Tormenti creativi di un giovane rocker

“Ho visto il futuro del rock’n roll e il suo nome è Bruce Springsteen”.
Quando il 22 maggio del 1974, dopo aver assistito a un concerto a Cambridge, in Massachusetts, scrive questa frase, una delle più celebri della storia del giornalismo musicale, Jon Landau è il critico più influente d’America.
Sa che la casa discografica che ha prodotto i primi due dischi del giovane rocker non è soddisfatta, ma lui coglie in quel ragazzo un potenziale che non può andare perduto.
E non si sbaglia.
Springsteen riesce a realizzare Born to Run, che si rivela un successo imprevisto e clamoroso; “Time” e “Newsweek” gli dedicano la copertina la stessa settimana.
È l’inizio di una carriera incredibile e non ancora giunta al capolinea.
Chiunque, poco più che ventenne, avrebbe cavalcato l’onda, continuando sulla stessa strada.
Springsteen no.
Complice una disputa legale con il precedente produttore, che non gli permette di entrare in uno studio di registrazione per tre anni, il cantautore  ha  il  tempo  di  riflettere  sulla sua musica.
E di pensarne una nuova – chiuso nella sua casa di Freehold, New   Jersey,   assieme   alla   storica E-Street Band – segnando una svolta nel suo stile.
Nasce così uno degli album più importanti della storia del rock, Darkness on the Edge of Town.
A quell’indimenticabile esperienza creativa il regista Thom Zimny ha dedicato un docufilm intitolato The Promise:  The Making of Darkness on the Edge of Town, presentato in concorso nella sezione “L’Altro Cinema Extra” al Festival internazionale del film di Roma, proiezione diventata uno degli eventi della rassegna grazie anche all’inattesa e acclamata presenza in sala di Springsteen.
 Ed  è  stato  lo  stesso  Boss  a  spiegare il senso di questa operazione:  “Darkness è il disco che mi ha fatto capire esattamente quale sarebbe stato il mio posto nella musica, quello che ancora più di Born to Run ha avviato il mio dialogo con il pubblico”.
Un dialogo molto personale. “In molti miei dischi – ha aggiunto – racconto la ricerca di un’identità.
Ancora oggi non so chi sono.
Quando registrammo Darkness avevo 27 anni ed ero completamente identificato con la musica che facevo e questo è il motivo per il quale abbiamo lavorato così a lungo.
Le domande essenziali che mi ponevo erano:  da dove vengo? Cosa vuol dire essere figlio? Cosa vuol dire essere americano? Oggi mi domanderei cosa vuol dire essere padre.
Sono domande essenziali.
Poi si trattava di trovare delle storie e spesso sono le storie che scelgono te”.
Nel disco si riflette la necessità di capire, di andare a vedere come stavano le cose.
Una necessità ora più forte dell’istinto di fuga contenuto nel precedente lavoro.
Ma non è facile, perché lo stesso cantautore sembra impaurito da quanto gli sta accadendo.
Teme che il successo possa minare la sua identità.
Sente di essere un provinciale, tuttavia non vede in questo un limite.
Semmai un di più.
Con duemila dollari compra un’auto e con un membro della band va in giro per il Southwest a vedere l’America.
Per raccontarla dal vivo.
Già all’anteprima mondiale a Toronto Springsteen aveva chiarito il perché di questa svolta.
“In studio per Darkness realizzammo più di settanta pezzi e fu difficile scegliere.
Molti dimenticano che in quegli anni c’era stato il punk, e l’America stava attraversando un periodo drammatico:  la guerra del Vietnam era finita da qualche anno ed era come se il Paese avesse perso l’innocenza.
Io ero un ragazzo ambizioso, volevo essere la voce di tutto questo.
Quindi tolsi tutte le canzoni più allegre e lasciai le dieci più toste.
Ne uscì un disco arrabbiato”.
Raccogliendo le testimonianze di tutti coloro che parteciparono a quella stagione irripetibile, attraverso le immagini in uno sgranato bianco e nero in cui Springsteen appare come un adolescente instancabile alle soglie di un’impresa straordinaria, il film racconta con rara efficacia il lavoro creativo di un artista e la genesi di un’opera d’arte:  la quasi maniacale ricerca di un linguaggio narrativo e musicale nuovo, il desiderio di ricreare in studio il sound dei concerti, la profonda aspirazione estetica ed esistenziale, e le urgenze sociali che lo muovevano.
E in questo passaggio l’artista trova una voce adulta, comprendendo che cosa vuole realmente scrivere, quali sono le persone di cui gli importa e chi vuole essere:  “I miei amici e la mia famiglia lottavano per condurre una vita decente e produttiva, e in questo vedevo una specie di eroismo quotidiano”.
Operazione riuscita, se oggi, sessantenne, può affermare che il risultato “è proprio quello che speravo a ventisette anni:  di avere scritto qualcosa che avrebbe continuato a riempirmi di obiettivi e di significati negli anni a venire, che avrebbe continuato ad avere valore sia per me che per voi.
Devo alle scelte che abbiamo fatto allora, e a quel giovane, il dovuto rispetto”.
