Una sconfinata giovinezza

Dopo venticinque anni di matrimonio Lino e Francesca (Fabrizio Bentivoglio e Francesca Neri) sono ancora una coppia molto unita.
Superata l’amarezza per non aver avuto figli e ormai raggiunta la mezza età, hanno trovato una serenità profonda, corroborata anche da un discreto successo professionale, come giornalista sportivo lui, come docente universitaria lei.
Il loro solido equilibrio viene messo alla prova quando Lino comincia a manifestare disturbi della memoria.
Dapprima arginata soprattutto grazie all’amore di Francesca, la malattia è destinata a diventare sempre meno gestibile, tanto da impedire presto a Lino di proseguire il suo lavoro, e portarlo a maltrattare la compagna di tutta una vita.
 In questo progressivo allontanamento dalla quotidianità, si fanno però strada i ricordi dell’infanzia trascorsa nella campagna emiliana, rivissuta con straordinaria fedeltà percettiva.
Per Lino sarà l’inizio di un percorso a ritroso solitario ma anche misteriosamente salvifico.
È senz’altro ingiusto che il film di Pupi Avati, Una sconfinata giovinezza, sia stato maltrattato ancor prima di uscire nelle sale, con l’esclusione dal concorso del Festival di Venezia.
Ma in fondo è anche comprensibile.
Perché al di là della qualità strettamente artistica, si tratta di un’opera destabilizzante.
A sorprendere è in particolare la capacità di questo regista e sceneggiatore dalla carriera ormai lunga e consolidata di immergersi completamente nel dolore dei suoi personaggi.
Investendo energie emotive che altrove aveva paventato salvo poi tenerle sapientemente a bada, magari rintanandosi in quei personaggi di sveviana memoria di cui è ottimo depositario, ma a cui ultimamente aveva fatto sin troppo affidamento.
Qui, al contrario, la materia emotiva è quasi incandescente, tanto che il rischio poteva essere casomai quello opposto, ossia di finire al di là del crinale scosceso del melodramma.
Rischio scampato grazie alla scelta coraggiosa di evitare il teorema dei sentimenti, e di riservare momenti di gioia dove ci si aspetterebbe solo angoscia, e viceversa.
Succede allora che una malattia che colpisce la memoria diventi la macroscopica madeleine con cui schiudere tutto uno scrigno di ricordi infantili, e che quella stessa infanzia, di contro, non si riveli un quadretto idilliaco, ma alterni accenti di dionisiaca vivacità a riflessi amari e persino inquietanti.
“Per quanto possa essere stata vissuta nelle condizioni più penalizzanti – ci ha spiegato lo stesso Avati – il ricordo dell’infanzia ha sempre degli accenti di suggestione e di rassicurazione che ti richiamano a un rientro a casa.
È un sentimento comune a tutte le persone che hanno raggiunto la mia età.
Io ho cominciato ad avvertire questa grandissima nostalgia nei riguardi della mia infanzia perché è il chiudersi di una circolarità della vita attraverso un  ritrovarsi.
E io penso che le persone  che  vedranno e che hanno già visto  il  film, consapevolmente o meno riconoscano nel profondo questo tipo di tensione, che è dentro ognuno di noi”.
Il senso di emotività quasi debordante sorprende ancor di più se messo in rapporto al precedente e ancora recentissimo film del regista, il sottovalutato Il figlio più piccolo, in cui al contrario il suo sguardo si era fatto tanto lucido quanto distante dalle proprie creature, viste come in un vetrino dal placido piedistallo dell’entomologo.
Col senno di poi, si potrebbe dire che Avati avesse bisogno di prendere il fiato prima di tuffarsi in questo tour de force di sentimenti.
 “In Il figlio più piccolo – prosegue il regista – si contrapponevano due anime:  il mondo terribile, glaciale di chi considera la vita attraverso gli affari e il potere, appartenente al padre e lontano anni luce da quello che io sono, e quello appunto del figlio minore e di sua madre, che è di un’ingenuità e di un candore estremi.
