Il sinodo speciale per il Medio Oriente che è in corso da dieci giorni in Vaticano getta luce su una porzione di cristianità in drammatico movimento, in più direzioni e dal futuro incerto.
L’esodo dei cristiani da quelle terre è una parte importante di questo movimento.
Ma non è un fenomeno nuovo.
Nella prima metà del Novecento lo sterminio e la cacciata degli armeni, e poi dei greci, dalla Turchia furono di colossali proporzioni.
Oggi l’esodo continua da più luoghi e in varia misura.
Sta di fatto che a fronte dei dodici milioni di fedeli delle antiche Chiese d’Oriente che oggi vivono tra l’Egitto e l’Iran, circa sette milioni vivono ormai fuori.
Gli armeni sono da molti decenni più numerosi nella diaspora che nella terra d’origine.
I maroniti libanesi hanno diocesi di loro emigrati negli Stati Uniti, in Canada, Messico, Brasile, Argentina, Australia.
I siro ortodossi hanno una eparchia in Svezia.
Gli iracheni hanno creato una “Chaldean Town” nell’area metropolitana di Detroit.
I cristiani di Betlemme emigrano per la gran parte in Cile.
Contemporaneamente, però, è in atto nel Medio Oriente anche un movimento inverso.
Nella sola penisola arabica – stando a quanto hanno detto in sinodo i due vicari apostolici della regione, Paul Hinder e Camillo Ballin – i cattolici venuti da fuori in cerca di lavoro sono già tre milioni, per la maggior parte dalle Filippine e dall’India.
I paesi arabi del Golfo “hanno grande bisogno di manodopera”, ha spiegato il vescovo indiano di rito siro-malabarese Bosco Puthur, dalla cui regione sono partiti in 430 mila.
Ma l’avventura di questi emigranti è molto amara, se misurata sulle libertà religiose e civili.
L’arcivescovo di Addis Abeba, Berhaneyesus Demerew Souraphiel, ha detto che le migliaia di donne che partono ogni anno dall’Etiopia per il Medio Oriente, come lavoratrici domestiche, per ottenere i visti d’ingresso “cambiano i loro nomi cristiani in nomi musulmani e si vestono come musulmane, così indirettamente forzate a rinnegare le loro radici”, e in ogni caso vanno incontro a una vita di “sfruttamento e abusi”.
Nel descrivere la condizione in cui vivono i cristiani nei paesi musulmani del Medio Oriente i vescovi hanno usato parole comprensibilmente prudenti.
Con poche eccezioni.
Uno dei più crudi è stato il rappresentante in Giordania del patriarcato dei caldei iracheni.
Ha detto che c’è “una deliberata campagna per cacciare i cristiani.
Ci sono piani satanici dei gruppi fondamentalisti estremisti contro i cristiani non solo in Iraq ma in tutto il Medio Oriente”.
L’iraniano Thomas Meram, arcivescovo di Urmya del Caldei, non ha esitato a citare il salmo di Davide: “Per te ogni giorno veniamo massacrati”.
E ha proseguito: “Ogni giorno i cristiani si sentono dire, dagli altoparlanti, dalla televisione, dai giornali, che sono infedeli e per questo vengono trattati come cittadini di seconda categoria”.
Tutto l’opposto di quanto ha asserito in aula lo stesso giorno, giovedì 14 ottobre, l’ayatollah iraniano Seyed Mostafa Mohaghegh Ahmadabadi, ospite del sinodo, secondo il quale “in molti paesi islamici, soprattutto in Iran, i cristiani vivono fianco a fianco in pace con i loro fratelli musulmani.
Essi godono di tutti i diritti legali come ogni altro cittadino ed esercitano liberamente le proprie pratiche religiose”.
Ma il sinodo è più che una semplice ricognizione sullo stato di vita dei cristiani nel Medio Oriente.
Dal dibattito sono emersi giudizi critici sulla Chiesa cattolica in quei paesi e proposte di cambiamento.
CRISTIANI DIVISI Un primo giudizio critico riguarda la disunione della Chiesa cattolica nel Medio Oriente.
Le cinque grandi tradizioni a cui essa si richiama – alessandrina, antiochena, armena, caldea, bizantina – e gli ancor più numerosi riti in cui si articola producono spesso divisione, incomprensioni e chiusure, invece che arricchimento reciproco.
“Una Chiesa etnica e nazionalistica si oppone all’opera dello Spirito Santo”, ha ammonito l’arcivescovo iraniano di Teheran dei caldei, Ramzi Garmou.
E ne aveva i motivi.
Il vescovo egiziano di Assiut dei copti, Kyrillos William, si è scagliato in aula contro i confratelli di rito latino poiché, celebrando anch’essi in arabo le loro liturgie, “attirano i nostri fedeli e li distaccano dalla nostra Chiesa”.
Anche il vescovo dei greco-melchiti d’Australia, Issam John Darwich, ha lamentato la “crescente intolleranza fra le Chiese cattoliche orientali”.
E ha portato ad esempio “la triste situazione del Libano, dove ogni Chiesa sembra essere interessata a ottenere benefici politici per se stessa e più delle altre Chiese”.
In effetti il Libano è sì un paese nel quale i cristiani godono di libertà maggiori che in altri paesi del Medio Oriente, ma è anche quello così descritto in sinodo da un suo vescovo greco-melchita, Georges Nicolas Haddad: “La libertà di religione e di coscienza resta appannaggio delle 18 comunità storicamente riconosciute (12 cristiane, 4 musulmane, una drusa e una ebrea).
Chiunque non ne faccia parte è escluso da ogni diritto all’esercizio delle sue libertà.
Ogni tentativo caratterizzato da un proselitismo da parte dell’una o dell’altra comunità può provocare reazioni estreme e talvolta violente.
Ogni conversione è percepita come un colpo profondo inferto alla comunità d’origine del convertito e costituisce una rottura sociale”.
Muhammad Al-Sammak, consigliere del Gran Mufti del Libano e altra personalità musulmana invitata a parlare nel sinodo, non ha detto molto di diverso quando ha dichiarato – in aula – che “la presenza cristiana in Oriente è una necessità sia cristiana che islamica” e – fuori dall’aula, in una conferenza stampa – che “il credere è materia di coscienza ma quando il cambiare religione è anche cambiare ‘parte’ diventa un atto di tradimento dello stato e così deve essere trattato”.
Su questo sfondo, numerose voci si sono levate nel sinodo per raccomandare più unità tra le Chiese cattoliche della regione, e tra queste e le Chiese ortodosse e le confessioni protestanti.
In particolare, si è proposto di concordare al più presto una data comune per la celebrazione della Pasqua.
Alcuni hanno esortato al dialogo con i musulmani “illuminati”, disposti a una “lettura critica del Corano” e a una “interpretazione delle leggi musulmane nel loro contesto storico”.
PIÙ POTERI AI PATRIARCHI Una seconda serie di proposte ha riguardato la cura pastorale dei fedeli delle Chiese cattoliche del Medio Oriente emigrati all’estero, il ruolo dei patriarcati e il loro rapporto con la sede di Roma.
Di norma, i patriarchi e i vescovi hanno giurisdizione sui rispettivi territori, non sui fedeli emigrati in paesi lontani.
Ma in alcuni casi questi ultimi sono ormai più numerosi dei fedeli rimasti in patria.
E se lasciati senza cura, tendono ad abbandonare le tradizioni delle loro Chiese d’origine.
Parecchie voci, nel sinodo, hanno quindi chiesto di dare autorità ai patriarchi e ai vescovi sull’intero gregge dei loro fedeli, dovunque essi siano, in patria e all’estero.
Assieme a questa richiesta, alcuni hanno anche rivendicato la libertà di inviare dei sacerdoti sposati per la cura pastorale dei fedeli orientali in diaspora.
In Occidente, infatti, dove il clero è celibe, non è consentita la presenza con incarichi pastorali di sacerdoti orientali sposati.
Ma aumentando il numero degli emigrati ed essendo il basso clero delle Chiese orientali quasi tutto sposato, è sempre più difficile per i patriarchi e i vescovi orientali trovare dei sacerdoti celibi da inviare all’estero per la cura dei loro fedeli.
Da cui la richiesta di far cadere il divieto.
Quanto al ruolo dei patriarcati, è affiorata più volte nel sinodo la richiesta di “restituire” loro l’autorità che avevano nei primi secoli della Chiesa, in rapporto al papa.
In particolare dando loro più autonomia nel nominare i vescovi del luogo.
E anche associandoli “ipso facto” al collegio che elegge il sommo pontefice, “senza la necessità di ricevere il titolo latino di cardinali”.
Insomma, assegnando al papa “una nuova forma di esercizio del primato ispirata alle forme ecclesiali del primo millennio”, con il ruolo dei patriarchi rafforzato.
Tutto questo anche al fine di avvicinare le posizioni della Chiesa cattolica a quelle delle Chiese ortodosse d’Oriente.
