Armand Puig i Tàrrech, «I vangeli apocrifi.
I», a cura di Claudio Gianotto, San Paolo, Cinisello Balsamo, pagg.
412, C 32,00.
Da Agra, l’indimenticabile capitale moghul, la città che è nel ricordo di tutti i turisti per il suo prodigioso Taj Mahal («una lacrima di marmo ferma sulla guancia del tempo», come lo definiva Tagore), si scende versod sud-ovest per una quarantina di chilometri ed ecco pararsi innanzi la città fantasma di Fatehpur Sikri, edificata in pochi anni nel ‘500 dall’imperatore Akbar come una sorta di utopico crocevia interreligioso, a partire dalla base islamica.
La sua din-i-llahi, la “religione di Dio”, era un arcobaleno sincretistico di fedi diverse.
È anche per questo che sulla moschea della città era stata apposta questa iscrizione: «Gesù – che la pace sia con lui – disse: Il mondo è un ponte.
Attraversalo, ma non fermarti qui».
Siamo partiti così da lontano per parlare di una realtà letteraria e religiosa che ha sempre affascinato, quella degli “apocrifi” cristiani, cioè di quegli scritti – talora simili solo a briciole – che raccoglievano detti o vicende di Gesù (e poi dei suoi apostoli) ignoti ai quattro Vangeli canonici.
Il termine di matrice greca “apocrifo”, ossia “nascosto, celato, segreto”, in realtà aggiungeva un’ulteriore connotazione di esoterismo quasi misterico che a volte veniva favorita dagli stessi autori di tali opere.
Ad esempio, l’importante Vangelo di Tommaso, che offre un campionario molto suggestivo di114 lóghia o ‘detti” di Cristo, inizia così: «Queste sono le parole segrete che Gesù, il Vivente, ha detto.
Didimo Giuda Tommaso le ha scritte e ha detto: Colui che troverà l’interpretazione di queste parole non gusterà la morte».
Tale accezione iniziatica del termine “apocrifo” si trasformerà negativamente in quella di ‘falso”, certo, per la contrapposizione a ciò che era “canonico”, cioè la Scrittura ufficialmente accolta dalla Chiesa, ma anche per la tutt’altro che rara tentazione, rivelata da questi scritti, di aggiungere ai dati, talora storicamente autentici, la spezie della fantasia (i cosiddetti “Vangeli dell’infanzia di Gesù” ne sono la prova irrefutabile) o l’avallo delle proprie teorie teologiche.
Che siano, comunque, preziosi per ricostruire il fondale storico-culturale-spirituale della cristianità delle origini è fuori di dubbio, come lo sono anche per poter spiegare e giustificare tradizioni sopravvissute sino ai nostri giorni e per decifrare molti soggetti dell’iconografia cristiana.
Tanto per fare un esempio, se una nostra lettrice di nome Anna volesse identificare il passo esatto dove entra in scena la sua celebre omonima madre di Maria, vanamente sfoglierebbe i quattro Vangeli della sua Bibbia.
È, infatti, il Protovangelo di Giacomo, composto tra il 150 e il 200, a custodire queste e molte altre memorie sulla vita di Maria, la madre di Gesù.
Ma ritorniamo all’iscrizione indiana da cui siamo partiti.
Se prendete tra le mani il primo volume finora apparso de I vangeli apocrifi, curato dall’esegeta catalano Armand Puig i Tàrrech, troverete questa frase come la ventiseiesima di una serie classificata sotto il termine greco di ágrapha, cioè di “(parole) non scritte”, assegnate a Gesù ma ignote ai Vangeli canonici.
Il primo di questa sequenza di detti è nientemeno che nel Nuovo Testamento ed è in bocca a san Paolo: negli Atti degli Apostoli (20,35) si legge infatti che l’Apostolo invitava i capi della chiesa di Efeso a «ricordare la parola del Signore Gesù che disse: C’è più felicità a dare che a ricevere».
È, questo, un settore piuttosto significativo del pianeta letterario-teologico degli apocrifi e.
per ragioni di completezza, nel libro vengono registrati anche quegli ágrapha che sono incastonati come pagliuzze cristiane nel tessuto delle tradizioni musulmane (lo scorso anno, a cura di Sabino Chialà, la Fondazione Valla ha dedicato, nella sua collana edita da Mondadori, un testo specifico sui Detti islamici di Gesù).
È noto, infatti, non solo il rilievo del “profeta” Gesù nel Corano, ma anche i molteplici contatti che l’islam ebbe col cristianesimo, non di rado eterodosso, fin dal suo primo germogliare con Maometto.
L’epigrafe di Fatehpur Sikri potrebbe offrire un detto generato da altri detti evangelici di Gesù, come quelli sul vero tesoro, che non è nella passeggera ricchezza terrena, e sul non affannarsi nell’accumulo di beni transitori (si vedano Matteo 6,19-34 e Luca 12,16-31).
Curiosamente anche nel citato Vangelo di Tommaso abbiamo questa frase di Gesù: «Siate gente di passaggio».
Ci siamo soffermati su questo genere particolare di apocrifi, ma l’orizzonte è ben più vasto e comprende vere e proprie narrazioni “evangeliche” elaborate in almeno tre secoli e dalle iridescenze variegate e molteplici.
Dopo tutto, già lo stesso Luca nel prologo al suo Vangelo ricordava che «molti hanno cercato di raccontare con ordine gli avvenimenti che si sono compiuti in mezzo a noi, come ce li hanno tramandati i testimoni oculari» (1,1-2).
E, sia pure con evidente enfasi retorica, la seconda fmale del Vangelo di Giovanni ammoniva che «vi sono ancora molte altre cose compiute da Gesù che, se fossero scritte una per una, penso che il mondo stesso non basterebbe a contenere i libri che si dovrebbero scrivere» (21,25).
La raccolta di Puig i Tàrrech dispiega una mensa ricca, comprendente i Vangeli di matrice giudeo-cristiana, quelli pittoreschi dell’infanzia di Gesù (a cui sopra accennavamo), i racconti della sua passione, morte e risurrezione (da considerare in particolare il Vangelo di Pietro, scoperto nell’inverno 1886-87 all’interno di una tomba di un monaco cristiano nell’Alto Egitto) e, infine, il testo del Transito di Maria, vale a dire il racconto della sua morte e assunzione, uno dei più rilevanti apocrifi che trattano questo tema.
Sarà come compiere un viaggio in un mondo di meraviglie narrative e spirituali ove verità e fantasia s’incrociano e ove non manca forse neanche qualche “patacca” (o sospetta tale).
È il caso di quel misterioso Vangelo segreto di Marco che lo studioso americano Morton Smith affermò di aver scoperto nel 1958 nel monastero di Mar Saba nel deserto di Giudea, citato nella copia di una lettera sconosciuta di Clemente Ale ssandrino.
Delle tre pagine di quella lettera egli fece una fotografia, ma l’originale non fu mai ritrovato e lo stesso Smith si decise a rendere pubblica la sua “scoperta” e la relativa e ormai sbiadita testimonianza solo nel 1973…
Gianfranco Ravasi in “Il Sole 24 Ore” del 17 ottobre 2010
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