Incarnazione, cioè nel Lògos eterno e infinito che s’innesta, s’intreccia e intride la sàrx, cioè la temporalità, la spazialità, l’esistenza, la cultura dell’umanità (Giovanni 1, 14).
Riannodandosi a un filo tradizionale, che ebbe nell’enciclica Divino afflante Spiritu di Pio xii uno dei suoi nodi decisivi, Giovanni Paolo ii, rivolgendosi il 27 aprile 1979 alla Pontificia Commissione Biblica, affermava che ancor prima di farsi sàrx, “carne” in senso stretto, “la stessa Parola divina s’era fatta linguaggio umano, assumendo i modi di esprimersi delle diverse culture, che da Abramo al Veggente dell’Apocalisse hanno offerto al mistero adorabile dell’amore salvifico di Dio la possibilità di rendersi accessibile e comprensibile nelle varie generazioni, malgrado la molteplice diversità delle loro situazioni”.
Detto in termini sintetici, la Bibbia si presenta anche come un modello di inculturazione o acculturazione sia a livello linguistico, sia in ambito letterario (si pensi ai generi letterari), sia nell’orizzonte tematico e la Verbum Domini ribadisce tale aspetto.
Ovviamente sono innanzitutto le culture dell’antico Vicino Oriente il referente primario, ma non è certo lieve anche l’apporto dell’ellenismo.
Molti sono convinti che Qohelet, l’autore anticotestamentario che incarna la crisi della sapienza tradizionale di Israele, abbia respirato l’atmosfera filosofica greca, in particolare quella dello stoicismo, dell’epicureismo e dello scetticismo dei secoli iv-iii antecedenti all’era cristiana.
Si sono, così, infittite le analisi dei contatti tra certe affermazioni sorprendenti dell’autore biblico col pensiero greco.
Un esempio per tutti.
In Qohelet 1, 9 (cfr.
2, 12; 3, 15) si legge: “Quel che è stato sarà e quel che si è fatto si rifarà; non c’è nulla di nuovo sotto il sole”.
Ora nella Vita di Pitagora (19) di Porfirio si legge questo detto del celebre filosofo: tà ghinòmena pòte pàlin ghìnetai, nèon d’oudèn haplòs estin, “ciò che accadde un tempo di nuovo accade, niente di nuovo avviene semplicemente”.
Paolo Sacchi nel suo commento a Qohelet intuiva, invece, in quello scritto biblico il balenare dell’aurea mediocritas, ossia di una morale della “via di mezzo”.
Infatti in 7, 16-18 si legge: “Non esagerare con la giustizia, né esser troppo sapiente: perché rovinarti? Non esagerare, però, neppure con la malvagità o con la stupidità: perché morire prima del tempo?! È bene aggrapparsi a una cosa senza però staccare la mano dall’altra: chi rispetta Dio riesce in entrambe”.
Certo che, se pure non è possibile ricondurre Qohelet nell’alveo del pensiero greco, è però molto probabile che il clima culturale ellenistico abbia varcato anche le frontiere abbastanza blindate del mondo giudaico-palestinese, come è attestato un secolo dopo (nel ii secolo antecedente all’era cristiana) anche da un altro sapiente biblico, il “conservatore illuminato” Ben Sira o Siracide (si legga il capitolo 38 sul medico e sulla medicina).
Tuttavia, ben più intenso fu il dialogo stabilito dalla Diaspora, soprattutto alessandrina.
Suggestivo è il caso del filosofo giudaico Filone ma anche quello di un libro deuterocanonico come la Sapienza, composto in un greco eccellente probabilmente ad Alessandria d’Egitto forse attorno al 30 prima dell’era cristiana.
In particolare, nei capitoli 1-5 dell’opera, brilla la tesi dell’athanasìa/aftharsìa della psychè: l’immortalità/incorruttibilità dell’anima è certamente formulata e formalizzata attraverso il ricorso al platonismo popolare, anche se il retroterra teologico e antropologico permane saldamente ancorato alla tradizione biblica.
Infatti, questa immortalità beata non è tanto una conseguenza metafisica della natura dell’anima spirituale, come si ha nell’argomentazione platonica, bensì dono e grazia essendo comunione trascendente di vita con la stessa divinità.
