“Erik Peterson. La presenza teologica di un outsider”

Abbiamo tutti qualcosa da imparare da lui di Karl Lehmann Negli anni tra il 1921 e il 1924 Erik Peterson è impegnato in un lavoro di ricerca straordinariamente intenso su molti temi che cerca sempre di interpretare individuandone le fonti:  la storia del concetto mistico-religioso “amico di Dio”, l’esegesi biblica nel pietismo del XVIii secolo, la prassi religiosa di pregare rivolgendosi a oriente e infine la teoria della mistica.
Molte sue recensioni documentano un confronto intenso con la storia delle religioni e con la filologia classica; vi si abbinano vari studi di bizantinistica, saggi sulla lingua e sulla cultura copta e così via.
In questo periodo e anche più tardi possiamo ammirare con quanta intensità Erik Peterson si lasci coinvolgere dallo studio di ambiti disciplinari spesso tra loro molto distanti, pur rimanendo sempre ancorato alla ricostruzione delle fonti.
In questa sua attività di ricerca subì, in un primo tempo, il fascino della scuola di storia delle religioni e, in particolare, quello di Richard Reitzenstein (cfr.
Ausgewählten Schriften, 9/1, p.
247s., 254s., 259s.).
Anche in questo periodo la conoscenza dei Padri della Chiesa svolse sempre un ruolo fondamentale.
A prevalere nella attività di ricerca e approfondimento di Peterson sono sempre le motivazioni autentiche e profonde della teologia.
Diffida di ogni “sistema” perché teme che la forza della sintesi possa fare violenza alla dimensione di mistero e di apertura propria della fede.
Persino negli studi più specialistici non si allontana mai dalle linee d’orientamento della teologia; si orienta costantemente verso la struttura sostanziale entro cui si iscrivono le relazioni di fondo della teologia, senza peraltro cedere alla tentazione di elaborare sintesi di corto respiro.
Ci si stupisce del come Peterson abbia individuato ben presto e percorso senza indugio un proprio itinerario teologico.
Si ricava non di rado l’impressione che i suoi orientamenti di fondo fossero già chiari a partire dal 1921/22, nonostante la molteplicità ed eterogeneità delle tematiche da lui trattate.
In quegli anni infatti si occupò del monachesimo e della sua storia, della tradizione e del presente della mistica, ma anche del cardinale John Henry Newman (cfr.
Ausgewählten Schriften, 9/1, p.
21s., p.
599, p.
xxXVIii) e infine di Tommaso d’Aquino durante il celebre corso frequentato da Karl Barth nel semestre invernale del 1923/1924.
Il primo incontro con Karl Barth ebbe luogo nel 1921.
Frutto particolarmente compiuto delle ricerche di questo periodo è il corso, ancora totalmente inedito, su “La storia della mistica della Chiesa antica” tenuto a Gottinga nel semestre estivo del 1924 e ripreso a Bonn nel semestre invernale del 1925/1926.
Soprattutto nelle lezioni di questi anni Peterson si è molto occupato della storia della Chiesa:  non solo di quella dei primi secoli, ma anche di quella del diciottesimo e diciannovesimo secolo (cfr.
Ausgewählten Schriften, 9/1, p 353s., p.
603s.).
In questo periodo emersero anche i suoi interessi e impulsi spirituali, talvolta caratterizzati da accenti addirittura mistici (cfr.
Ausgewählten Schriften, 9/1, pp.
277-349).
Negli anni 1924-1925, quando Peterson passò all’università di Bonn come ordinario di Storia della Chiesa e Nuovo Testamento, si aprì una nuova fase nella sua produzione teologica, nuova non tanto per i contenuti trattati, quanto invece per lo stile delle sue pubblicazioni.
I primi segnali della svolta si trovano in un confronto critico con Paul Althaus (cfr.
Ausgewählten Schriften, 9/1, pp.
