In una intervista televisiva trasmessa nel giorno di apertura della 46ª Settimana Sociale dei cattolici italiani, tenutasi a Reggio Calabria dal 14 al 17 ottobre, il cardinal Bagnasco alla domanda su cosa facesse la chiesa per questo paese, ha risposto che la chiesa mette a disposizione la ricchezza di virtù, cioè di solidarietà generosità e moralità, coltivate nella fittissima rete delle parrocchie.
Un modo per dire che se in questo paese sopravvivono nuclei ancora apprezzabili di coesione sociale è anche per merito della chiesa.
Una verità semplice su cui dovrebbero riflettere quanti vogliono bene all’Italia, credenti o non credenti che siano.
Dopo il convegno di Reggio Calabria credo si possa aggiungere che nella periferia della chiesa italiana si stanno coltivando oggi talenti personali preziosi che rappresentano una speranza concreta per il futuro.
È veramente incomprensibile il silenzio informativo che ha avvolto e accompagnato l’evento calabrese.
Se fossero stati presenti anche solo la metà dei giornalisti che normalmente seguono i convegni di partiti o anche solo di corrente, avrebbero potuto registrare ciò che là si coglieva ad occhio nudo: la presenza cioè di un laicato maturo, conoscitore dei problemi politici e sociali del paese, competente nelle soluzioni proposte, vivace, lieto di prendersi la parola dopo anni di assopimento.
Il convegno ha registrato infatti un salto quando si è passati dalle relazioni introduttive degli studiosi, peraltro non banali, al lavoro nei cinque gruppi in cui si sono organizzati gli oltre 1000 delegati per discutere le tematiche indicate nel documento preparatorio: Intraprendere; Educare; Includere le nuove presenze; Slegare la mobilità sociale e Completare la transizione istituzionale.
Non si cerchino nei documenti finali soluzioni strabilianti, perché si troveranno solo indicazioni di buon senso, talmente di buon senso da sembrare talora rivoluzionarie.
Ma ciò che colpiva era la partecipazione corale di un popolo, per molti aspetti sconosciuto, che sembrava essersi preparato – senza volersi spingere a paragoni storici arditi – nella stagione della decadenza del paese, al riparo dalla decadenza medesima.
Un popolo di gente, soprattutto giovani, con il senso della propria responsabilità e la fiducia nelle proprie idee.
Anche nelle analisi più severe non c’era pessimismo, ma volontà di cambiare.
Di fronte a tale spettacolo non si poteva che dedurre che, anche negli anni in cui la gerarchia non ha mostrato grande fiducia nei suoi laici, “il Vangelo ha lavorato”.
C’è da augurarsi che tale potenzialità ora non venga arginata e contenuta, perché, dopotutto, è una risorsa di cui il paese sente veramente il bisogno.
Partendo dalla constatazione delle cause di sofferenza della nostra democrazia “senza qualità”, svuotata e inquinata da talune oligarchie prive di senso dello stato e del bene comune, riassumibili nella disinvoltura con cui si cambia oggi il senso e il valore della Carta costituzionale e, in particolare, si fanno riforme costituzionali non più per perseguire efficacemente obiettivi di bene comune, ma per cambiare equilibri e convenienze politiche, è stata indicata con chiarezza come prima esigenza quella di educare, e ri-educare, giovani e adulti al valore della legalità.
Perché la legalità sia piena non basta infatti evocare il rispetto delle leggi – è stato detto – ma occorre che la legge sia veramente finalizzata al bene comune, non foss’altro perché spesso accade che chi vanta il presunto rispetto della legge è lo stesso che prima fa le leggi a proprio uso.
Il segno della perdita di paradigmi fondamentali è purtroppo rappresentato da un nuovo senso comune che sta prendendo sempre più piede, anche tra i credenti, così sintetizzabile: «Di lui ci si può fidare, perché è stato così bravo a fare i suoi affari…», i suoi affari appunto, non quelli della comunità, anziché dire come si faceva dei grandi statisti (De Gasperi, Moro, La Malfa, Berlinguer, ed altri ancora) «di lui ci si può fidare, perché è stato così bravo a perseguire il bene comune anziché il suo proprio personale».
In tale spirito si sono affrontate le questioni centrali del dibattito politico di oggi, quali quelle della integrazione dei cittadini immigrati coniugando accoglienza e legalità, e lavorando sui cambiamenti che la mobilità ha già prodotto nel mondo del lavoro, nella famiglia, nella scuola, nella città e nella comunità cristiana; o quelle della messa in discussione della logica del capitalismo alla luce delle indicazioni precise e coraggiose della “Caritas in Veritate”, senza il timore di interloquire anche polemicamente con la relazione del prof.
Gotti-Tedeschi giudicata troppo acritica verso il mercato e la responsabilità delle banche; o quelle delle riforme istituzionali a partire dal federalismo sino a dare suggerimenti concreti per garantire la democrazia nei partiti e la riforma della legge elettorale unanimemente giudicata non degna di un paese civile.
Il tutto è stato detto con chiarezza di pensiero, sobrietà e precisioni di linguaggio, senza livore o pregiudizio politico.
In questo senso è stata una esperienza singolarmente interessante per i non molti parlamentari presenti (mancavano incomprensibilmente quelli di Pdl e Lega) che hanno vissuto la possibilità di discutere problemi complessi in uno spirito di sincerità e serenità non consueto nelle sedi politiche.
Insomma è stato un esercizio importante per tutti per capire che è possibile vivere “le cose ultime” in modo adeguato soprattutto quando si impara a vivere responsabilmente “le cose penultime”.
Il luogo in cui si studiano e si lavorano le cose penultime, è proprio la politica, ed è questo luogo che i cattolici italiani riuniti a Reggio Calabria hanno pensato di trasformare in laboratorio, in una fabbrica di speranza e di cambiamento.
L’assemblea ha raggiunto poi un momento alto di passione umana, ideale e politica, quando il prof.
Giuseppe Savagnone ha illustrato il documento della Cei sul Mezzogiorno, forse il più alto contributo, dai tempi di Vanoni e Saraceno, che sia stato scritto sull’annosa questione che affligge il nostro paese.
La standing ovation, durata diversi minuti, con cui è stato salutato il professore palermitano ha rappresentato plasticamente una esplosione di vitalità, quasi un moto liberatorio di sentimenti repressi o quanto meno a lungo contenuti, e parole che nessuno, nemmeno la chiesa può sequestrare.
È giusto perciò il titolo dell’editoriale del direttore di Avvenire di due giorni fa: «C’è un’Italia esigente.
Stateci attenti ».
Non so bene a chi fosse rivolto l’ammonimento, se solo alla politica o anche ad altri.
Resta il dato della rivelazione di una novità importante, quella di una chiesa italiana non intimidita, anzi consapevole della propria irrinunciabile responsabilità verso la società italiana.
La chiesa che, come ha detto Benedetto XVI nel suo messaggio alla Settimana Sociale, «ha opportunamente assunto la sfida educativa come prioritaria nel presente decennio, (volendo) spendersi nella formazione di coscienze cristiane mature, cioè aliene dall’egoismo, dalla cupidigia dei beni e dalla bramosia di carriera e, invece, coerenti con la fede professata, conoscitrici delle dinamiche culturali e sociali di questo tempo e capaci di assumere responsabilità pubbliche con competenza professionale e spirito di servizio».
Stateci attenti! Stiamoci attenti in “Europa” del 21 ottobre 2010
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