Tuttavia l’autore, che conosce anche Se- nofonte, offre un testo che è grondante di ammiccamenti alla cultura greca.
In 8, 7 introduce le quattro virtù cardinali di origine platonica (Repubblica iv, 427e-433e): temperanza, prudenza, giustizia e fortezza.
In 11, 17 evoca l’àmorfos hyle, la materia informe, ispirandosi al Timeo (51A) di Platone, mentre in 11, 20 esalta l’opera divina che “tutto dispone con misura, calcolo e peso”, formula riscontrabile nelle Leggi platoniche (vi, 757B).
In 13, 5 si esalta la conoscenza “analogica” di Dio procedendo dal creato al Creatore secondo una modalità molto affine al De mundo dello Pseudo-Aristotele (vi, 399b, 19 e seguenti).
In 8, 17-20 si adotta il “sorite”, cioè il sillogismo concatenato progressivo, mentre le componenti della Sapienza divina sono modellate in 7, 17-21 sulla base della didattica scientifico-filosofica ellenistica, quasi “canonizzando” l’insegnamento delle scienze naturali impartito nel Museon di Alessandria.
Nella celebrazione che l’autore fa della Sapienza divina (7, 22-24), basata su ventuno attributi, si intuiscono rimandi alla filosofia stoica, mentre nel canto intonato dagli empi nel capitolo 2 occhieggiano concezioni epicuree e persino “materialistiche” (2, 2-3).
L’antropologia a più riprese riflette echi della concezione greca classica.
In 9, 15, ad esempio, si afferma che “il corpo corruttibile appesantisce l’anima e la tenda d’argilla grava la mente dai molti pensieri”, parole che sembrano alludere a un passo del Fedone (81C).
In 8, 19-20 si mette in scena Salomone che parrebbe accogliere la tesi della preesistenza delle anime, anche se il contesto ridimensiona l’idea riconducendola a una semplice esaltazione della preminenza dell’anima sul corpo: “Ero un fanciullo di nobile natura e avevo ricevuto in sorte un’anima buona o, piuttosto, essendo buono, ero entrato in un corpo senza macchia”.
In 17, 11 si ricorre al concetto greco di “coscienza” (synèidesis), mentre in 14, 3 e 17, 2 si celebra la provvidenza (prónoia) divina, con tonalità stoiche, come principio che penetra e regge l’universo.
In pratica, senza conoscere la cultura greca è quasi impossibile leggere con frutto questo gioiello della saggezza biblica della Diaspora.
Giungiamo, così, al contributo della cultura ellenistica nei confronti dell’esperienza cristiana.
Basti solo pensare all’opera missionaria di san Paolo che ha al suo interno un vero e proprio programma di “inculturazione” teologica, elaborata attraverso una strumentazione che ricorre al contributo greco, applicata però in forma molto originale.
I grandi centri di Antiochia, Efeso, Corinto e Roma costituiscono l’areopago in cui il cristianesimo, uscito dal grembo giudaico gerosolimitano, si confronta col mondo ellenistico ed entra in dibattito con esso.
La sfida che già il giudaismo della Diaspora aveva dovuto raccogliere si ripropone con maggior forza e con esiti decisivi per la nuova fede cristiana ma anche per la stessa civiltà greco-romana.
Se stiamo ai rimandi diretti all’interno del Nuovo Testamento, il bilancio materiale è magro perché i testi di riferimento rimangono ovviamente sempre le Scritture ebraiche.
Tre sole sono, infatti, le citazioni dirette: i Fenomeni di Arato in Atti 17, 28 (“Di Lui noi siamo stirpe”), la Taide frammento 218 di Menandro in 1 Corinzi 15, 33 (“Le cattive compagnie corrompono i buoni costumi”), il frammento 1 di Epimenide di Creta in Tito 1, 12 (“I cretesi sono sempre bugiardi, male bestie, ventri pigri”).
In realtà la messe è ben più copiosa quando si lavora sulla filigrana dei testi neotestamentari.
Pensiamo, ad esempio, all’influenza delle speculazioni ellenistico-giudaiche circa la Sofìa e il Lògos divino all’interno della cristologia paolina e giovannea.
