Alla vigilia del sinodo su “La Chiesa cattolica nel Medio Oriente: comunione e testimonianza”, che si terrà in Vaticano dal 10 al 24 ottobre, è la stessa presenza dei cattolici in quelle terre che apre problemi.
Molti degli appartenenti alle comunità indigene, eredi delle antiche cristianità lì fiorenti prima che vi arrivasse l’islam, fuggono via.
Quelli che restano vivono qua e là nel terrore, ad esempio nel nord dell’Iraq, a Mosul e dintorni, dove per difendersi tendono a fare ghetto nella piana di Ninive.
Ma altrove arrivano per motivi di lavoro molti altri cattolici, in gran numero.
Soprattutto dall’Asia e soprattutto nei paesi del Golfo.
Ad esempio, nel solo Kuwait i lavoratori immigrati sono oggi due milioni, il doppio dei cittadini kuwaitiani.
I cattolici sono 350 mila e sono in prevalenza filippini e indiani.
L’ondata di questi arrivi è così massiccia, in Arabia Saudita e nel Golfo, che a Roma stanno studiando come riscrivere i confini dei vicariati dell’area, dividendo in più parti l’immenso vicariato d’Arabia che oggi raggruppa Arabia Saudita, Oman, Yemen, Emirati Arabi, Qatar e Bahrein.
C’è infine il caso speciale dei cattolici in Israele, anche questo in piena mutazione.
* Anzitutto, entro i confini di Israele i cristiani non sono andati diminuendo, ma in cifre assolute sono aumentati anno dopo anno: da 34 mila nel 1949 a 150 mila nel 2008, ultimo dato ufficiale.
Di una loro lieve diminuzione si può parlare solo in termini percentuali – dal 3 al 2 per cento –, perché nello stesso lasso di tempo i cittadini di religione ebraica sono cresciuti da un milione a 5 milioni e mezzo, grazie alle immigrazioni dall’estero, e i musulmani da 111 mila a 1 milione 200 mila.
In Israele, i cristiani sono presenti soprattutto in Galilea, mentre a Gerusalemme se ne contano 15 mila.
L’esodo di cristiani per il quale si lancia l’allarme riguarda quindi non Israele ma piuttosto la Terra Santa, termine geograficamente estensibile, che comprende i territori palestinesi e parti dei paesi arabi circostanti, fino alla Turchia e a Cipro.
* La novità di maggior interesse, entro i confini di Israele, riguarda i cattolici di lingua ebraica.
Per la loro cura il patriarcato latino di Gerusalemme ha uno specifico vicariato, oggi affidato al gesuita David Neuhaus, ebreo israeliano convertito al cristianesimo.
Fino a pochi anni fa, in Israele, i cattolici di lingua ebraica erano poche centinaia.
Ma sono in netta crescita e contano oggi almeno sette comunità: a Gerusalemme, Jaffa, Be’er Sheva, Haifa, Tiberiade, Latrun e Nazaret.
Alla rivista italiana “Il Regno” padre Neuhaus ha spiegato che queste comunità si sono formate grazie a quattro apporti.
Il primo apporto è venuto dagli ebrei giunti in Israele con le successive ondate migratorie, tra i quali c’erano dei cattolici, nati tali o convertiti, che sono diventati parte integrante della società israeliana di lingua ebraica.
L’ultima grande ondata migratoria, dopo il 1990, è arrivata dal dissolto impero sovietico.
Il secondo apporto è dato dall’arrivo in Israele di lavoratori stranieri.
Sono oggi circa 200 mila.
Provengono dall’Africa, dall’America latina, dall’Europa orientale e più ancora dall’Asia.
Dalle Filippine ne sono giunti 40 mila, per la maggior parte donne e cattoliche.
I loro figli, nati e battezzati in Israele, vanno a scuola, imparano l’ebraico e si integrano nella società israeliana.
Il terzo apporto è costituito dai 2-3 mila maroniti libanesi trasferitisi in Israele dopo il ritiro israeliano dal sud del Libano e da profughi africani provenienti soprattutto dal Sudan meridionale, dove i cattolici sono numerosi.
I loro figli crescono anch’essi parlando l’ebraico.
