Edith Piaf la cantava con la sua voce appassionata e calda nel 1942, proprio quando io nascevo.
Ma, cresciuto, l’avevo forse sentita risuonare anche nell’eco screziata e frusciante della radio o del vinile e persino nel canticchiare di mia madre durante il lavoro domestico: La vie en rose è, certo, l’emblema di un’epoca, di un modello esistenziale, di un’atmosfera.
Tuttavia, vedere l’intera vita con lenti rosa alla fine stanca e fin sconcerta.
Questa sensazione mi accompagnava mentre percorrevo qua e là le pagine del Dizionario di teologie femministe, curato da due teologhe americane del Connecticut ed edito in italiano dall’alacre Claudiana di Torino con la consulenza di una teologa e di un teologo del nostro paese (in questa materia incandescente è necessario usare sempre il linguaggio “inclusivo”).
Intendiamoci, il volume è molto utile e quasi indispensabile per conoscere di prima mano la teologia femminista, sulla quale per altro siamo intervenuti più di una volta su queste pagine, consapevoli che la questione femminile ha registrato una presenza importante nella trama della storia recente del pensiero teologico (e non soltanto nell’orizzonte sociale, psicologico o filosofico).
Non è il caso, infatti, di documentare quanto una concezione maschilistica o patriarcale abbia pesantemente rivestito e condizionato il pensiero religioso del passato, a partire dalle stesse Scritture Sacre, immerse in un contesto “sessista”.
Tanto per esemplificare, Qohelet non esita a proclamare la donna «amara più della morte, tutta lacci, una rete il suo cuore, catene le sue braccia; chi è gradito a Dio la sfugge, ma chi fallisce ne resta catturato…» (7,26).
E il suo collega Siracide va anche più avanti, certo com’è che «è meglio la cattiveria di un uomo che la bontà di una donna» (42,14).
È, quindi, ovvio che una grande e faticosa operazione di rilettura ermeneutica di quelli e di altri testi religiosi, così come una revisione delle prospettive e degli stili pastorali siano necessarie.
In questo senso il monito continuo presente nelle voci di questo Dizionario non è da sbeffeggiare o da smitizzare in modo radicale, ma da considerare un po’ come una spina nel fianco delle stesse Chiese.
Molto cammino al riguardo è stato compiuto, sia pure nella differente calibratura dottrinale e pastorale delle diverse confessioni cristiane, ma un altro è ancora aperto, anche perché non è con un semplice decreto o con un pronunciamento pur autoritativo che si cancellano concrezioni secolari fatte di ideologia, di prassi e di costumi.
Che c’entra, allora, La vie en rose? C’entra nell’esasperata e parallela unilateralità di certe teologie femministe che colorano tutto di rosa (forse rigettando persino l’assegnazione di questo colore come “esclusivo”), nell’ansia di trasformare una deprecata his-story in una her-story.
Così, se prendiamo la prima voce, «Abbà/Padre», è ovvio che bisogna subito “salvare” Gesù, che usava indubbiamente questo appellativo: ma egli lo faceva in un «contesto antipatriarcale», «affermando un significato non-patriarcale» e «rovesciando l’idea stessa per porla al servizio della critica femminista del patriarcato e delle sue divinità».
La «Nascita verginale» di Gesù, tanto per proseguire negli esempi, «nelle teologie femministe o è rifiutata in quanto mito cristiano androcentrico che sostiene il patriarcato e denigra le donne» o, al contrario, è «l’inizio della fine dell’ordine patriarcale».
Persino l’apparentemente asettica «Archeologia» non svilupperà la sua vera identità «finché non saranno superati i suoi preconcetti tradizionali ed elitari» che puntano a «esaminare strutture e manufatti pubblici e monumentali, in cui predomina l’impronta maschile…
dirigendo la maggior parte delle sue energie verso i prodotti dell’atti vità maschile» e non ai contesti domestici (che, però, si riconosce essere ora fmalmente oggetto di analisi), tuttavia inesorabilmente scoprendo in essi la subordinazione al primato androcentrico.