303-323) e poi soprattutto nel breve opuscolo Che cosa è la teologia? dell’anno 1925, scritto come un discorso all’università in cui egli criticava aspramente l’intervento di Rudolf Bultmann su Che senso ha parlare di Dio?.
L’intervento di Peterson rappresenta una critica fondamentale della teologia dialettica e dei suoi presupposti, assume anzi nella sua sostanza il tono d’una critica dell’intera teologia protestante dell’epoca.
A esser posto in questione in termini radicali è il compito che la teologia ha fatto proprio ricorrendo al linguaggio del diciannovesimo e ventesimo secolo, cioè al voler “parlare” di Dio.
Solo Gesù Cristo ha invece il diritto di parlare “di” Dio; la teologia ha solo un’autorità derivata.
“C’è teologia solo se si presuppone l’autorità dei profeti e l’autorità di Cristo” (Ausgewählten Schriften, 1, p.
11).
Peterson difende una teologia subordinata al dogma della Chiesa.
Nonostante l’intensa discussione, condotta anche con Karl Barth e Rudolf Bultmann, non abbia portato ad alcun risultato immediato, è pur vero però che il dibattito aperto dall’opuscolo nell’ambito della teologia evangelica favorì nel medio termine un parziale riorientamento a favore di una dottrina della fede vincolata alla Chiesa; quest’influsso è avvertibile in particolare in Karl Barth, sensibile agli stimoli di Erik Peterson soprattutto a partire dal corso di Gottinga su Tommaso.
Nei tre anni successivi Peterson pubblicò lavori quasi esclusivamente storici, in particolare sulla letteratura mandea.
Un carteggio con Adolf von Harnack (1928) lo stimolò a riprendere i temi teologici centrali sinora trattati ricorrendo a un approccio più sistematico; nel 1932 pubblicò questa corrispondenza con una postfazione dettagliata sulla rivista Hochland (cfr.
Ausgewählten Schriften, 1, carteggio:  pp.
175-184, epilogo:  pp.
184-194).
La conferenza su La Chiesa risale alla fine del 1928:  Peterson vi riprende alcune idee del carteggio con Harnack, cercando soprattutto di porre in evidenza i fondamenti dell’autorità della Chiesa.
L’analisi di questa tematica rientra in una serie di studi condotti, a partire dal 1926, su questioni fondamentali attinenti la categoria dell’ ekklèsia (cfr.
Ausgewählten Schriften, volume speciale), cioè il rapporto esistente tra Rivelazione e Chiesa, tra diritto e carisma, tra le strutture ministeriali della Chiesa e la successione apostolica, i sacramenti, l’origine della Chiesa – in particolare la relazione tra la “fondazione della Chiesa” e l’annuncio del Regno di Dio da parte di Gesù – e infine, di non minore importanza, la natura e il ruolo della liturgia.
Nel trattare di questi argomenti Peterson non aveva solamente precisato quelli che sarebbero stati i nuclei tipici della propria ricerca:  già da tempo si occupava di questi problemi e di queste tematiche; grazie alla pubblicazioni di tale opuscoli perseguiva la finalità di provocare negli interlocutori una chiara decisione.
Dopo “Che cosa è la teologia?” e “La Chiesa (Ausgewählten Schriften, 1, pp.
245-257), Peterson si trovò sempre più isolato; la reazione alle sue provocazioni si tradusse anzi non di rado in “un silenzio glaciale” (Barbara Nichtweiß).
Nel maggio 1929 chiese alla Facoltà di teologia evangelica di Bonn un’aspettativa e alcuni mesi dopo rassegnò le dimissioni al Ministero Prussiano dell’istruzione di Berlino.
Nel Natale del 1930 a Roma si convertì alla Chiesa cattolica.
Più tardi accennò al fatto che le questioni e  i  problemi  che  lo  assillavano  fin dai tempi della sua adesione al pietismo e del suo incontro con Kierkegaard avrebbero potuto e potevano trovare una risposta solo nella Chiesa cattolica (su questo cfr.
