In un mondo migliore

INTERVISTA A SUSANNE BIER Cosa ha ispirato l’idea del suo nuovo film, In un mondo migliore? Ho discusso con Anders Thomas Jensen della Danimarca, che viene percepita come una società armoniosa e ideale, mentre nella realtà nulla è perfetto.
Abbiamo iniziato a pensare ad una storia nella quale eventi imprevedibili avrebbero avuto effetti drammatici sulle persone e distrutto l’immagine di luogo incantato nel quale vivere.
La storia di due ragazzi che diventano amici, ma uno di loro comincia a diventare violento, ha iniziato a svilupparsi.
Di solito si crede — o si vuole credere — che i ragazzini siano buoni, creature dell’amore, ma in questo caso un 12enne diventa cattivo, addirittura malvagio, perché arrabbiato.
Di cosa parla il film? Il film è incentrato sul personaggio di Mikael Persbrandt, che interpreta un medico idealista che lavora per una missione umanitaria in un campo di rifugiati in Africa.
Vuole fare la cosa giusta, ma gli eventi lo mettono alla prova e vediamo fino a che punto.
La sua storia è intrecciata con quella dei ragazzi.
Il medico è un personaggio interessante e intrigante che affronta le proprie ferite ma sogna un mondo migliore.
In Dopo il matrimonio, anche Mads Mikkelsen era impegnato in campo umanitario, ma doveva fare una scelta difficile nella sua vita.
Sembra affascinata da questi complessi personaggi maschili, messi alla prova dalla sorte e costretti a prendere decisioni pressoché eroiche.
Semplicemente mi piacciono le persone e sono i loro problemi che le rendono interessanti.
Nel film, Mikael Persbrandt è romantico, idealista, ma non certo perfetto.
È un vero essere umano con le sue fragilità, i suoi dubbi e le sue incertezze.
Da regista e donna, mi sento spinta verso questi personaggi maschili.
Gli attori spesso hanno un forte lato femminile, e mi piace trovarlo, come la profondità, segreto nascosto da portare allo scoperto.
Aveva in mente Ulrich Thomsen e Mikael Persbrandt quando ha scritto la sceneggiatura con Jensen? Di solito non parliamo degli attori all’inizio della scrittura, vogliamo concentrarci sulla storia e sulla drammatizzazione dei personaggi.
Poi, dopo la seconda e la terza scrittura, quando abbiamo i nomi, ci pensiamo e riscriviamo parti della storia.
Com’è stato per lei lavorare con Mikael Persbrandt? È un attore molto dotato, di grande forza.
Ha un lato animalesco molto vivo e questo è stato eccezionale per me, come regista.
Nel gennaio scorso ha avuto dei problemi con il Governo sudanese, che ha accusato il film di essere anti-islamico e di dipingere “una situazione inesistente in Darfur”.
Cosa ci dice di questo episodio? Il film non ha nulla a che fare con il Darfur.
È stato girato in Kenya, e l’azione si svolge da qualche parte in Africa, non in un luogo specifico.
La storia poi non ha nulla a che vedere con la religione: l’accusa era del tutto fuori luogo.
Lei è uno dei filmmaker più “vendibili” di Scandinavia, e i suoi film sono noti in tutto il mondo.
È importante per lei questo riconoscimento internazionale? Il cinema per me non è fare piccoli film d’avanguardia che non vedrà mai nessuno.
Mi piace essere connessa al pubblico, perché penso al pubblico quando faccio un film.
SUSANNE BIER regista Figlia di Rudy Bier, un ebreo tedesco rifugiatosi in Danimarca durante l’occupazione nazista, e di Henny Bier, danese di origini ebreo russe e sorella minore di due avvocati (uno a Londra, l’altro a Copenhagen), Susanne Bier incarna il modello cosmopolita e moderno della  tradizione europea degli anni d’oro, in cui i registi come Siodmak, Ophuls e Wilder cercavano, per necessità o inquietudine,  ispirazione fuori dai confini nazionali.
Susanne si laurea in architettura ma decide  di studiare cinema all’estero, a Londra e Gerusalemme.
Sposa un regista (da cui ha un figlio, Gabriel), poi un attore svedese (sua figlia Alice ha la doppia nazionalità ed è bilingue), poi un musicista.
Il suo cinema riflette appieno questa forma di libertà e di spazio a partire da subito, con Family Matters storia di incesto tra fratello e sorella, tra Copenhagen e un paese remoto del Portogallo.
La regista si sposta poi in Svezia, per girare Pensionat Oskar, incentrato su una famiglia piccolo borghese in una località di vacanza, in cui i legami iniziano a vacillare quando il padre e marito scopre di essere attratto da un bagnino.
In entrambi i film è evidente che l’altrove fisico serve alla regista a cercare un altrove morale e sentimentale, una forma di spostamento dalla normalità.
Il grande successo nazionale arriva con The One and Only, una commedia che non riesce a valicare i confini della Scandinavia, ma attira su Susanne l’attenzione dell’industria nel suo paese.
Di nuovo al centro dell’azione troviamo due famiglie, problemi di adozione e una bambina che arriva dal Burkina Faso.
