L’intervista «Da tempo la politica italiana appare più concentrata a far parlare di sé che non a occuparsi delle difficoltà che le persone concrete incontrano».
In un’intervista al Corriere, l’arcivescovo di Milano, Dionigi Tettamanzi, chiede a chi governa di dare «esempio di sobrietà».
Il cardinale Tettamanzi ha da poco concluso gli incontri con gli amministratori locali: nella diocesi di Milano i temi della crisi sono al centro di molte domande, i tempi sono difficili per tutti, la fatica di vivere investe i giovani senza speranza, gli stranieri senza cittadinanza, i lavoratori senza lavoro, le famiglie divise, le persone sole.
Per chi ha una responsabilità pubblica ci sarebbe molto da fare e molto da dare, ma in questi giorni la politica nazionale sembra rovesciare priorità e necessità.
Anche dal Duomo, oltre che dal Quirinale, si vede il rischio del baratro.
Tra risse istituzionali e personalismi, certe cronache sembrano uscire da uno stagno.
E non è ancora finita.
Eminenza, lei non crede che tutto questo aumenti il senso di sfiducia nei confronti di chi dovrebbe aiutarci a uscire dalla crisi? «Quello che leggiamo da troppi mesi nelle cronache politiche nazionali non rispecchia certo i veri problemi del Paese.
Da tempo la politica italiana appare più concentrata a far parlare di sé che non a occuparsi delle difficoltà che le persone concrete incontrano.
Gli amministratori, e i politici in genere, non devono perdere il legame vitale con la gente, con il Paese.
Solo così, se la gente si sentirà realmente ascoltata e rappresentata, il senso di sfiducia sempre più marcato si trasformerà nell’affidamento responsabile dei cittadini alle istituzioni e agli uomini che le animano, le rappresentano, le governano.
Sta poi ai politici rispondere adeguatamente a questa fiducia con un’azione che abbia di mira la ricerca e la costruzione del bene comune.
Dal mondo politico però «vengono esempi negativi da figure che dovrebbero avere un’alta responsabilità morale».
Condivide le parole del cardinal Bagnasco? «Come faccio a non condividerle? Il dovere dell’esemplarità non riguarda solo i politici, bensì tutte le persone che hanno incarichi pubblici, che sono chiamati a guidare il Paese, a essere un riferimento per le persone, che rappresentano la nazione, all’interno e all’esterno.
Gli uomini che governano le istituzioni sono il volto delle istituzioni.
Per questo la sobrietà deve essere una nota di stile caratteristica e visibile.
Deve emergere dal tipo di linguaggio che si usa, nell’esibizione di sé, nell’esercizio del potere, nello stile di vita.
I cittadini hanno il diritto di attendersi da chi li rappresenta la correttezza di comportamento, l’esemplarità nel pubblico e nel privato.
Condotta morale e vita pubblica, nel caso di chi abbia responsabilità istituzionali, non possono essere scisse.
Non c’è un po’ di disorientamento negli uomini di Chiesa davanti a certi fatti di moralità discutibile che anche una parte della stampa cattolica stigmatizza? «Compito della Chiesa in ambito sociale non è stigmatizzare o approvare, bocciare o promuovere.
La Chiesa è al servizio del bene autentico dell’uomo, desidera accompagnare ogni uomo all’incontro con Cristo, verità e pienezza dell’umano.
Un accompagnamento che avviene mostrando i valori cui occorre tendere, testimoniandoli e vivendoli per primi, realizzando le condizioni affinché questi valori possano essere compresi, perseguiti, vissuti.
La Chiesa, quando interviene in ambito sociale, lo fa per domandare che si realizzino le condizioni affinché questi valori fondamentali dell’uomo — che gli permettono di essere quello che è — possano essere realmente perseguiti.
Quali sono queste condizioni? «Mi spiego: se una persona non gode delle condizioni minime per sostenersi, istruirsi, mantenere la propria famiglia, come potrà realmente e pienamente vivere quei valori in cui crede? Il compito che la Chiesa è bene oggi dia alla politica non è quello di un protagonismo da “soggetto partitico” bensì quello di richiamare, incoraggiare, sostenere gli uomini politici e delle istituzioni a occuparsi del bene comune, a essere veri uomini di Stato.
Il Papa ha usato un’immagine forte per dipingere questo clima di decadenza: ha evocato la caduta dell’impero romano.
Siamo davvero a un punto così basso? «Il Papa ci aiuta e ci sprona a prendere consapevolezza del momento presente, a comprendere la realtà oltre i fatti della cronaca.
La questione decisiva non è tanto misurare quanto siamo “caduti in basso”, bensì renderci conto che la situazione è grave, c’è scarsa consapevolezza del presente, non c’è una visione adeguata dei bisogni più veri delle persone, delle realtà sociali, economiche, produttive, educative… Mancando questa visione e tensione complessiva verso il bene comune il rischio è che ciascun soggetto, singolo o comunitario, si rinchiuda in se stesso, si arrangi come può, cerchi il proprio interesse a ogni costo, anche a danno degli altri, frammentando ulteriormente il Paese».
Sente il peso di un’eredità sempre più povera, anche dal punto di vista educativo, che viene lasciata ai giovani? «C’è un punto di partenza sicuro e irrinunciabile per superare questa povertà: la famiglia, il primo e potenzialmente il più potente luogo di educazione per i più giovani.