Ausgewählten Schriften, 9/2, p.
325).
Peterson trascorse gli anni successivi a Roma, dove sposò nel 1933 la romana Matilde Bertini.
Tra il 1934 e il 1940 da questo matrimonio nacquero cinque figli.
Peterson ebbe grandi difficoltà a provvedere al mantenimento della sua famiglia, in particolare dopo che il governo tedesco gli tolse la sua modesta pensione (1937).
In questo periodo ottenne un incarico di insegnamento, anche se poco retribuito, al Pontifico Istituto di Archeologia Cristiana a Roma.
Morì ad Amburgo il 26 ottobre 1960, nell’anno in cui gli venne conferito il dottorato honoris causa a Bonn e a Monaco; venne seppellito a Roma nella tomba di famiglia al Campo Verano.
Quando ci si occupa di Erik Peterson non si può fare a meno di notare una svolta abbastanza significativa, non riconducibile solo alla sua venuta a Roma, alle difficoltà del periodo del nazionalsocialismo e alla seconda guerra mondiale; questa svolta coincide in particolare con la sua conversione alla Chiesa cattolica, maturata lentamente nella seconda metà degli anni Venti e conclusasi infine nel 1930.
Su entrambi i fronti coinvolti si continua a respirare tuttora un certo scetticismo.
Per non pochi esponenti del mondo evangelico Peterson continua a essere un “apostata”, anzi un traditore (cfr.
Ausgewählten Schriften, 9/2, p.
320s., cfr.
anche p.
306, p.
308s.) mentre per molti cattolici ha ancora l’aura di un neofita di cui non ci si può del tutto fidare.
Questa prospettiva ostacola un’adeguata valutazione del problema.
Erik Peterson ha deciso di convertirsi; pur avendo un’idea piuttosto critica della storia della Chiesa da cui proveniva, non ha però mai assunto un atteggiamento pubblico di polemica nei suoi confronti.
Si prova ancora oggi una certa commozione nel leggere la lettera che Erik Peterson ha scritto a Karl Barth il 31 dicembre 1930, il giorno di san Silvestro.
E sono toccanti per esempio anche le sue riflessioni del 1932, scritte in occasione della pubblicazione del carteggio con Adolf Harnack:  “Ho cercato di comprendere, non di condannare.
Mi sono anche preoccupato di collocare le affermazioni di Harnack nella giusta prospettiva, in modo da non dare adito a una fin troppo facile propaganda cattolica.
Spero che da parte protestante si riconosca che mi sono ben guardato dal dire qualcosa di offensivo contro la parte evangelica.
So di non essere mosso da alcun risentimento” (Ausgewählten Schriften, 9/2, p.
325s.).
Allo stesso modo i rapporti con Karl Barth, nonostante tutte le differenze, continuarono a essere improntati al rispetto reciproco ancora per molto tempo; la stessa cosa si può dire anche dei rapporti con Karl Ludwig Schmidt, Gerardus van der Leeuw e Oscar Cullmann.
Peterson ha qualcosa di particolare da dire a ciascuna Chiesa; non c’è davvero alcuna necessità che venga difeso o riabilitato.
Non si può negare che la sua opera contenga affermazioni problematiche, per esempio sugli eretici e sugli ebrei.
Desidererei ripetere oggi quanto ho scritto nel 2009 nella prefazione al volume 9 delle Ausgewählte Schriften:  “Nelle sue riflessioni di allora sulla teologia, sul dogma, sulla liturgia e sulla Chiesa, Peterson ha anticipato non poche posizioni che sono state a volte faticosamente riprese nei decenni successivi e che, per diversi motivi, dovrebbero ancora oggi esser riprese e approfondite, come di fatto già avviene.
