Cantava i suoi salmi all’alba con gli uccelli, i gatti e le ortensie, il suo tempio era il creato ma teneva nel casale ad Albiano che aveva rifatto come suo eremo un piccolo tabernacolo per l’adorazione, come la “messa sul mondo” imparata da Teilhard de Chardin.
Se ne è andata quietamente Adriana Zarri, questa pura eremita di vocazione, progenie di una stirpe che fa ricca di silenzi una terra stravolta dal baccano, dalla menzogna e dallo spettacolo, e probabilmente le assicurano una segreta scialuppa.
L’eremo in realtà non era solo suo, era un rifugio per tanti spiriti in ricerca accolti come tali, a prescindere dalle loro convinzioni religiose o atee.
E anche per il mondo cattolico, nel quale aveva donato la sua fedeltà da laica, da teologa, da militante critica, da donna capace di emancipazione e dunque d’imprudenza, pronta a scottarsi la lingua con la verità impavida anche di fronte a vescovi e papi, questa asceta solitaria aveva continuato fino all’ultimo dei suoi 91 anni a tener viva l’inquietudine della profetessa: non era azzardato, alla fine dei conti, paragonarla a una piccola Caterina da Siena con la frusta in mano contro le deviazioni simoniache di una Chiesa ancora concubina ad Avignone.
Era stata lei (il cui ultimo libro uscirà a febbraio per Einaudi Un eremo non è un guscio di lumaca) a rompere il ghiaccio maschilista della corporazione teologica in Italia, rivendicando il carisma femminile del discorso su Dio.
Era stata nel 1969 la prima donna laica ammessa nel direttivo dell’Associazione Teologica Italiana.
Bolognese di San Lazzaro di Savena, era arrivata alla teologia da ragazza, spinta da un profondo interesse religioso e da un’attrazione non meno forte per la filosofia.
Questa passione assume essenzialmente tre forme, la produzione ecclesiologica (a cominciare da un libro sui Padri della Chiesa, specialmente Sant’Agostino), la narrativa e la spiritualità contemplativa, mai però distratta dai problemi della terra per l’alto dei Cieli: prima donna laica in Italia a scrivere un libro sulla teologia e antropologia della preghiera Nostro Signore del deserto.
Nel 1961 Adriana interviene nel dibattito aperto da Giovanni XXIII con La Chiesa nostra figlia, il primo contributo di una donna ai temi della riforma della Chiesa.
La sua critica al trionfalismo clericale prefigura lo sviluppo del modello di “Chiesa di comunione”, libera da egemonie di genere e ricca di carismi.
Teologia del probabile resta probabilmente il suo intervento più incisivo e lungimirante.
Nel 1967, a Concilio appena concluso, gettava l’allarme sulle letture o catastrofista o trionfalista del Vaticano II, l’illusione di una Chiesa definitivamente salva e l’allarme per una Chiesa totalmente turbata, in cui si bloccavano le riforme.
Aveva cercato di fugare il malinteso per cui il modello della riforma era un adattamento borghese del Vangelo.
Era convinta che l’umanesimo cristiano o sarà un ascetismo o un semplice naturalismo, alla caccia di un’ascetica del meno e del negoziato: «Quanti s’illudono che il nuovo corso sia una manica larga che chiude un occhio e permette evasioni hanno torto di esaltare questa nuova stagione della Chiesa: non sarebbe stagione feconda.
Ma il Concilio non incoraggia nulla di tutto questo».
Una frase l’aveva commossa, nei documenti conciliari: «Ignoriamo, non sappiamo».
Le sembrava che la Chiesa ammettesse la sua sprovvedutezza, avendo molto sbagliato lungo i secoli: «Quell’ammissione di ignoranza ci ha depurato il sangue da secoli di presunzione teologica, ci ha reso più umili e poveri di fronte alla grandezza del mistero».
Anche nei romanzi (Quaestio 98: nudi senza vergogna, 1994) le sua militanze religiose, i suoi stessi leggendari furori polemici versavano trame paradossali di storie di monaci che s’inebriano di sessualità come via maestra per la palingenesi cosmica e sociale.
