La vita religiosa si trova oggi sottoposta a notevoli pressioni.
In particolare, due tipi di condizionamento mi sembra meritino attenzione.
Il primo riguarda la secolarizzazione.
Un fenomeno storico nato in Francia a metà del XVIii secolo, che ha finito per investire tutte le società che volevano entrare nella modernità.
Anche l’apertura al mondo, giustamente proclamata dal concilio Vaticano ii, è stata interpretata, sotto la pressione delle ideologie del momento, come un passaggio necessario alla secolarizzazione.
E di fatto, negli ultimi cinquant’anni, abbiamo assistito a una formidabile iniziativa di auto-secolarizzazione all’interno della Chiesa.
Gli esempi non mancano: i cristiani sono pronti a impegnarsi al servizio della pace, della giustizia e delle cause umanitarie, ma credono ancora alla vita eterna? Le nostre Chiese hanno messo in atto un immenso sforzo per rinnovare la catechesi, ma questa stessa catechesi parla ancora dell’escatologia, della vita dopo la morte? Le nostre Chiese si sono impegnate nella maggior parte dei dibattiti etici del momento, ma discutono del peccato, della grazia e delle virtù teologali? Le nostre Chiese hanno fatto ricorso al meglio del proprio ingegno per migliorare la partecipazione dei fedeli alla liturgia, ma quest’ultima non ha perduto, in gran parte, il senso del sacro, vale a dire quel retrogusto di eternità? La nostra generazione, forse senza rendersene conto, non ha forse sognato una “Chiesa dei puri”, mettendo in guardia contro ogni manifestazione di devozione popolare? Che fine ha fatto, in tale contesto, quella vita religiosa che era stata presentata, in maniera tradizionale, come un segno escatologico e un’anticipazione del Regno a venire? Di fatto, religiosi e religiose hanno presto abbandonato l’abito della propria famiglia per vestirsi come tutti gli altri.
Spesso hanno abbandonato i propri conventi, giudicati troppo vistosi o troppo ricchi, a beneficio di piccole comunità sparse nei villaggi o nei grandi agglomerati urbani.
Hanno scelto mestieri profani, si sono impegnati in attività sociali e caritative, oppure si sono messi al servizio di cause umanitarie.
Si sono fatti simili agli altri e si sono fusi nella massa, talvolta per formare il lievito della pasta, ma anche, in molti casi, perché tale atteggiamento rispondeva al clima dei tempi.
Non dovremmo sottovalutare i meriti di tale impostazione né i benefici che ne ricava la Chiesa ancora oggi.
Quei religiosi e quelle religiose, infatti, si sono fatti più vicini alle persone e, in particolare, ai più svantaggiati, mostrando un volto della Chiesa più umile e più fraterno.
Ciononostante, questa forma di vita religiosa non sembra avere più un futuro, non attira quasi più vocazioni.
La quasi totalità delle congregazioni attive, nate nel xix secolo o all’inizio del xx, si trovano quindi colpite a morte, e la loro scomparsa è solo una questione di tempo.
Le case generalizie e i grandi conventi si sono già trasformati in case di riposo per anziani.
Fra il 1973 e il 1985, 268 congregazioni francesi delle 369 esistenti hanno chiuso il proprio noviziato.
La situazione, da allora, non ha fatto che peggiorare.
L’auto-secolarizzazione ha minato alle fondamenta la vita religiosa.
La crisi ha colpito soprattutto le forme di vita attiva, meno quelle contemplative, perché la secolarizzazione aveva orientato tutto ciò che è religioso verso la militanza o l’impegno sociale.
Il fatto è che il militante o la persona impegnata nel sociale, oggi, ci tengono a rimanere laici.
Eccoci alla seconda tipologia di pressione esercitata sulla vita religiosa.
Per affrontare la sfida della secolarizzazione, il Concilio ha avuto la geniale intuizione di affidare questa missione ai laici.
Coloro che avevano l’avventura di essere gli attori principali della società secolare non erano forse i più appropriati per realizzare tale compito? Il Vaticano ii ha valorizzato – non dico che ha rivalorizzato, poiché una simile impresa non ha mai avuto luogo nel passato – la vocazione dei laici.
Tuttavia, proprio la valorizzazione del laicato ha provocato una sorta di schiacciamento della vita religiosa “attiva”.
Se quest’ultima, infatti, ha riconosciuto a lungo la propria identificazione con un servizio specifico offerto alla Chiesa e alla società – come l’insegnamento nelle scuole o la cura dei malati negli ospedali – dal momento in cui i laici venivano chiamati a fornire gli stessi servizi e a dedicarsi ad attività simili, la vita religiosa attiva perdeva la sua ragion d’essere.
Oggi non è più necessario passare per una consacrazione per fornire gli stessi servizi.
Quando ci troviamo in presenza di una maestra che insegna con passione o di un’infermiera servizievole, desiderose di condurre una vita autenticamente cristiana, potremmo domandarci se la stessa donna, cento o centocinquanta anni fa, non si sarebbe presentata alla porta di una di quelle neonate congregazioni che abbiamo evocato poco fa.
Questo ci porta alla seguente conclusione: oggi più che mai, la vita religiosa non può essere definita partendo da un “fare”, bensì da un modo di essere e da uno stile di vita.
