Sotto il titolo Seguendo Gesù, Manlio Simonetti ed Emanuela Prinzivalli raccolgono con precisione ed intelligenza i testi principali della letteratura cristiana delle origini.
Il primo volume, che esce in libreria in questi giorni, comprende la cosiddetta Didachè, la Prima lettera di Clemente ai Corinzi e le Lettere di Ignazio di Antiochia (Fondazione Valla, Mondadori, pagg.
XXIII-630: euro 30, euro 23 nei mesi di ottobre-dicembre 2010).
Il secondo volume, di prossima pubblicazione a cura degli stessi studiosi, raccoglierà la lettera di Policarpo, il Pastore di Erma e la lettera di Barnaba.
Siamo nei primi decenni del Cristianesimo: tra il 60-70 e il 120.
I cristiani non hanno ancora assunto il loro nome, sebbene Gesù sia il fondamento della loro vita.
Tra gli scrittori e lettori di questi testi, qualcuno ha incontrato i discepoli diretti del Signore: molti hanno appreso le sue parole attraverso una tradizione orale.
Le comunità cristiane sono ancora informi e incipienti, senza strutture radicate, e con tratti fortemente carismatici.
Sia gli apostoli (da non confondere con i dodici) sia i profeti sia i maestri sono missionari itineranti, come secoli dopo accadrà anche tra i Manichei.
Essi non hanno casa né chiesa: possono sostare in un luogo solo due giorni, e se si soffermano più a lungo vengono considerati “falsi profeti”.
I riti sono incerti: non si è ancora stabilito chi debba essere il ministro del battesimo; forse tutti i fedeli possono battezzare.
Questa situazione fluidissima tende a irrigidirsi: negli anni di Ignazio, si forma una gerarchia a tre livelli, più stretta e compatta di quella di Paolo: vescovi, presbiteri, diaconi.
Leggendo questi testi arcaici, la nostra prima sensazione è di percorrere il cristianesimo originario, che respira con lo stesso respiro di Gesù e ne percorre le norme.
In realtà, le cose stanno diversamente.
Spesso ciò che manca, al primo cristianesimo, è in parte proprio il cristianesimo.
I nostri autori non conoscono i Vangeli sinottici, che non erano ancora stati scritti o che venivano scritti negli stessi anni, o che non avevano ancora acquistato autorità.
Essi conoscono passi paralleli, discesi da una raccolta parasinottica orale o scritta; e alcuni comprendono perfettamente le lettere di Paolo.
Clemente possiede la filosofia ebraico-ellenistica, che poi verrà dimenticata o trascurata dalle comunità cristiane.
Nella sua lettera, colpisce sopratutto il ricordo dell’Antico Testamento: testo unico e capitale, sebbene i suoi passi e le sue figure vengano interpretati come anticipi di Gesù.Specialmente nella Didachè, che non ha un aspetto narrativo, manca la figura di Gesù, che predica, cammina, parla segretamente ai suoi discepoli.
Nello stesso testo c’è una mancanza ancora più grave: non c’è traccia del corpo e del sangue di Cristo, e della sua morte come redenzione, quasi che Paolo non avesse mai predicato.
Gesù non è ancora divenuto Xristos: cioè il Messia, termine essenziale nei Vangeli.
Egli non è la salvezza, ma la via che porta alla salvezza: ci conduce a Dio, ma non è la meta.
«Grazie a lui fissiamo lo sguardo alle altezze dei cieli, grazie a lui osserviamo come in uno specchio il volto immacolato e altissimo di Dio».
Ma, a poco a poco il sangue di Gesù Cristo diventa il centro della salvezza; e nei primi anni del secondo secolo, Ignazio scrive queste parole bellissime: «Aspetta colui che è al di sopra del mondo, senza tempo, invisibile per noi visibile, impalpabile, impassibile per noi passibile, colui che per primo ha sopportato ogni sorta di sofferenza».
Dio cade in ombra, la creazione passa in secondo piano; e Gesù cresce ed avanza sulla scena, con il suo corpo sanguinante e la sua morte, fino a diventare colui che è stato e sarà per sempre: il Cristo di Paolo e di Giovanni.
Chi parla, nella Prima lettera ai Corinzi di Clemente, è la chiesa di Roma: l’intera, vasta comunità dei fedeli, che si rivolge con una sola voce ai cristiani di Corinto: «La chiesa di Dio che vive da straniera a Roma alla chiesa di Dio che vive straniera a Corinto».
Sia l’una sia l’altra chiesa sono doppiamente straniere: rispetto al mondo, perché i cristiani sono estranei nei confronti del mondo, e dinanzi al cielo, perché la nostra vita su questa terra è provvisoria.