La famiglia va sostenuta: perché i genitori possano mettere al mondo i figli che desiderano, perché possano mandarli a scuola, perché possano conciliare il tempo del lavoro con quello da dedicare alle relazioni domestiche.
La Chiesa italiana per il prossimo decennio vuole porre l’attenzione proprio sulla questione educativa».
Poco più di un anno fa, lei chiedeva un sussulto morale a Milano, un cambio di marcia per reagire alla crisi economica e alla rassegnazione.
Per dare l’esempio, ha fatto qualcosa di concreto: ha creato un Fondo per i nuovi poveri.
Come ha reagito la città? «La propensione alla solidarietà dei milanesi non è una novità.
Di nuovo oggi vedo la crescente consapevolezza che tutti siamo responsabili di tutti, che la solidarietà è un dovere morale, una questione di giustizia, un’esigenza prima che un atto di bontà.
Uno dei picchi nelle donazioni al Fondo famiglia lavoro si è avuto nei giorni vicini all’ultimo Natale, proprio in corrispondenza del periodo più duro da quando siamo nella crisi economica.
I consumi si sono contratti, le spese per i doni sono diminuite, ma le offerte al Fondo sono aumentate».
Come se lo spiega? «Perché in molti è vivo il senso di responsabilità verso chi è in difficoltà, perché molti hanno capito che aiutare chi è nel bisogno non è solo compito dello Stato, ma di ciascuno.
Attorno al Fondo famiglia lavoro si sono mosse tante persone che non si sono tirate indietro e hanno voluto fare la propria parte, dimostrandosi consapevoli che la carità e la gratuità sono ciò che fonda e assicura una vita piena, vera, buona e bella.
Dal basso, Milano ha dimostrato di essere una città solidale.
C’è una società minuta che cerca di fare il proprio dovere, nonostante tutto.
Ma non le sembra che i tanti che si impegnano scarseggino di punti di riferimento? «Non mancano le persone che conducono un’esistenza all’insegna della responsabilità, verso di sé, verso la propria famiglia e verso gli altri: a ogni livello e in ogni situazione sociale.
Quello che scarseggia è la capacità di fare rete, di fare sistema, di rendere istituzione quel senso di responsabilità verso gli altri e che corre il rischio di essere solo un’ottima qualità personale.
In questo senso è da leggere la proposta di realizzare dei cantieri sociali, come proponevo nell’ultimo discorso di sant’Ambrogio».
Si parla di ricostruire i ponti, tra chi fa buone azioni e chi ha la possibilità di amplificarne la loro portata.
Ma chi sostiene oggi le tante formichine che non si arrendono? «C’è un’Italia che ce la fa, che ha coscienza della propria identità, che ha solidi legami con il territorio, che attraverso il proprio lavoro cerca la propria realizzazione, il soddisfacimento dei propri bisogni e, al tempo stesso, vuole offrire un contributo al bene complessivo del Paese.
Mi colpisce in particolare, quanto emerge da una ricerca dell’Istituto Sturzo coordinata dal professor Mauro Magatti che sta scoprendo, identificando e studiando un’Italia generativa.
Ci sono aziende, formichine ma anche leoni, che funzionano, persone che hanno idee imprenditoriali di successo, territori attivi: solo che non sono visti, non sono compresi, non entrano nelle reti sociali.
Mettiamo in relazione tra loro le forze positive del Paese.
L’Italia ha bisogno di ripartire».
Tra i suoi messaggi verso gli ultimi, c’è stata la visita al campo rom di via Triboniano, a Milano.
Il cardinale con i piedi nel fango è un’immagine forte: gli zingari sono materia che scotta.
Perché è andato in quel bivacco? «Sono stato al campo rom di via Triboniano nell’ambito di una serie di gesti che ho compiuto nei giorni di Natale per mostrare l’impegno e l’attenzione necessari nei confronti dei più piccoli.
Ho pregato in quel campo affinché si possa giungere a condizioni di vita più umane per quei bambini e per tutti i bimbi nella nostra città.
L’integrazione è possibile grazie all’impegno di tutti, nel rispetto della legge, nella tutela dei diritti di cui ogni persona è nativamente portatrice.
Ricordo in quel campo rom l’incontro con la piccola Tsara, tetraplegica dalla nascita, accudita in una baracca, che non può avere cure adeguate perché non ha accesso alla cittadinanza.
Che colpa ha lei? La questione dei rom, come le altre questioni spinose che colpiscono le nostre città, sono da affrontare insieme, responsabilmente, con tutte le parti, per iniziare a risolverle, non per agitarle strumentalmente per catturare consensi».
«Famiglia Cristiana» ha scelto lei come l’italiano del 2010: al servizio della verità, anche se costa.
Il suo impegno nel sociale le ha portato anche critiche, dal mondo politico.
Quali attacchi le hanno fatto più male? «Quando parlo dei bisognosi, degli ultimi, degli emarginati, di chi non ha una casa, di chi ha fame, non mi preoccupo di essere accusato o incensato.
Un cristiano, un vescovo deve seguire il Vangelo.
L’unico criterio del mio agire è la fedeltà alla parola del Signore, il Vangelo.
Anche quando fare ciò è scomodo, anche quando impone un prezzo da pagare».
in “Corriere della Sera” del 13 febbraio 2011
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