Infine, vi sono i palestinesi cattolici presenti in Israele fin dalla sua fondazione, con lo statuto di cittadini ma in condizioni socialmente svantaggiate.
La loro lingua è l’arabo e sono stanziati soprattutto nei villaggi della Galilea, ma tendono a spostarsi in località economicamente più attraenti.
Padre Neuhaus porta l’esempio di Be’er Sheva, “dove sono emigrate centinaia di famiglie arabe per lavorare nei servizi intorno ai villaggi beduini, che però non vivono con i beduini perché socialmente ed economicamente di classe inferiore.
Mandano i loro figli nelle scuole di lingua ebraica e così abbiamo una nuova generazione di arabi palestinesi che parlano l’arabo solo in casa e non sanno più leggerlo né scriverlo”.
Sono tutti questi – ormai alcune migliaia e di origini le più diverse – i cattolici di lingua ebraica di cui si prende cura il vicariato.
La cura è rivolta in particolare ai giovanissimi, con catechismi per la prima volta redatti e insegnati nella lingua di Israele.
Commenta padre Neuhaus: “Operiamo con mezzi poveri.
Nel patriarcato la maggioranza cristiana palestinese è quella a cui si dedica maggiore attenzione, e così i cristiani di lingua ebraica sono in un certo senso dimenticati.
Ma siamo poveri anche in termini di persone che se ne occupino: siamo un piccolissimo gruppo con compiti troppo grandi».
* Nel 2003 la Santa Sede pose alla testa del vicariato di Gerusalemme per i cattolici di lingua ebraica un vescovo e monaco benedettino di grande valore, Jean Baptiste Gourion, algerino di nascita, anche lui un ebreo convertito.
La nomina fu criticata aspramente dai circoli pro-palestinesi della Chiesa cattolica.
Sulla rivista dei gesuiti di New York, “America”, padre Drew Christiansen, che ne è l’attuale direttore, la definì “una manovra mirata a dividere la Chiesa in Terra Santa”.
Purtroppo il vescovo Gourion morì poco dopo, prematuramente.
E ai suoi successori non fu conferita la dignità episcopale.
Dice padre Neuhaus: “Come cattolici di lingua ebraica siamo una doppia minoranza, sia nello stato d’Israele sia nella Chiesa.
A volte abbiamo l’impressione di vivere in un piccolissimo ghetto”.
Un briciolo di speranza viene dal testo base del sinodo sul Medio Oriente che sta per cominciare in Vaticano, là dove definisce “un grande aiuto” al dialogo con l’ebraismo l’esistenza del vicariato per i cattolici di lingua ebraica.
Sandro Magister Sabato pomeriggio, fine del giorno di shabbat.
Nella chiesa di san Pietro una piccola comunità si ritrova per l’eucaristia.
Siamo a Jaffa, sobborgo nell’immediata periferia di Tel Aviv, un tempo porto e principale via d’accesso in Palestina, ora appendice della capitale.
Circa 40 cristiani celebrano la messa: i tratti del volto chiariscono la diversità di provenienze di questi fedeli.
A ritrovarsi è una delle comunità cattoliche di lingua ebraica, piccola ma importante realtà che cresce all’interno d’Israele, insieme ad altri cattolici che giungono nel paese.
Per comprendere cosa significhi comunione e testimonianza nella Chiesa del Medio Oriente che si prepara al suo primo Sinodo continentale, occorre passare anche da qui.
Il testo dell’articolo è disponibile in formato pdf V isualizza il testo dell’articolo Regno-att.
n.16, 2010, p.525 La terra delle religioni di Filippo di Giacomo in “l’Unità” del 13 ottobre 2010 C’era una volta il Medio Oriente.
Dagli inizi del secolo scorso, durante la decolonizzazione dai turchi e successivamente dagli occidentali, gli arabi di ogni fede religiosa avevano tracciato le linee di un modello di convivenza sociale che, a partire dagli anni Quaranta nel Libano post indipendenza, era stato applicato per la coesistenza politica.
Musulmani e cristiani partecipando attivamente alla lotta di liberazione dei loro paesi, militavano in partiti fondati sul pensiero politico di intellettuali di ambedue le religioni.
Sembra niente, ma è tanto.