Sia la chiesa di Corinto, a cui si rivolge Clemente, sia le chiese dell’Asia Minore, a cui si rivolge Ignazio, sono preda della discordia: le comunità cristiane ripetono la stessa situazione dei gruppi ebraici, che nelle passate generazioni erano state travolte da odi feroci.
La condizione delle chiese sembra terribile: discordia, rivolta, sedizione, gelosia, lite, invidia, persecuzioni, disordini “funesti e sacrileghi”.
Clemente e Ignazio richiamano episodi della Bibbia: il delitto di Caino, la gelosia di Esaù verso Giacobbe, quella dei fratelli verso Giuseppe, di Saul verso Davide.
Non sappiamo esattamente quale sia la ragione di queste discordie.
Nel caso delle lettere di Ignazio, è chiaro che le comunità medioorientali sono in parte dominate da gruppi docetisti, che negano la morte sulla croce di Cristo incarnato.
In generale, le cause sono meno precise: le autorità e le gerarchie tradizionali delle chiese sono discusse da contestatori che provengono dal basso (talvolta donne).
«Sono insorti – proclamava Clemente – quelli senza onore contro gli onorati, gli oscuri contro gli illustri, gli stolti contro gli assennati, i giovani contro gli anziani…
Ciascuno ha abbandonato il timore di Dio».
Contro questa condizione di scisma e di dissidio, Clemente e Ignazio raccomandano, quasi con le stesse parole, l’unità, la concordia, la pace nelle comunità cristiane.
«Dobbiamo fare ordinatamente tutto quanto il Padrone ha concordato di compiere nei tempi stabiliti».
Come la chiesa è unita con Gesù Cristo, e Gesù Cristo col Padre, così tutti i fedeli debbono essere uniti col vescovo.
«Voi non dovete far niente senza il vescovo e i presbiteri.
Tutto sia fatto in comune: una sola preghiera, una sola invocazione, una sola intenzione, una sola speranza nell’amore e nella gioia irreprensibile che è di Gesù Cristo».
Come nella Prima epistola ai Corinzi di Paolo, tutto si compie e si scioglie nell’amore: agape.
«L’amore ci lega a Dio: l’amore tutto sopporta, tutto tollera: l’amore non ha divisione, l’amore non crea discordie, l’amore tutto compie nella concordia…
Vedete, o diletti, come è grande e meraviglioso l’amore, e della sua perfezione non c’è spiegazione».
C’è una differenza con Paolo, nel quale la perfezione dell’amore veniva chiaramente spiegata: esso è più eccelso della speranza e della carità e non ha mai fine.
Qui, in Clemente, l’amore rappresenta il culmine dell’esistenza cristiana proprio perché è una condizione inspiegabile e ineffabile.
Vescovo di Antiochia tra il 110 e il 120, Ignazio venne arrestato dall’autorità romana, messo in viaggio sotto scorta, e condotto a Roma, dove avrebbe dovuto essere gettato alle belve dell’anfiteatro.
Il viaggio fu lento: ad ogni tappa, messi delle comunità cristiane dell’Asia Minore gli facevano omaggio, mentre egli scriveva lettere, nelle quali risuonava la tradizione paolina.
Il tema principale, grandioso e straziante, è quello del martirio.
Ignazio non vuole, a nessun prezzo, per nessuna ragione, essere liberato dalle catene e dalla condanna.
Solo imitando Gesù, solo subendo la morte come Gesù in croce, egli diverrà pienamente cristiano.
La sua morte sarà come il tramonto del sole: ma questo tramonto-morte si capovolge nella resurrezione in Dio.
Con una tremenda autoferocia, Ignazio giunge al punto di dire che se le belve non avessero voluto divorarlo lui «le costringerà a forza».
«Fuoco e croce, scontri con belve, lacerazioni, squarci, dispersione d’ossa, mutilazione di membra, triturazione, – purché io possa raggiungere Gesù Cristo».
Nell’anfiteatro, le zanne crudeli delle belve lo macineranno, trasformandolo in pane puro.
L’altro tema di Ignazio è quello del silenzio di Dio, e della discesa nascosta del Redentore.
Questa discesa conosce tre tappe: la verginità di Maria, il parto di Maria, la morte del Signore; le tre tappe sono la suprema manifestazione di Dio, che parla soprattutto quando tace.
Satana, e i principi di questo mondo, ignorano il silenzio di Dio.
Se vogliamo dirci cristiani, dobbiamo ascoltare sia le parole udibili dei Vangeli sia le parole nascoste e silenziose del Signore, nelle quali egli ci rivela tutti i misteri di Cristo, tutti gli enigmi dell’universo.
di Pietro Citati in “la Repubblica” del 5 ottobre 2010
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