La commedia successiva Susanne la gira in Svezia – è la storia di una giovane sfigata che sogna di cantare in Eurovisione – e il titolo la dice lunga: Once in a Lifetime.  È Open Hearts, tuttavia, a segnare la svolta critica internazionale, vincendo il Fipresci al festival di Toronto, riscuotendo un ottimo successo a San Sebastián e lanciando Susanne e il suo protagonista, Mads Mikkelsen,  nel firmamento delle star europee (purtroppo il film ha una pessima distribuzione in Italia, “curata” da E-mik).
Si tratta di una storia lacerante, in cui un uomo giovane e bello viene travolto da una macchina e rimane paralizzato a vita.
L’incidente cambierà anche le vite degli altri, della sua compagna, dell’automobilista distratta e del medico che lo cura.
Per certi aspetti Open Hearts racchiude tutto il lavoro precedente di Susanne e anticipa i film che farà in seguito.
Come per Non desiderare la donna d’altri, Dopo il matrimonio, Noi due sconosciuti e In un mondo migliore, sotto la lente d’ingrandimento non c’è mai solo il personaggio- motore della vicenda.
Un’azione scatena più reazioni e la traiettoria di un personaggio cambia le traiettorie degli altri.
L’infermità fisica di Nicolaj Lee Kaas provoca un’infermità altrettanto grave in Paprika Steen, la donna che lo ha investito.
L’Afghanistan di Non desiderare la donna d’altri è l’altrove che sconvolge la vita del soldato Ulrich Thomsen, di sua moglie Connie Nielsen e di suo fratello Nikolaj Lee Kaas.
Quando Thomsen è costretto a ammazzare un suo commilitone  in un campo di prigionia Talebano, si scatena una serie di lutti morali, pubblici e privati.
Oltre a essere un  successo critico, il film si afferma anche al botteghino: funziona in patria, in America, Germania, Italia e Spagna, vince il Sundance Festival, vince San Sebastián e una sfilza di premi nazionali.
Per l’industria americana, Susanne Bier è una da tenere d’occhio.
Il soggetto del film viene opzionato e qualche anno dopo esce un remake diretto da Jim Sheridan con Jake Gyllenhaal e Natalie Portman. Sheridan si sente appoggiato e incoraggiato dalla regista.
È uno dei film più belli del 2010: intenso, emozionante, vita vera.
In un mondo migliore (dal 10 dicembre nelle sale) è il lavoro cinematografico che consiglio di vedere a cuore pieno e spassionato, come se caldeggiassi qualcosa di caro e di mio.
Ci sono storie che ti passano davanti, magari perfettamente narrate, ma che non toccano un capello e il giorno dopo quasi non ricordi di aver visto.
Non è così per la pellicola di Susanne Bier, regista dalla mano potente e delicata venuta dalla fredda e “sconosciuta” Danimarca.
In un mondo migliore ti attraversa l’anima, ti fa piangere, ti fa arrabbiare, ti fa chiedere.
Davanti a prepotenze, piccole o enormi e inaccettabili che siano, bisogna rimanere lucidi e giusti o diventare vendicatori e violenti come i nostri aggressori? Nella vita quotidiana fatta di isterie, prevaricazioni, ingiustizie, è un dubbio quanto mai attuale.
È il dubbio alla base di tante guerre.
Qui, a due passi dal nostro naso, per strada, al parco, negli scontri cittadini quotidiani, nel tassista preso a pugni a un incrocio, come a miglia di distanza, in un’Africa lontana dove cozzano con la stessa mostruosità bene e male.
“Susanne Bier indaga la nostra epoca con passione, forza visionaria e coraggio civile”, questa la motivazione che ha dato a In un mondo migliore il Gran Premio della Giuria al recente Festival del Film di Roma.
Ma la potenza del film danese è la sua capacità di arrivare duro e diretto anche oltre i cineasti, i critici e gli addetti ai lavori, tanto da aver vinto anche il Marc’Aurelio del pubblico.
Gli attori sono tutti di una bravura indimenticabile e le loro vicende sono le nostre: la solitudine, l’impotenza, un bisogno profondo di riconciliazione.
Afferro e mantengo dentro di me lo sguardo imperscrutabile e mai aperto a una solarità del dodicenne Christian (William Jøhnk Nielsen), il sorriso imperfetto del tenero ed emarginato Elias (Markus Rygaard), la tenacia disperata di sua madre Marianne (Trine Dyrholm), la coerenza idealistica e dolorosa di suo marito Anton, medico in un campo di rifugiati africano (Mikael Persbrandt).
Intanto la fotografia dalla luce diafana di Morten Søborg intaglia i visi, fissa le espressioni e, insieme alla sceneggiatura firmata Anders Thomas Jensen, contribuisce a regalare il film perfetto di questa fine anno.
Il soggetto è della stessa Bier e dell’amico e stretto collaboratore Jensen.
Con Dopo il matrimonio la regista danese era arrivata finalista agli Oscar 2007 per il Miglior film straniero.
In un mondo migliore è ancora candidato per la Danimarca agli Oscar 2011.


Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *