Evagrio Pontico, Sentenze.
gli otto spiriti della malvagità, Città Nuova, Pagine 110.
Euro 10,00 Evagrio Pontico, monaco del IV secolo, è una figura tra le più luminose in quel mosaico scintillante di fede e di vita cristiana che sono i padri del deserto.
E possiede anche una particolarità quasi unica.
Se infatti conosciamo gli altri padri quasi esclusivamente per i «detti» loro attribuiti o – come nel caso della famosissima Vita di Antonio scritta da Atanasio di Alessandria – attraverso opere di autori successivi, Evagrio ci è noto soprattutto per gli abbondanti scritti che lui stesso ci ha lasciato e che fin da subito hanno conosciuto un’enorme diffusione e influenza sia nell’area mediorientale che nel mondo latino.
Ora la benemerita collana divulgativa di «Testi patristici» edita da Città Nuova ci propone una raccolta di brevi scritti evagriani, curata da Lucio Coco: nell’agile volume, sono accostati una serie di «sentenze» e il trattato su «gli otto spiriti della malvagità», uno dei primissimi testi ad aver analizzato finemente quelli che in occidente diventeranno noti come i vizi capitali.
Se le sentenze – redatte nel genere letterario dei «proverbi» biblici – sono dirette innanzitutto ai monaci e alle vergini, le riflessioni sugli spiriti malvagi rivelano la grande universalità degli interrogativi e delle tentazioni che affliggono non solo chi conduce vita monastica, ma ogni uomo e ogni donna, di ogni epoca, cultura e latitudine.
Per il lettore che monaco non è, può essere allora molto utile tornare alle «sentenze» più specificatamente monastiche dopo aver analizzato sotto la guida di Evagrio il proprio rapporto con quelle pulsioni che abitano il corpo e la mente e che vanno sotto i nomi divenuti classici di gola, lussuria, avarizia, ira, tristezza, accidia, vanagloria e superbia.
Chi può in verità dire di non averle sperimentate come forze che condizionano il proprio agire e il proprio pensare? Chi non riconosce come assillanti compagni di cammino questi pensieri viziati da un malvagio ripiegamento su di sé? Davvero sono tentazioni universali, proprio perché nascono dall’unica fondamentale paura che domina e aliena ogni essere umano: la paura della morte.
Paura che è alla radice di tutte le altre, nonostante nel contesto culturale attuale, specie in occidente, si faccia di tutto per rimuovere la realtà della morte, con il risultato che è proprio lei ad abitare le nostre vite come un’angoscia di cui non sappiamo decifrare il volto.
Mossi dalla paura della morte, vogliamo preservare con qualsiasi mezzo la nostra vita, vogliamo possedere per noi stessi i beni della terra, vogliamo dominare sugli altri.
Pensiamo di assicurarci in tal modo una vita abbondante, illudendoci di poter combattere la morte con l’autoaffermazione, e giungiamo a considerare ragionevole e giusto ogni comportamento finalizzato a questo scopo, anche a costo di nuocere agli altri e persino a noi stessi.
E così finiamo inevitabilmente per imboccare sentieri di morte… Di fronte a questa possibile deriva dell’animo umano, chi vive nel silenzio del deserto non conosce esenzioni, non è preservato, non può vantare privilegi o certezze.
Solamente può avere a disposizione il tempo e lo spazio per discernere i moti dello spirito e sforzarsi – giorno dopo giorno, nella concretezza di un quotidiano che non rimuove ma affronta la paura della morte – di crescere nell’amore, «più forte della morte».
Altrimenti, il suo splendido isolamento non solo è inutile ma diviene dannoso perché, come osserva Evagrio, è «meglio stare in mezzo a mille uomini che da solo con odio in segrete spelonche».
in “Avvenire” del 23 ottobre 2010
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