Molte riflessioni di Erik Peterson, riguardanti soprattutto i fondamenti della Chiesa, attendono tuttora di essere riscoperte e apprezzate in ambito ecumenico.
Ogni Chiesa ha qualcosa da imparare da Erik Peterson:  i cattolici possono capire in quali aspetti la sua più intima ricchezza sia stata danneggiata o anche deturpata, gli evangelici hanno la possibilità, nel riflettere su Erik Peterson, di ripercorrere la propria storia in maniera autocritica, pur non condividendone le singole posizioni (cfr.
Ausgewählten Schriften, 9/1, pp.
353-553, pp.
603-648).
Per usare le parole di una lettera scritta nel 1956 da Hans-Urs von Balthasar a Erik Peterson potremmo anche dire:  “Quanto è sapido, quanto è straordinario tutto ciò che Lei scrive e quanto volentieri si rilegge ciò che già si sa (…) Si vorrebbe conoscere tutto ciò di cui Lei parla” (Ausgewählten Schriften, 9/2, p.
398).
(©L’Osservatore Romano – 24 ottobre 2010)  La marginalità che mantiene giovani Domenica 24 ottobre si aprirà al Pontificio Collegio Teutonico di Santa Maria in Campo Santo il convegno internazionale “Erik Peterson.
La presenza teologica di un outsider” organizzato nel cinquantenario della morte del teologo tedesco (7 giugno 1890 – 26 ottobre 1960).
Il 25 e il 26 ottobre i lavori proseguiranno presso l’Istituto Patristico Augustinianum.
Lunedì mattina i partecipanti al convegno e l’intera famiglia Peterson saranno ricevuti in udienza da Benedetto XVI.
Anticipiamo ampi stralci delle relazioni inaugurali che saranno tenute dal cardinale archivista e bibliotecario di Santa Romana Chiesa e dal cardinale vescovo di Magonza.
di Raffaele Farina È noto che quando Peterson decise di stabilirsi a Roma, a sostenerlo fu per anni la mano provvida del mio predecessore, il cardinale Giovanni Mercati.
Fu lui che – su indicazione del Gelehrtenpapst Pio xi e del cardinale Eugenio Pacelli, allora segretario di Stato – si preoccupò di trovargli una collocazione professionale che gli consentisse di mantenere la crescente famiglia.
È meno noto il contesto in cui il cardinale bibliotecario prestò questo suo aiuto.
L’azione di aiuto del Mercati a favore di studiosi tedeschi risale all’inizio degli anni Venti, dopo la prima guerra mondiale, “nel periodo più triste dell’assedio e poi della depressione e penuria della Germania”, come scrisse egli stesso in un frammento autobiografico.
 Quest’azione di sostegno viene incrementata a partire dal 1936, l’anno in cui Mercati è creato cardinale e in cui Peterson comincia a godere in forma istituzionalizzata della sua liberalità.
In occasione della nomina a cardinale, Pio xi affida all’ex collega della Biblioteca Vaticana la gestione di una consistente somma a favore degli studiosi perseguitati per ragioni razziali.
Il cardinale risponde con intelligente generosità, sino a farsi promotore di un appello all’episcopato americano a favore degli intellettuali costretti all’emigrazione.
L’appello è fatto proprio da Pio xi che lo trasmette, il 10 gennaio 1939, come sua lettera personale, ai cardinali nordamericani:  è uno dei suoi ultimi atti ufficiali.
Come afferma lo storico Nello Vian, scriptor emeritus e segretario della Biblioteca Vaticana, fu in questo periodo della prova che la Biblioteca si rivelò essere per non pochi studiosi “un’arca di rifugio e spesso un ponte di passaggio” verso lidi attentamente sondati da Mercati grazie ai suoi contatti americani.
È forse opportuno collocare in questo contesto la mediazione attivata da Jacques Maritain a favore di Erik Peterson presso l’Università Cattolica di Washington nel 1938.