I due rischi che abbiamo appena descritto in forma sintetica e – non ho difficoltà ad annetterlo – senza troppe sfumature, dell’auto-secolarizzazione e della valorizzazione del laicato, costituiscono un pericolo per la vita religiosa.
La loro combinazione ha provocato in quest’ultima una sorta d’implosione.
Quindi, la situazione attuale della vita religiosa, soprattutto nelle Chiese occidentali, si presenta in modo paradossale.
Da una parte, dopo il Concilio, godiamo dei vantaggi di un importante rinnovamento della teologia della vita religiosa.
Dall’altra, abbiamo assistito al crollo di numerose congregazioni, così come a una fioritura di nuove forme di vita religiosa nella prima metà degli anni Settanta.
Questo carattere paradossale c’invita dunque a tornare all’essenziale.
A cominciare dal fatto che la vita religiosa è unica nella sua essenza e plurale nelle sue forme.
In altri termini, queste molteplici forme nascono tutte da un tronco comune, quello della vita e della tradizione monastica.
Di conseguenza, la prima dimensione è mistica: la vita religiosa c’immerge nel mistero della morte e della risurrezione di Cristo.
È dunque sbagliato definire un istituto a partire della sua attività.
Anche se è stato in questo modo che sono state concepite le congregazioni nate nei due secoli scorsi.
Questa chiamata a stare con il Signore viene trasmessa a una singola persona – ogni vocazione è molto personalizzata e non esistono due percorsi che siano veramente simili – invitandola però a unirsi a una comunità specifica.
Alcuni sperimentano una sorta di colpo di fulmine nei confronti di una comunità e non gli viene neanche in mente d’andare a bussare a un’altra porta.
Altri, invece, si concedono un lungo tempo di riflessione, durante il quale fanno il giro di molte case e si dedicano a studi comparativi molto accurati.
In ogni epoca ci sono stati matrimoni d’amore e matrimoni di ragione.
Quel che è certo, però, è che l’attrazione è sempre legata alla vita comunitaria.
Infatti, il codice di diritto canonico definisce quella religiosa come una vita essenzialmente comunitaria.
E questa vita comunitaria è eminentemente spirituale nella misura in cui è lo Spirito Santo che la anima e la porta avanti.
Possiamo quindi dedurne che la fede data dallo Spirito rappresenta la chiave di lettura di tutti gli elementi che costituiscono la vita religiosa, a cominciare dai voti e dalla preghiera.
In questo senso, la povertà religiosa non è un concetto sociologico.
Non è fatta per dare l’esempio della povertà.
La parola stessa non ha fatto la sua comparsa se non in epoca tarda; prima, si parlava di sine proprio, oppure di communio, termini molto più suggestivi.
Il voto religioso corrisponde dunque a un atto di fede per mezzo del quale il religioso accetta quel dono dello Spirito che lo impegna a non tenere nulla per sé, al fine di vivere nel modo più intenso possibile la sua comunione con la vita fraterna.
Allo stesso modo, l’obbedienza religiosa non è in primis di natura ascetica o pedagogica.
Indubbiamente, presuppone un’ascesi nella misura in cui implica una certa rinuncia alla propria volontà.
Presenta, inoltre, una dimensione pedagogica, nella misura in cui mira a educare in noi la libertà dei figli di Dio.
La sua natura, però, è essenzialmente mistica: ci fa entrare in un sistema in cui comanda lo Spirito.
La fede ci porta ad affermare che il comandamento dato non viene innanzitutto dalla volontà del superiore – anche se porta il marchio della sua psicologia, forse anche della sua patologia – ma dallo Spirito, del quale il superiore è, in un certo senso, il rappresentate visibile.
A quel punto, smettiamo di comportarci come singole entità, per diventare un corpo fraterno.
Anche tra l’amore umano e la castità religiosa – che pur possiedono diversi punti in comune – esiste una differenza essenziale.
L’amore umano comporta una scelta e una conquista, si presenta come un amore d’esclusione: scegliere una donna specifica comporta rinunciare a tutte le altre.
Ora, contrariamente alle apparenze, che ci portano a sostenere che abbiamo scelto noi di diventare carmelitani o domenicani, la vita religiosa non si sceglie: ci troviamo coinvolti in questa vita sotto l’impulso dello Spirito.
Per ognuno di noi, sarebbe impossibile rimanere fedeli alle promesse del nostro battesimo al di fuori della vita religiosa.
In quest’ultima, non esiste alcuna conquista né alcuna esclusione: lo Spirito ci rende partecipi di una comunità d’accoglienza in cui tutti debbono imparare a vivere come fratelli.
Infine, è nella fede data dallo Spirito che viviamo la preghiera, non come un’attività come le altre, ovvero solo un’attività in più, né come una minaccia per le diverse attività implicate dallo stile di vita – tutti noi conosciamo bene quella tensione fra il nostro lavoro e il tempo dedicato alla preghiera, che equivale troppo spesso a un tempo residuo.
Nel simbolismo monastico il chiostro, ovvero l’apertura allo Spirito, rappresenta il legame fra la chiesa, luogo di preghiera (Opus Dei) e i diversi luoghi di lavoro (opus hominis) ma come una scuola in cui impariamo a diventare un “mendicante del Signore”.
(©L’Osservatore Romano – 20 ottobre 2010)
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