IN MISSIONE TRA I MUSULMANI Un terzo blocco di proposte ha riguardato la “necessità di ricuperare l’aspetto missionario della Chiesa”.
Una proposta nuova e coraggiosa in paesi a dominante musulmana, da parte di Chiese che per ragioni storiche e per motivi di sopravvivenza si sono in larga misura chiuse su se stesse.
Il vescovo egiziano di Luqsor dei copti, Youhannes Zakaria, ha detto che nonostante le difficoltà e i pericoli “la nostra Chiesa non deve avere paura né vergogna, e non deve esitare a obbedire al mandato del Signore, che le chiede di continuare la predicazione del Vangelo”.
E l’arcivescovo iraniano di Teheran dei caldei, Ramzi Garmou, è andato ancora più al fondo di questa esigenza.
Dopo aver detto che “un nuovo soffio missionario” è vitale “per far cadere le barriere etniche e nazionaliste che rischiano di asfissiare e rendere sterili le Chiese d’Oriente”, ha richiamato “l’importanza fondamentale della vita monastica per il rinnovamento e il risveglio delle nostre Chiese”.
E così ha proseguito: “Questa forma di vita, nata in Oriente, è stata all’origine di un’espansione missionaria straordinaria e di una testimonianza ammirevole delle nostre Chiese nei primi secoli.
La storia ci insegna che i vescovi venivano scelti tra i monaci, vale a dire tra uomini di preghiera e di vita spirituale profonda, con una grande esperienza delle ‘cose di Dio’.
Oggi purtroppo la scelta dei vescovi non obbedisce agli stessi criteri e ne constatiamo i risultati, che non sempre sono positivi.
L’esperienza bimillenaria della Chiesa ci conferma che la preghiera è l’anima della missione; è grazie a essa che tutte le attività della Chiesa sono rese feconde e danno molti frutti.
D’altronde, tutti coloro che hanno partecipato alla riforma della Chiesa e le hanno restituito la sua bellezza innocente e la sua giovinezza eterna sono stati fondamentalmente uomini e donne di preghiera.
Non per nulla nostro Signore ci invita a pregare incessantemente.
Constatiamo con rammarico e amarezza che i monasteri di vita contemplativa, fonte di abbondanti grazie per il popolo di Dio, sono quasi scomparsi dalle nostre Chiese d’Oriente.
Che grande perdita! Che peccato!”.
È facile ravvisare in queste parole l’eco della tesi di papa Joseph Ratzinger secondo cui il segreto del buon governo della Chiesa – e della sua riforma – è il “pensiero illuminato dalla preghiera”.
ISRAELE “CORPO ESTRANEO”? In un sinodo dedicato al Medio Oriente c’era infine da aspettarsi un importante riferimento a Israele e agli ebrei.
Quasi nessuno, invece, ne ha parlato.
L’unico padre sinodale che vi ha dedicato l’intero intervento è stato, l’11 ottobre, il vicario patriarcale di Gerusalemme per i cattolici di lingua ebraica, il gesuita David Neuhaus, il quale ha auspicato più comunione, in Israele, tra i cattolici di lingua araba e quelli ebreofoni.
Questi ultimi, si sa, sono considerati da molti confratelli arabi un corpo estraneo.
E la Santa Sede non li aiuta, rinunciando a nominare un vescovo che si dedichi alla loro cura.
Il 13 ottobre ha preso la parola nel sinodo, in qualità di invitato, il rabbino David Rosen, consigliere del Gran Rabbinato di Israele.
Il suo è stato un intervento di ampio respiro, molto positivo e di grande apprezzamento dell’opera dell’attuale papa e del suo predecessore.
Ma dopo di lui nessuno, nel sinodo, ha dato seguito alle sue parole di dialogo tra ebrei e cristiani.
Rimanendo l’aula in quasi totale silenzio sul tema, ha così avuto maggior risonanza un documento fatto circolare fuori dell’aula sinodale: un documento intitolato “Kairòs – Un momento di verità” e sfrenatamente anti-israeliano nei contenuti.
In esso l’occupazione da parte di Israele dei territori è definita “un peccato contro Dio e l’umanità” e la stessa fondazione dello stato ebraico è fatta risalire a un senso di colpa dell’Occidente a motivo dell’Olocausto, per sanare il quale si sarebbe occupata la terra dei palestinesi.
Il documento termina con l’invito a boicottare Israele.
La genesi di “Kairòs” risale a diversi mesi fa.
Quando fu reso pubblico per la prima volta, l’11 dicembre 2009 a Betlemme, il documento recava le firme del patriarca emerito di Gerusalemme dei latini, Michel Sabbah, dell’arcivescovo greco-ortodosso Atallah Hanna (acerrimo rivale del patriarca greco-ortodosso di Gerusalemme Teofilo III), del vescovo luterano di Gerusalemme Munib Younan e di tredici altri esponenti arabo-cristiani.
Il suo più attivo propagatore era il luterano Younan.
Questi coinvolse con successo il Consiglio Ecumenico delle Chiese, che raggruppa 349 denominazioni cristiane di tutto il mondo, con sede a Ginevra.
E infatti, quando il 15 ottobre è stato letto nel sinodo un messaggio del segretario generale del CEC, Olav Fykse Tveit, il documento “Kairòs” vi era citato e raccomandato.
Ma Younan e gli altri autori del documento fecero pressione, nei giorni successivi alla sua pubblicazione, anche su tutti i leader delle Chiese cristiane a Gerusalemme, per ottenerne l’appoggio.
Quello che ottennero, il 15 dicembre 2009, fu una dichiarazione di poche righe, senza alcun riferimento esplicito a “Kairòs”, che iniziava con queste parole: “Noi, i patriarchi e capi delle Chiese cristiane di Gerusalemme, abbiamo ascoltato il grido di speranza che i nostri figli hanno lanciato in questi tempi difficili che stiamo vivendo in questa Terra Santa.
Noi li sosteniamo”.
Niente di più.
Ma da lì in poi il documento “Kairòs” è stato fatto sempre circolare con in testa questa dichiarazione, come se fosse il suo prologo, e con le firme di tutti i leader delle Chiese cristiane a Gerusalemme, compreso il patriarca latino Fouad Twal e il custode di Terra Santa, il francescano Pierbattista Pizzaballa, come se fossero loro i veri autori dell’intero documento Per chi conosce e ha letto gli scritti di padre Pizzaballa, una sua adesione alle tesi di “Kairòs” e al boicottaggio di Israele è semplicemente impensabile.
Eppure anche la Custodia di Terra Santa, da lui presieduta, ha contribuito assieme ad altre associazioni cattoliche, come Pax Christi, e al patriarca emerito di Gerusalemme Sabbah a dare pubblicità al documento, il 19 ottobre, in un salone di proprietà del Vaticano, a pochi passi dall’aula del sinodo.
Non solo.
Il 14 ottobre è intervenuto nel sinodo l’arcivescovo maronita Edmond Farhat, già nunzio apostolico e rappresentante ufficiale della politica vaticana.
E i giudizi da lui espressi fanno pensare che per la Santa Sede – che pure accetta l’obiettivo di due stati per ebrei e palestinesi – continua a valere il presupposto che la causa ultima di tutti i mali del Medio Oriente sia proprio quel “corpo estraneo” che è Israele.
Ha detto il nunzio Farhat: “La situazione del Medio Oriente oggi è come un organo vivente che ha subito un trapianto che non riesce ad assimilare e che non ha avuto specialisti che lo curassero.
Come ultima risorsa l’Oriente arabo musulmano ha guardato alla Chiesa credendo, come dentro di sé pensa, che sia capace di ottenergli giustizia.
Non è stato così.
È deluso, ha paura.
La sua fiducia si è trasformata in frustrazione.
È caduto in una crisi profonda.
Il corpo estraneo, non assimilato, lo corrode e gli impedisce di occuparsi del suo stato generale e del suo sviluppo.
Il Medio Oriente musulmano nella sua schiacciante maggioranza è in crisi.
Non può farsi giustizia.
Non trova alleati né sul piano umano né sul piano politico, meno ancora sul piano scientifico.
È frustrato.
Si rivolta.
La sua frustrazione ha avuto come effetto le rivoluzioni, il radicalismo, le guerre, il terrore e l’appello (da’wat) al ritorno agli insegnamenti radicali (salafiyyah).
Volendo farsi giustizia da solo il radicalismo ricorre alla violenza.
Crede di fare più scalpore se si attacca ai corpi costituiti.
E il più accessibile e il più fragile è la Chiesa”.
Se un proposito delle autorità vaticane era di “moderare” l’intransigente avversione a Israele delle Chiese arabe del Medio Oriente, le parole del nunzio Farhat hanno fatto l’opposto.
__________ I documenti del sinodo nel sito del Vaticano: > Assemblea speciale per il Medio Oriente, 10-24 ottobre 2010
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