Peterson declinò l’offerta della cattedra a favore del giovane patrologo Johannes Quasten, allora residente a Roma in situazione di precarietà.
Oltreché di una provvida mano Mercati disponeva anche di un’intelligenza, provata da non pochi interrogativi, che lo accomunavano alla biografia intellettuale del teologo Peterson.
Questa prossimità impreziosiva il suo obolo, trasformandolo in un riconoscimento credibile perché al contempo autorevole e altamente simbolico.
Non era stato forse il pio cardinale il primo studioso a recensire in Italia, sulla “Rivista bibliografica italiana”, tra il 1896 ed il 1898, non senza convinto encomio, le opere di Adolf von Harnack? Non aveva egli forse intrattenuto, tra il 1892 e il 1903, una fitta corrispondenza con Alfred Loisy, di cui aveva recensito su “L’Osservatore Romano” non poche pubblicazioni? La crisi modernista colpì Mercati, figlio scientifico dell’Ottocento (“il secolo della storia”), nel vivo delle sue relazioni scientifiche.
Se da un lato non scalfì la sua sacerdotale lealtà, acuì dall’altro in lui la capacità di percepire uno dei drammi che maggiormente investirono la biografia intellettuale di Peterson, il conflitto di lealtà.
Chi tenga presente la biografia spirituale di Peterson non potrà non cogliere in quella intellettuale di Mercati più di un parallelo, sia pure all’insegna dello scarto generazionale e di una profonda differenza – il loro contrapposto rapporto teologico con la storia.
Le carte di Mercati relative al periodo successivo al 1936 non sono ancora catalogate; si è autorizzati a ipotizzare che esse riservino alcune positive sorprese per lo studioso di cose petersoniane.
Quanto si può per ora affermare è che nella relazione tra il cardinale e Peterson, al di là della mano tesa, vi fu una comune percezione della crisi che stava allora attraversando la storiografia ecclesiastica.
Dedicandogli, nella miscellanea del 1946, uno studio, divenuto classico, sull’origine del nome christianus, Peterson volle sottolineare in actu exercito questa comunanza.
Le relazioni attivate grazie al Mercati e all’ambiente a lui vicino presero col tempo una loro autonomia:  consentirono a Peterson di interagire, già a partire dalla fine degli anni Trenta, con vari esponenti della cultura italiana.
È in questo periodo che egli annoda i primi contatti con il cattolicesimo lombardo.
Il secondo dopoguerra rappresenta per Peterson un periodo di adattamento alla situazione di esilio intellettuale in cui di fatto si trova.
Svanito ben presto, anche se non del tutto, il sogno di un reinserimento nel mondo accademico tedesco, egli tenta approcci – ormai sulla soglia dei sessant’anni – a referenti editoriali che gli facciano ben sperare per la valorizzazione dei suoi studi.
Inaspettato fu per lui, nel 1947, l’affidamento della responsabilità scientifica della sezione patristica dell’Enciclopedia Cattolica.
Un rapido sguardo agli organi in cui apparvero le prime traduzioni italiane delle sue opere documenta un’impressionante eterogeneità.
Se da un lato vi sono organi semiufficiali come le “Ephemerides Liturgicae”, dall’altro vi sono la “Fiera Letteraria” e la laica casa editrice di Adriano Olivetti.
L’imprenditore, di confessione evangelica, seppe abbinare a un lungimirante progetto di industrializzazione socialmente avanzata un’azione editoriale, volta a liberare la cultura italiana dal persistente cappio dello storicismo.
Il primo volume delle sue Edizioni di Comunità altro non fu che la petersoniana Chiesa degli ebrei e dei gentili, pubblicata con la prefazione dell’allora, non indiscusso, ambasciatore Jacques Maritain.
Con Peterson escono in libreria Newmann e Kierkegaard:  è una prova che il fossato tra cultura teologica ed editoria laica non risponde – perlomeno negli anni della ricostruzione – a una legge di natura.