Entrambi però visti, in effetti, con una partecipazione relativa, perché io non mi riconoscevo né nel figlio né tanto meno in suo padre.
In quest’ultimo film invece la storia è ben diversa:  qui c’è un coinvolgimento umano che è dato dalla responsabilità di dover mettere in scena un dramma sociale, il morbo di Alzheimer, che coinvolge molte famiglie in occidente e che è destinato purtroppo a crescere proprio per l’aumentare dell’aspettativa della vita media.
E allora non potevo che raccontarlo con vicinanza.
Con questo film cerco di essere affettivamente vicino a chi vive questo dramma”.
Il film sorprende e rischia molto anche nella scelta degli attori.
Bentivoglio e Neri, entrambi bravissimi, recitano per tutto il film – caso più unico che raro – con un trucco che li invecchia.
Una scelta dettata ancora una volta non solo dall’evidente ammirazione di Avati per i due interpreti, ma dalla cura che sente di dovere al disegno dei personaggi.
Alla domanda sul perché non scegliere direttamente attori più anziani, il regista ha infatti osservato:  “Era mia intenzione tenere sempre molto vicini fra loro da una parte i momenti dell’amore tradizionale fra un uomo e una donna, fatto dunque anche di passione, e dall’altra la senescenza, in cui l’amore si trasforma in affetto, e i ruoli mutano, come in questo caso, dove Francesca diventa in pratica la madre del figlio che non ha mai avuto.
Non potevo dunque affidare i ruoli a due  attori la cui immagine fosse troppo  lontana  da  quel  primo percorso di  giovinezza,  in  cui penso molti spettatori  possano  facilmente  identificarsi”.
L’idea dell’avvicinamento alla malattia e alla morte come momento di arricchimento spirituale viene curiosamente affrontato anche da un altro film che esce in questi giorni, il thailandese Lo zio Boonmee che si ricorda le vite precedenti.
Il ricorrere di questo tema sta forse a denunciare un’esigenza di allontanarsi per un attimo da questo presente, dalla modernità? “Per chi ha già vissuto tanti anni come me – risponde il regista – il presente diventa sempre complicato, di conseguenza si vanno a imporre, con maggiore nitore, dei mondi, dei paesaggi, degli sfondi che ti suggestionano e che ti seducono, e che ti fanno capire che in qualche maniera il mondo può essere più grande, più vasto, più sacro addirittura di quanto non lo consideriamo o non lo immaginiamo ragionando solo attraverso calcoli di carattere egoistico o bracci di ferro di potere.
Io penso che questo sia un film molto affettuoso nei riguardi dell’essere umano, che è un atteggiamento che il cinema italiano non sempre mette in campo.
Nel film precedente ho già detto cosa non mi piace del mondo presente, ma, avendo dei figli, avendo dei nipoti, sarebbe anche profondamente scorretto da parte mia infierire, continuando a raccontare come il presente sia invivibile.
Mi sembra una forma di esprimersi troppo dissuasiva nei confronti dei sogni e delle aspettative che i ragazzi di oggi devono legittimamente tenere dentro di sé”.
Non a caso torna dunque nelle parole di Avati l’idea che questo film sia stato fatto pensando agli altri.
Che sia, neanche troppo velatamente, un atto d’amore più che un’opera d’arte.
E come tale incappa sporadicamente in difetti dovuti alla generosità, come quando a due terzi del racconto l’autore vi insinua un piano psicanalitico invadente, di cui la materia trattata, già così carica di significati, non aveva ovviamente alcun bisogno, e che comunque arriva troppo tardi e in modo troppo esplicito.
È un errore comprensibilissimo, da manuale addirittura:  Avati ha intravisto in questi personaggi e in questa storia la possibilità di parlare di tutta una vita, e a tratti è caduto nella tentazione di strafare.
Ma nel terreno arido del cinema d’oggi il suo sbagliare per abbondanza ha il sapore di un sorso d’acqua fresca.
di Emilio Ranzato (©L’Osservatore Romano – 14 ottobre 2010)

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