E sull’onda di queste leggende ritroviamo negli anni una mistica che difende la legge sull’aborto come strumento di difesa da pratiche abortive clandestine, reagendo allo zelo intollerante e all’astratta morale del sabato.
E resta il suo monito contro le richieste e quasi le pretese di una legislazione civile che avalli una posizione teologica parziale.
In pagine amare, le ultime, ripeteva la domanda: «Perché tante cattoliche e cattolici sono ormai degli ex? E perché, sconfessandoci, i vescovi rendono sterile la nostra evangelizzazione? Perché tagliano l’ultimo ponte da cui tanti potrebbero passare?».
in “la Repubblica” del 19 novembre 2010 Un amore lungo una vita di Raniero La Valle Non so se la Chiesa, nelle sue istituzioni, renderà onore a Adriana Zarri.
Non foss’altro che per il suo lunghissimo amore, che è durato quanto la sua vita.
Un amore esigente e critico, per il quale ella si ostinava a pensare che non necessariamente la Chiesa dovesse essere così come era, che essa potesse avere migliori papi e migliori vescovi, che potesse cambiare, rinnovarsi, per dispensare più largamente parole di vita.
E di una Chiesa capace di rimettersi in questione, di riaprire tutti i canali di comunicazione col mondo, di tornare a narrare in modo nuovo il suo racconto di salvezza, Adriana Zarri era stata testimone durante il Concilio, e al Concilio è poi rimasta sempre fedele.
Anche la scelta eremitica, mai pensata come fuga dal mondo o isolamento aristocratico, la rendeva più forte nella sua libertà di fronte all’istituzione, come è proprio di tutta la tradizione monastica.
E anche nei momenti più critici, la sua fedeltà non è venuta mai meno.
Certo parlava della Chiesa con piglio da teologa, e con quella autorità che poche donne hanno saputo esercitare nella Chiesa, e che in ogni caso ben raramente viene loro riconosciuto.
Ma la sua teologia era meno interessata al «logos» che all’amore, meno alla «verità» che alla misericordia; ed è per questo che pur dal suo eremo, la sua presenza straripava su giornali e televisioni per dire la parola necessaria; e per questo è stata compagna di speranze e di lotte, non violente e pacifiche, di molti di noi.
Perciò oggi di sicuro c’è una Chiesa che le rende onore, che ne raccoglie la lezione, che ne custodisce la memoria, anche al di là della Chiesa visibile; è quella Chiesa che Adriana Zarri rintracciava nell’umanità tutta intera, fatta di santi e di peccatori, di fedeli e di infedeli, di laici e di preti, di poveri e di viandanti, tutti insieme, senza separazione né discriminazione alcuna.
Certo, è un dolore che sia morta nella solitudine, e non solo in forza della sua scelta monastica, ma per amicizie fattesi avare, e per quella disattenzione e miopia che non fa riconoscere i valori, là dove fermentano per tutti.
Ma lei era contenta di vivere, ed anche pronta a morire.
Non so se è stato l’ultimo o uno degli ultimi suoi scritti, quello su Rocca del primo agosto scorso.
Era un «controcorrente» che significativamente era intitolato «Stagioni».
Raccontava le stagioni come le vedeva dalla sua cascina del Canavese, ma anche le stagioni della vita.
E diceva che «l’alternarsi delle stagioni è come i tempi della vita: l’acerbo verde dell’infanzia, la rossa accensione dell’età matura, lo stanco biondo dell’invecchiamento, il bianco fermo della morte.
Ma la morte dà origine alla vita.
È la resurrezione».
E dell’autunno diceva che in esso «si raccolgono i frutti che il caldo agosto ha maturato» e che terminato l’inverno «torna la primavera.
Il sole sarà ancora caldo, il prato sarà ancora verde e noi ancora con tanta voglia di vivere».
Adriana Zarri se ne è andata tra l’autunno della raccolta dei frutti e l’inverno che preannuncia «ancora tanta voglia di vivere».
È questa sua voglia e capacità di vivere che ora vogliamo celebrare, non la definitività della morte a cui lei negava la vittoria.
E non solo celebrare, ma raccogliere come lascito e come monito.
in “il manifesto” del 19 novembre 2010
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