Ed è anche a questo che erano riferite le parole con le quali, domenica scorsa, aprendo il Sinodo speciale dei Vescovi del Medio Oriente, Benedetto XVI ha ricordato che quella regione del mondo ha visto «sempre, dai tempi di Gesù fino ad oggi, la continuità della presenza dei cristiani».
Nel suo documento preparatorio, nel cosiddetto Instrumentum laboris, il sinodo mediorientale ha consegnato ai vescovi una tesi politicamente interessante.
La quale, riassunta (come ha fatto il gesuita Samir Khalil Samir per la rivista Mondo e Missione di ottobre) dice più o meno cosi: «In Medio Oriente, i cristiani devono spingere per una società che distingua la politica dalla religione, ma che riconosca la dimensione religiosa come fondamentale; che metta l’accento sull’istruzione, la riflessione e lo spirito critico, senza auto-distruzione né fughe nell’intellettualismo.
Una società fondata su norme, valori e ideali comuni, ispirati dalle diverse religioni».
Sono parole che riecheggiano (in parte, correggendolo) lo spirito di quel “rinascimento arabo”, la Nahda, iniziato nella seconda metà dell’Ottocento ed esauritosi con la prima guerra mondiale, quando il bisogno (allora) tutto occidentale di accesso e di partecipazione alle risorse petrolifere si è concretizzato nel patto di ferro che il sistema economico anglosassone ha stipulato con i paesi, e i regimi, nati dal panarabismo radicale.
Come dimostrano le decennali vicende della guerra irakoafgana, quel patto è ormai traballante.
E anche il panarabismo non sta affatto bene: circa due anni fa, all’undicesimo vertice dell’Organizzazione della Conferenza Islamica, la massima assise mondiale dei paesi musulmani, a Dakar in Senegal, si sono presentati solo i rappresentanti di 37 paesi sui 57 aderenti.
Oggi, cercare le radici del disastro mediorientale è un esercizio rischioso.
Nel groviglio di sbagli e interessi che hanno gettato nel baratro un’intera regione dello scacchiere mondiale, l’errore di chi ha distrutto, e continua a destabilizzare, il Libano multiconfessionale è pari a quello commesso da chi aveva convinto il mondo che nell’Iraq si tramava costruendo “armi sporche” (fatto smentito, a disastro avvenuto, dalla Cia) e che Saddam Hussein era il grande protettore di al Qaida (fatto smentito, a uccisione avvenuta, dal Pentagono).
Nell’Iraq “pacificato e democraticizzato” i cristiani sono in condizioni di vita disumane: ogni settimana hanno diritto a 60-80 attentati più una congrua dose di rapimenti, minacce e uccisioni.
Non nascondiamoci dietro l’efficacia dei bombardieri nell’esportare la democrazia e la pace.
Nell’avventura senza ritorno che gli scontri degli ultimi cinquant’anni hanno innescato, progressivamente, in tutto il Medio Oriente, le uniche speranze sui diritti umani e la pace interreligiosa provengono dalle “buone volontà” presenti in tutte le società mediorientali.
E a coloro che, a prescindere dalla fede religiosa, vogliono ancora essere un nadhawi, un uomo della rinascita, i vescovi del Medio Oriente indicano il nodo fondamentale della libertà di religione e di coscienza, il tema della migrazione, declinata sia come emigrazione che come immigrazione, all’avanzata del fondamentalismo non solo musulmano, alla restrizione delle libertà, alla situazione economica.
Perché il mondo cambia anche in Medio Oriente e persino nella penisola araba.
Da due decenni circa, la patria di Maometto è in cima alla top ten dei Paesi in cui il cristianesimo sta conoscendo il massimo incremento: su 17 milioni di abitanti, in Arabia vivono 8,8 milioni di stranieri immigrati, a maggioranza di religione cristiana, un abitante ogni due cittadini sauditi.
Se poi si allarga l’analisi agli Emirati Uniti, la proporzione aumenta: gli stranieri diventano più di 13 milioni – l’ottanta per cento della popolazione – di cui quattro milioni cristiani.
Dunque quando i vescovi parlano della necessità di un sistema di diritti riconosciuti e condivisi, di bene comune, di passaggio dalla tolleranza alla giustizia e all’uguaglianza, guarderanno pure il cielo, ma restano con i piedi ben piantati a terra.
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