L’intervista «Chi non è contro di noi è con noi», «Probati viri uxorati», «Gay: dall’orgoglio alla consapevolezza», «Eluana ci parla ancora», «Divorziati risposati», «Chiesa povera tra i poveri», ecc.
Basta scorrere l’indice per capire che il nuovo libro di monsignor Giuseppe Casale, vescovo emerito di Foggia-Bovino, esplicitamente intitolato Per riformare la Chiesa.
Appunti per una stagione conciliare (La Meridiana, 2010, pp.
76, € 12), non elude nessuno dei temi più scottanti dell’attuale dibattito ecclesiale.
E lo fa con una semplicità e una parresia forse favorite dagli 87 anni, ma certo non comuni negli ambienti ecclesiastici.
Per approfondire queste proposte, Jesus ha intervistato l’autore.
In questo libretto lei presenta una serie di proposte innovative.
Pensa che altri vescovi le condividano? «Io credo che una buona parte dei vescovi condivida, soffrendo, la necessità di affrontare questi temi.
Dico soffrendo perché essi rimandano a quella collegialità episcopale che oggi viene oscurata dall’enfasi posta sul papato.
Primato del Papa e collegialità episcopale sono due aspetti dell’unica comunione nella Chiesa, ma oggi il primo è amplificato in misura esagerata dall’azione della Curia romana, che dovrebbe svolgere un ruolo puramente esecutivo, mentre ne esercita di fatto uno normativo, sovrapponendosi alle Chiese locali, e il secondo rimane inoperante, non andando oltre la funzione consultiva del Sinodo dei vescovi.
Così del principio “sub Petro et cum Petro” che dovrebbe guidare la Chiesa resta solo il primo termine.
In Italia poi, il fatto che il presidente della Conferenza episcopale sia nominato dal Papa e il modo “forte” con cui il cardinal Camillo Ruini ha governato la Cei per vent’anni hanno diffuso tra i vescovi l’idea, infondata teologicamente, che ci sia un “capo dell’episcopato”, cui si deve obbedire e se un vescovo esprime un’opinione diversa sia un ribelle.
Così si restaura una visione ecclesiologica preconciliare, con il rischio di allontanare la Chiesa dal mondo di oggi e dalle sue esigenze, mentre la fede deve camminare con la storia.
Bisogna quindi aprire una “stagione conciliare” in cui i vescovi si riuniscano con il Papa per affrontare con coraggio questioni come il celibato dei preti, la contraccezione, la procedura per la nomina dei vescovi, ecc.».
Nel libro, lei richiama l’esigenza di un dialogo intraecclesiale.
Che cosa significa in concreto? «Io ho ripreso la grande e un po’ dimenticata enciclica Ecclesiam suam di Paolo VI.
Essa parla di dialogo intraecclesiale, che è fondamentale, perché l’opinione dei credenti deve formarsi nel confronto delle varie esperienze, di fede, di lavoro, comunitarie, ecc.
Ma negli ultimi anni questo dialogo, soprattutto in Italia, è venuto meno: non c’è tra i vescovi, che quando partecipano all’assemblea della Cei si trovano già preconfezionato il documento finale, non c’è tra i fedeli, perché è prevalsa l’idea che “si guida dal vertice” e la comunità cristiana è diventata conformista.
Basti vedere Avvenire, che non dà spazio alla pluralità di opinioni esistenti nella Chiesa italiana, ma pubblica solo ciò che è in linea con l’orientamento dei vertici della Cei, ignorando o condannando chi la pensa diversamente.
Il dialogo afferma la libertà di confrontarsi con il Vangelo, di porre in pubblico le proprie opinioni, senza che nessuno si ritenga detentore della verità, ma tutti alla sua ricerca».
Lei esprime perplessità sul modo in cui nella Chiesa si affrontano i cosiddetti «valori non negoziabili».
«L’espressione non mi piace, perché se sono valori non si negoziano, non se ne fa mercato.
Il problema è che, di fronte a questioni inedite come le convivenze di fatto, le relazioni omosessuali o il testamento biologico, ci illudiamo di mantenere lo status quo ricorrendo alle leggi, mentre questo è inevitabilmente destinato a cambiare e il futuro dipenderà solo da un’educazione delle coscienze alla fede nel Vangelo, in Gesù.
Purtroppo nella Chiesa prevale una prospettiva metafisica e deduttiva, mentre servirebbe una mentalità storico-induttiva.
Per esempio, la legge naturale non è qualcosa di fissato nei ritmi biologici, che cambiano, come ci mostra la scienza, ma comprende anche la storia e la cultura.
Bisogna “agire dal di dentro”, come Paolo ha fatto con la filosofia greca e il diritto romano, riuscendo a creare un amalgama nuovo, nel nostro caso una società fondata sulla libertà di coscienza, sul rispetto reciproco, sul dialogo e sulle convinzioni profonde.
Quindi la mia è una prospettiva di grande speranza, sia pur attraverso un travaglio, perché dovremo abituarci a farci liberare a opera della storia da tanti attaccamenti».
Nel libro lei parla di una «Chiesa povera tra i poveri»…
«E un tema che mi sta molto a cuore, perché la ricchezza perverte tutto, mentre noi dobbiamo mettere i beni materiali al servizio della comunità nella giustizia e nella solidarietà, sapendo che l’accumulazione ci coinvolge nella logica capitalista, che tiene un miliardo di persone nella fame.
Noi siamo una Chiesa borghese, che tranquillizza i borghesi, i quali possono lavarsi la coscienza se fanno una piccola elemosina e godersi il risultato di piccoli o grandi compromessi tipici di questa società in cui governano gli uomini della finanza.
Invece dovremmo rinunciare alle proprietà ecclesiastiche e affidarci alla generosità della gente.
Altrimenti ci inseriamo nel ginepraio dei meccanismi per farle fruttare sempre di più, mentre ci dobbiamo battere per superare gli attuali assetti capitalistici, trovando una soluzione perché non ci siano più i grandi, scandalosi guadagni e le grandi, scandalose, miserie, anche in Italia.
In questa linea si sono mosse in America latina le Comunità ecclesiali di base e la Teologia della liberazione, e in Europa i preti operai.
Oggi non se ne parla più, ma l’oppressione nel mondo del lavoro esiste ancora e la Chiesa dovrebbe affrontarne con coraggio le nuove forme per evitare il “San Precario”, l’incertezza per cui il lavoro è una merce e il lavoratore è uno che si vende sul mercato» in “Jesus” dell’ottobre 2010
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