Il Lògos del prologo del quarto vangelo, se si àncora alla categoria biblica Davar-Parola, è però segnato da qualche ammiccamento greco a partire da Eraclito fino allo stoicismo.
Pensiamo anche alla riflessione sulla preesistenza e sulla missione di Cristo (Romani 1, 3; 8, 3; Galati 4, 4; Giovanni 1, 1.14): è facile intuire in sottofondo contributi elaborati dal giudaismo che più si era aperto all’ellenismo, cioè a Filone di Alessandria e alle sue concezioni ipostatiche della Sapienza e della Parola divina (De opificio mundi 139; De confusione linguarum 146).
Ma, fuori della mediazione giudeo-ellenistica, il cristianesimo s’inoltra in prima persona nell’orizzonte culturale greco-romano.
Vorremmo indicare al riguardo tre modelli.
Il primo è quello “etico-filosofico” ove è d’obbligo il nesso con la filosofia stoica allora dominante, soprattutto la Nuova Stoà (basti accennare all’epistolario apocrifo tra san Paolo e Seneca).
La dignità della persona, anche se femminile o servile (Galati 3, 28), la relazione intima con l’eterno (2 Corinzi 4, 17-18), il contesto globale unitario in cui l’uomo è collocato e vive (Efesini 4, 4-6), il celibato per ragioni superiori e trascendenti (1 Corinzi 7, 35), lo stesso perdono delle offese (Luca 23, 44), il bastare a se stessi col proprio impegno (Filippesi 4, 1) sono alcuni esempi di questa osmosi o almeno di contatti culturali.
C’è, poi, il modello “misterico”.
Si tratta di un settore ove bisogna procedere con molto rigore e cautela, considerata anche la fluidità degli stessi culti misterici.
Così, sulla morte e risurrezione di Cristo è molto arduo voler scovare paralleli nella ritualità mitica dei misteri: se è certa la morte del dio (Persefone, Osiride, Adone, Attis), molto più problematica è la sua risurrezione che non è mai definita in termini netti e nitidi e soprattutto non secondo le caratteristiche di un evento storico, ma piuttosto seguendo la scansione stagionale della natura.
Inoltre, spesso gli scritti misterici profani sono molto tardivi, di probabile impronta cristiana.
Diverso è, invece, il caso della comunione e della partecipazione alla vicenda della divinità adorata: il linguaggio misterico potrebbe aver offerto a Paolo un supporto espressivo per la formulazione della concezione del “con-morire” e “con-risorgere” del fedele con Cristo (Romani 6, 1-5; Colossesi 2, 18).
Così, la koinonìa “sacramentale” col corpo di Cristo nel pane e nel calice (1 Corinzi 10, 14-22) può aver ricevuto qualche spunto espressivo dal tema della koinonìa con la divinità nel pasto sacro presente nel culto dionisiaco.
Infine, potremo parlare di un modello “politico”.
Il punto di partenza è remotissimo a livello ideale rispetto alla visione cristiana ed è quello del culto ellenistico dei sovrani che approda all'”apoteosi” imperiale del i secolo.
Ora, una serie di titoli come Kyrios, Theòs, Sotèr, tipici di quell’ambito, vengono riproposti – ovviamente secondo coordinate del tutto differenti – dalla cristologia soprattutto paolina che nell’uomo Gesù Cristo confessa la pienezza della divinità.
La stessa categoria parousìa per indicare la futura “venuta” finale di Cristo attinge alla tipologia delle visite imperiali “graziose” (Ateneo, Deipnosofia 6, 253 c-d) e persino il termine euanghèlion appare in chiave imperiale nella famosa iscrizione di Priene.
Concludendo questa carrellata essenziale sul dialogo tra Bibbia ed ellenismo, il contrappunto proprio di ogni confronto interculturale è ben espresso da due dichiarazioni paoline che ci invitano a evitare i due estremi insiti in ogni comparazione: il fondamentalismo esclusivista e il sincretismo dissolutore dell’identità propria: “Esaminate ogni cosa, tenete ciò che è buono/bello” (1 Tessalonicesi 5, 21); “I Greci cercano la sapienza(…) noi predichiamo Cristo crocifisso (…) stoltezza per i pagani” (1 Corinzi 1, 22-23).
(©L’Osservatore Romano – 5 dicembre 2010)
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