È scontato che ben più incandescente sia la voce sui «Ministeri ecclesiastici e il culto», molto articolata ma con una netta opzione di principio: «Le femministe stanno mettendo in discussione tutte le forme gerarchiche, i ruoli tradizionali di leadership, la distinzione tra clero e laici, le forme, il linguaggio, le immagini di culto e spiritualità che non siano inclusive.
Sono oggetto di critica anche le definizioni della vita familiare e dei ruoli sessuali che stanno alla base dell’educazione religiosa».
E qui bisognerebbe invitare il lettore a seguire alcuni temi scottanti connessi – tutti destinatari di un lemma proprio – come famiglia, educazione religiosa, sacramenti, cura pastorale, ministero, liturgia e soprattutto le varie voci dedicate al “genere” (gender), sul quale però si deve registrare una notevole polimorfia di approcci, meno automatici rispetto all’impostazione del celebre asserto «On ne naît pas femme, on le devient» della de Beauvoir, che considerava il sesso come una mera costruzione socio-culturale e non biologico-naturale.
La notevole questione del «Linguaggio inclusivo» a cui sopra accennavamo, pur nell’indiscussa istanza che propone, tende a trascendere verso estremismi che scardinano i concetti e le verità teologiche sottese (è noto che il mezzo linguistico non è mai neutro e inoffensivo rispetto al contenuto).
Queste esasperazioni giungono al punto di avanzare perplessità anche nel chiamare Dio «Madre» oltre che «Padre»: «Ci si chiede, infatti, se Madre è sufficiente come unico nome femminile di Dio, dal momento che tale uso implica che le donne sono come Dio solo quando partoriscono e allevano figli».
Ripetiamo: «Numerosi sono i contributi positivi provenienti dall’esegesi, dalla teologia e dall’ermeneutica femminista» (e questa frase è desunta da un documento cattolico ufficiale, L’interpretazione della Bibbia nella Chiesa della Pontificia Commissione Biblica).
Soprattutto Giovanni Paolo II ha ribadito la necessità di una conversione della comunità ecclesiale nei confronti della donna e del suo “carisma” (in senso teologico).
Ripetiamo pure che questo Dizionario, nella sua qualità fenomenologica, è un sussidio significativo per conoscere il variegato orizzonte delle teologie femministe.
Detto questo, rimane l’impressione di essere di fronte a una sorta di sessuologia teologica che corre il rischio di procedere in modo parallelo all’approccio adottato dal detestato patriarcalismo fallocratico, scivolando in eccessi unilaterali, in parzialità smodate, in visioni che calzano appunto solo occhiali a lenti rosa, cadendo talora in quelle trappole che si denunciano.
Ha ragione la pastora battista Lidia Maggi quando scrive, nel suo Evangelo delle donne, un volumetto che esce in contemporanea al Dizionario e che è dedicato a una quarantina di figure femminili neotestamentarie: «La riscoperta della presenza femminile non venga appiattita quale strumento per rivendicare quote rosa all’interno delle Chiese: percorso legittimo, che dà voce all’altra metà del cielo, troppo spesso messa a tacere.
Ma la posta in gioco è ben più alta, di tipo teologico: custodire e difendere la rivelazione evangelica nella sua integralità…
C’è un’eccedenza dell’evangelo rispetto al nostro desiderio di essere valorizzate da Gesù.
Eccedenza non vuol dire che l’evangelo rema contro, ma che va oltre: anche oltre il riconoscimento del ruolo delle donne».
Letty M.
Russell e J.
Shannon Clarkson (a cura di), «Dizionario di teologie femministe», edizione italiana a cura di Gabriella Lettini e Gianluigi Gugliermetto, Claudiana, Torino, pagg.
546, € 47,00; Lidia Maggi, «L’Evangelo delle donne», Claudiana, Torino, pagg.
136, € 12,00.
in “Il Sole 24 Ore” del 12 settembre 2010
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