Questo eccezionale documento – testimonianza di quanto bisogno ci sia di musica di qualità, merce sempre più rara oggi, tanto da dover attingere di continuo a un più solido passato – fa parte di un cofanetto dal titolo The Promise:  the Darkness on the Edge of Town Story, che la Sony ha messo in commercio martedì, con oltre 6 ore di filmati e riprese video inedite, e due ore di musica realizzate nel periodo 1976-1978.
La confezione contiene tre cd – uno con la versione rimasterizzata del disco e due con 21 canzoni per lo più inedite – e tre dvd con il docufilm, altre immagini inedite di Springsteen e la E-Street Band, nonché un video in alta definizione con l’esecuzione dell’album nella sua interezza, registrato appositamente nel 2009 al Paramount Theather di Asbury Park, senza pubblico per ricreare l’atmosfera del disco originale ma suonato con la stessa grinta di un concerto.
Tuttavia la vera chicca per i fan è la riproduzione del block notes sul quale Springsteen annotava i testi delle canzoni, modificandoli di continuo, aggiungendo annotazioni, alla ricerca del mix perfetto di parole e musica.
In parallelo viene pubblicato anche un doppio cd intitolato The Promise contenente solo i 21 inediti, tra cui Because the Night scritta con Patti Smith.
Un nuovo album, in realtà, con atmosfere meno cupe, che Jon Landau, ormai storico produttore del Boss, ha definito il disco di raccordo tra Born to Run e Darkness.
Che l’attenzione su Springsteen sia particolarmente alta in questo momento è testimoniato anche in Italia dalla recente pubblicazione di due interessanti libri, che vanno ad aggiungersi alla già lunga lista di volumi dedicata al rocker.
Marina Petrillo, autrice di Nativo Americano.
La voce folk di Bruce Springsteen (Milano, Feltrinelli, 2010, pagine 296, euro 16), analizza l’impatto sulla cultura statunitense di un cantautore che ha influenzato generazioni di giovani, venduto milioni di dischi e respinto definizioni ed etichette.
Accanto alla fama di animale da palcoscenico, Spingsteen ha maturato una sempre più consapevole identità acustica, divenendo lui – il Boss del rock’n roll – il custode di un’antica tradizione popolare che affonda le radici nel folk.
Una scoperta, questa, che non lo ha sorpreso, ma che gli ha imposto un tono, una scelta.
Non meraviglia, quindi, che i personaggi delle sue canzoni, veri e propri racconti brevi, siano operai, disoccupati, migranti, banditi, reduci di guerra, ex galeotti, attratti e disillusi dal sogno americano:  tutti idealmente figli di Tom Joad, il protagonista di Furore, tutti in fuga dalle terre cattive (Badlands) e alla ricerca della terra promessa (The Promise Land).
Lasciandosi condurre da quella “voce folk”, capace di rievocare i personaggi di Steinbeck, i paesaggi di Faulkner, le ballate di Woody Guthrie senza dimenticare le suggestioni del blues, del gospel e dello spiritual, Marina Petrillo ripercorre l’itinerario umano e artistico di Springsteen.
Per sottolineare che – dai boschi stregati di Nebraska alle esperienze con la Seeger Sessions Band fino all’impegno politico – in quella voce si materializza l’indole di un vero narratore, dalla quale emerge una forte passione civile sfociata in quel Working on a dream divenuto la colonna sonora della campagna elettorale di Barack Obama.
“Attingendo alle radici più antiche dell’America – si legge – e tornando sempre alla scelta di campo che gli hanno imposto le sue origini proletarie, oggi Springsteen si trova in quel pensiero che non si volge a un’idea autodifensiva di comunità, ma piuttosto a una fede nel funzionamento di una sobria vita comune con la sua intrinseca fertilità”.
L’altro volume, Runaway Dream.
Born to Run e la visione americana di Bruce Springsteen, di Louis Masur (Roma, Arcana, 2010, pagine 223, euro 17,50), celebra in particolare i 35 anni dell’uscita dell’album.
A metà degli anni Settanta fu il disco manifesto degli States, di una società dinamica che temeva di vedersi sfuggire di mano il tanto decantato sogno americano.
Attraverso i personaggi che si muovono in quelle storie il giovane cantautore dava voce a quanti avevano poco da perdere, nati per correre, pronti a fuggire verso un futuro migliore, verso una visione diversa di mondo, capace di restituire speranza e una possibilità di redenzione.
Per questo, come sottolinea Masur, Born to Run è molto più di un semplice album rock:  è un’esplosione poetica, un grido di strada che esprime al contempo frustrazione e ansia di libertà.
Runaway Dream racconta la gestazione dell’opera che lanciò Bruce Springsteen nel firmamento della musica mondiale e ne analizza l’impatto sulla cultura statunitense, dimostrando come le immagini della sterminata provincia in essa contenute abbiano sfidato il tempo e siano ancora oggi vivide e potenti, anche se il sogno americano si è infranto.
Spazzato dall’ennesima crisi economica che ha forse riportato quella stessa atmosfera cupa che si coglie nell’album.
(©L’Osservatore Romano – 18 novembre 2010)

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