Islam e cristiani un dialogo è possibile

Dalle folcloristiche provocazioni del colonnello Gheddafi riguardo all'”ineludibile” conversione dell’Europa all’Islam, alle continue, deliranti dichiarazioni di al-Qaeda, fino agli eventi legati alle commemorazioni dell’11 settembre 2001 negli Stati Uniti, si è parlato molto di Islam e Cristianesimo in queste settimane.
Il Sinodo dei vescovi per il Medio Oriente, che si è concluso ieri in Vaticano, ne ha fatto oggetto di una necessaria riflessione, focalizzando l’attenzione piuttosto sul rapporto concreto fra le due fedi e i credenti che vi si riconoscono.
Il dibattito sulle politiche di integrazione, accesosi dopo le dichiarazioni della cancelliera Merkel, ha poi mostrato come non si tratti di discussioni accademiche, ma di problemi che ci riguardano tutti.
C’è chi fa previsioni apocalittiche di prossimi e sempre più duri “scontri di civiltà”, c’è chi sembra rassegnato a un preteso, inevitabile “declino” della cultura segnata dal Cristianesimo di fronte all’avanzata numerica del mondo musulmano, che non conosce la denatalità propria delle società economicamente avanzate.
E c’è chi, come i padri sinodali, fa riferimento al laboratorio vivente dei luoghi in cui – spesso da quattordici secoli – cristiani e musulmani convivono, fra amicizia e intolleranza, convivenza pacifica e sfida dell’integralismo.
La molteplicità degli approcci alla questione mostra da sé come essa non sia né semplice, né scontata nei risultati.
Ciò che soprattutto differenzia le società islamiche dalla cultura europea è il forte senso dell’appartenenza, aspetto qualificante dell’Islam: la “umma” – comunità, nazione, etnia – è il grembo materno della vita di chi riconosce in Maometto il profeta del Dio unico (non a caso la radice del termine è la stessa della parola “umm”, madre).
Alla ritualità della “umma” il musulmano partecipa con naturalezza, dai momenti di preghiera quotidiana pubblica alla celebrazione del “ramadan”, il mese del digiuno diurno, al pellegrinaggio alla Mecca.
Il senso di massificazione” che alcuni di questi rituali danno a una sensibilità plasmata dalla cultura occidentale del soggetto, è del tutto estraneo alle culture dei paesi musulmani.
Al di là della facile critica dell’illuminista di turno, che vede in queste forme una semplice abdicazione alla libertà e all’originalità della coscienza individuale, c’è un fascino dell’appartenenza forte che non va banalizzato (si pensi solo ai fenomeni di massa così determinanti nella storia del nostro Novecento e alla geniale analisi ad essi dedicata da Elias Canetti in Massa e potere).
Proprio alla luce di questa complessità, l’approccio dei padri sinodali mi appare illuminante: in primo luogo, esso si rifà alle indicazioni del Concilio vaticano II, secondo cui «la Chiesa guarda con stima i musulmani che adorano l’unico Dio, vivente e sussistente, misericordioso e onnipotente, creatore del cielo e della terra, che ha parlato agli uomini.
Essi cercano anche di sottomettersi con tutto il cuore ai decreti nascosti di Dio, come si è sottomesso Abramo, al quale la fede islamica volentieri si riferisce…
Così pure essi hanno in stima la vita morale e rendono culto a Dio soprattutto con la preghiera, le elemosine e il digiuno» (dichiarazione Nostra Aetate, n.
3).
Diverse voci al Sinodo non hanno, tuttavia, nascosto le difficoltà reali che incontra la minoranza cristiana nei paesi islamici: costrizioni, limiti alla libertà di coscienza e di esercizio della propria fede in Cristo, atti di violenza e di intimidazione.
«A partire dagli anni Settanta, constatiamo l’avanzata dell’Islam politico, che comprende diverse correnti religiose.
Esso colpisce la situazione dei cristiani, soprattutto nel mondo arabo.
Vuole imporre un modello di vita islamico a tutti i cittadini, a volte con la violenza.
Costituisce  dunque una minaccia per tutti, e noi dobbiamo, insieme, affrontare queste correnti estremiste» (patriarca copto di Alessandria d’Egitto, Antonios Naguib, Relatio post disceptationem al Sinodo).
Innegabili sono le distanze fra alcune conquiste della civiltà europea e l’esistenza quotidiana nelle società a maggioranza islamica: esse riguardano l’identità dell’uomo, la condizione femminile, la giustizia, i valori della vita sociale dignitosa e la reciprocità, concetto tanto centrale, quanto complesso nelle applicazioni.
Di fronte a queste sfide la linea d’azione proposta al Sinodo è anzitutto quella del dialogo della vita, «che offre l’esempio di una testimonianza silenziosa eloquente e che è talvolta l’unico mezzo per proclamare il Regno di Dio…
Nel dialogo sono importanti l’incontro, l’accoglienza della differenza altrui, la gratuità, la fiducia, la comprensione reciproca, la riconciliazione, la pace e l’amore…
Il dialogo è la strada della non violenza.
L’amore è più necessario ed efficace delle discussioni.
Non bisogna discutere con i musulmani, ma amarli, sperando di suscitare nel loro cuore la reciprocità.
Prima di scontrarci su ciò che ci separa troviamoci su ciò che ci unisce soprattutto per quanto riguarda la dignità umana e la costruzione di un mondo migliore» (ib.).
Trasponendo queste indicazioni nel contesto della cultura occidentale, e in particolare europea, non si può far a meno di osservare come esse siano in sintonia con le sue grandi radici: da una parte i valori della democrazia, con l’attenzione fondante ad ascoltare le ragioni dell’altro, come mostra il ruolo del teatro e della tragedia nell’antica Atene, dall’altra le conquiste rappresentate dal diritto romano e dall’incommensurabil e patrimonio di civiltà connesso all’idea di persona e della sua dignità assoluta, maturata all’interno dell’eredità ebraico-cristiana.
Proprio questa sintonia fra scelta della via del dialogo e anima profonda della identità europea – nonostante tutte le smentite della storia – mostra come non sarà facile integrare l’idea islamica di appartenenza con la nostra civiltà.
E poiché l’apporto dato all’Europa  dalla radice ebraica è innegabile, inseparabile com’è dall’influenza del “grande Codice” che è la Bibbia, si comprende come sia proprio il Medio Oriente la cartina da tornasole del futuro destino dell’incontro.
Costruire lì una giusta pace attraverso la via del dialogo, della giustizia e della riconciliazione, specie nel conflitto israelo-palestinese, vuol dire porre le basi per una convivenza pacifica per tutti nell’epoca del villaggio globale.
Anche così il nostro domani si costruisce nella città «dove tutti siamo nati» (Salmo 87): Gerusalemme.
in “Il Sole 24 Ore” del 24 ottobre 2010

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