È con Olivetti, prima ancora che con l’editore Wild della Kösel Verlag di Monaco, che Peterson discute del progetto di pubblicazione dei futuri Trattati teologici – ed è sul primo numero della sua rivista “Comunità” che egli pubblica quella preziosa critica teologica della tecnica, che è il Nonne hic est filius fabri? La prospettiva offerta era davvero accattivante, soprattutto ove si tenga presente che i Trattati teologici documentano l’interna unità del suo itinerario teologico nelle due fasi confessionali, evangelica e cattolica.
Basti ricordare i termini con cui il protestante Olivetti presentò allora la sua concreta utopia:  “offrire all’élite italiana una possibilità di cultura totale in un senso ecumenico”.
A questo punto ci possiamo domandare:  Date queste premesse, perché allora Peterson non fu recepito? Il confronto instaurato con la sua opera dall’elite cattolica italiana del secondo dopoguerra è dominato in effetti da uno strano paradosso:  la volontà ecclesiale di recepire la sua opera coesiste con una mancata assimilazione della sua proposta teologica.
È difficile dare un’adeguata risposta agli interrogativi ecclesiali posti dal paradosso accennato.
In ultima analisi una prospettiva di soluzione è forse quella offerta dallo stesso Peterson:  il paradosso non tocca tanto lo spazio storico-ecclesiale in cui operò, quanto invece le forme radicali con cui egli maturò proprio in quegli anni il nucleo escatologico della sua proposta di spiritualità.
Gli anni della mancata ricezione coincidono con gli anni in cui l’attenzione alla cultura dello sviluppo prevalse sulla disponibilità a ripensare la natura della teologia della secolarità.
Più che nei manuali di sociologia religiosa, la risposta al paradosso indicato va forse cercata nelle petersoniane Glosse di teologia, un progetto di antropologia cristiana tuttora da riscoprire.
Certo, Peterson visse, soprattutto invecchiando, un profondo bisogno di un riconoscimento che non ebbe.
Determinante è però il fatto che, confrontandosi con questa esperienza della negatività, abbia elaborato le linee di fondo di una spiritualità della paroikia.
La positiva accettazione di una strutturale dialettica tra la marginalità e la presenza del cristiano nel mondo venne da lui declinata e teorizzata in riferimento allo scarto esistente tra i tempi di Dio e quelli dell’uomo.
Una spiritualità della paroikia, dell’esser “altro” del cristiano nel mondo, conosce un solo riconoscimento – quello maturato quotidianamente nell’accoglienza del Kyrios.
Il solecismo outsider, ripreso nel titolo del simposio a traduzione del termine greco paroikòs, è stato legittimato in italiano, dopo decenni d’ostracismo linguistico, da don Giuseppe De Luca, lo storico della pietà che di quest'”alterità spirituale” fu attivo esponente nel mondo della Biblioteca Vaticana e altrove.
Non a caso Peterson, nel suo commento al Vangelo di Giovanni, parla di un'”ora teopolitica” dell’Annuncio.
Nella citata lettera al suo editore Peterson parla di una marginalità che “mantiene giovani per la vita eterna”.
Come illustra il frammento del sarcofago di Giunio Basso, acquisito a logo del presente simposio, il Cristo che si dà, nel momento attivo e relazionale della Rivelazione, nella consegna della nuova Thora, è lo stesso che irrompe gioioso nel tempo dell’uomo per guidarlo verso la nuova Gerusalemme – ed è un Cristo incredibilmente giovane.
Sulla piazza qui vicina, all’apertura del presente pontificato, ci è stato autorevolmente ricordato da uno studioso di Peterson salito sulla cattedra di Pietro:  “La Chiesa è giovane!”.
E giovane è l’antico albero della vita da cui Peterson coglie i frutti della sua proposta teologica per farcene tuttora regalo.
(©L’Osservatore Romano – 24 ottobre 2010)

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