Il vescovo dell’ecumenismo e del dialogo religioso.
Ma anche il punto di riferimento pastorale, per più di trent’anni, di un’intera città.
Ed un ecclesiastico capace di svestire i panni “istituzionali” per mettersi in ascolto della sua comunità.
Malato di Parkinson, costretto da tempo in carrozzella, mons.
Alberto Ablondi è morto il 21 agosto scorso, nel reparto di rianimazione dell’ospedale di Livorno.
A dicembre avrebbe compiuto 86 anni.
Livorno città aperta.
Al dialogo Nato a Milano da una famiglia di umili origini (il nonno, lo zio e il padre avevano esercitato la professione di cuoco), si era laureato in Lettere con indirizzo archeologico nel 1947, lo stesso anno in cui fu ordinato sacerdote.
Nel 1950 prese una seconda laurea, in Filosofia; e nel 1955 la terza, in Giurisprudenza.
Alla dimensione intellettuale, Ablondi univa però in quegli anni una forte carica pastorale: fu parroco, insegnante di religione, assistente della Fuci e dei Laureati Cattolici.
Dopo il Concilio Vaticano II ricevette (1966) l’incarico di vescovo ausiliare di Livorno (a fianco di mons.
Emilio Guano, altro esponente di spicco del rinnovamento ecclesiale) ed amministratore apostolico di Massa Marittima.
Il 26 settembre 1970 divenne vescovo della città portuale.
Lo rimase per 30 anni, fino al 2000: anni durante i quali Ablondi divenne, all’interno dell’episcopato italiano, una delle punte più avanzate del dialogo ecumenico ed interreligioso.
E del dialogo con il mondo laico e con la sinistra.
Del resto, la cattedra di Livorno si prestava bene allo slancio umano e pastorale di Ablondi: città di forti tradizioni operaie e comuniste, a Livorno convivono da secoli diverse confessioni cristiane (ortodossi, cattolici di rito bizantino, armeno, maronita) e altre comunità religiose (numerosa quella ebraica, ma nutrita anche la presenza musulmana), all’interno di una cittadinanza cosmopolita, che porta tracce evidenti dell’integrazione avvenuta, nei secoli, tra diversi gruppi etnici (olandesi, inglesi, greci, francesi, portoghesi, corsi).
E particolarmente significativo ed intenso fu il rapporto di Ablondi con la comunità ebraica, che a Livorno ha una radicata e significativa presenza e dove Ablondi istituì, nel 1989, la Giornata dell’ebraismo – la prima iniziativa del genere, non solo in Italia – da celebrarsi il 17 gennaio di ogni anno all’inizio della Settimana per l’unità dei cristiani.
Simbolo del riavvicinamento tra ebrei e cattolici, uno dei frutti più evidenti della stagione postconciliare, fu la sua amicizia con il rabbino capo di Roma (ma nato e cresciuto a Livorno), Elio Toaff.
Ma Ablondi ebbe anche relazioni fraterne con numerosi esponenti del mondo musulmano.
Nel 1984 fu nominato presidente mondiale della Federazione Universale per l’apostolato Biblico; nel 1988 vicepresidente mondiale delle Società Bibliche.
Il 1984 fu anche un anno chiave per la vita ecclesiale livornese.
Quell’anno infatti, mons.
Ablondi convocò il sinodo diocesano, incentrato, non a caso, sul rapporto Chiesa-mondo e che contribuì al ripensamento del modo di essere Chiesa di altre diocesi italiane.
(valerio gigante) in “Adista” Notizie n.
68 del 18 settembre 2010 Fronte del porto Considerato, insieme a mons.
Luigi Bettazzi e mons.
Clemente Riva, tra i vescovi italiani più aperti e disponibili al confronto “a sinistra”, Ablondi fu una figura molto vicina al mondo del lavoro.
L’ex sindaco Gianfranco Lamberti ha ricordato infatti nei giorni scorsi che quando una fabbrica viveva un periodo di difficoltà “il vescovo era sempre presente”.
Nel 1989, ad esempio, Ablondi volle essere a fianco del leader dei portuali livornesi, Italo Piccini (suo amico personale, scomparso nel marzo di quest’anno), nella protesta contro i “decreti Prandini”, che davano avvio al processo di liberalizzazione del lavoro nei porti.
Anni dopo, nel 2002, ormai in pensione, fece tutto il possibile, per scongiurare la crisi dello storico cantiere navale Luigi Orlando e tutelare le centinaia di operai che vi lavoravano e le loro famiglie.
Intervenne, conducendo con sé il suo successore, mons.
Diego Coletti, al Consiglio Comunale che ebbe luogo, eccezionalmente, all’interno del Cantiere.
Una voce forte, ma isolata Sul fronte pastorale, nel 1993, Ablondi lanciò l’idea di un dialogo con i giovani che non consistesse più nel “fargli la predica” dall’alto, ma nel fare “due passi insieme”, come recitava il titolo della lettera che il vescovo inviò ai giovani della città, con lo scopo di attivare un dialogo aperto e fecondo anche con i più lontani dalla vita ecclesiale, a partire da una domanda essenziale: “Che cosa cercate?”.
Il resoconto dell’intreccio di questa relazione è contenuto in un volume, No, una predica no! Dialogo fra giovani e il vescovo Ablondi (Editrice Borla), che raccoglie le lettere dei giovani e le risposte del vescovo.
Firmati a titolo personale, o come gruppo, gli scritti affrontavano temi scottanti e problematici, come contraccezione, aborto, legame Dc-Chiesa, sessualità.
Nel 1995 Ablondi venne eletto numero due dei vescovi italiani (lo rimmarrà fino al 2000).
La sua presenza ai vertici della Conferenza episcopale rappresentava l’anima più conciliare e aperta dell’episcopato italiano.
Ma la sua restò una voce isolata dentro una Cei ormai egemonizzata dal card.
Camillo Ruini.
Così ad esempio, nel 1997, all’Assemblea ecumenica di Graz, Ablondi non riuscì ad evitare l’astensione della delegazione cattolica sul documento finale, per un dissenso su un passaggio dedicato al ruolo delle donne nella Chiesa, giudicato troppo aperto al tema dei “ministeri ordinati” (v.
Adista n.
53/97).
Non mancarono momenti difficili anche in diocesi, come quando, nel 1997, una donna dichiarò al settimanale Oggi di aver avuto una relazione con lui; o quando, tre anni più tardi, alla guida della sua auto, investì ed uccise una donna.
Dopo il pensionamento (lasciando l’incarico, in una lettera alla città che era una dichiarazione d’amore scrisse: “Resterò uno di voi”), mons.
Ablondi non abbandonò lo slancio pastorale, favorito anche da una successione, quella di mons.
Coletti, che si poneva sulla linea del suo magistero.
A Livorno fondò ed animò il Cedomei, il Centro di Documentazione del Movimento Ecumenico Italiano; continuò a scrivere e ad intervenire nel dibattito pubblico.
Diverso invece il rapporto con l’attuale vescovo, mons.
Simone Giusti, la cui azione, di segno nettamente opposto a quello di Ablondi, lo aveva progressivamente posto ai margini della vita diocesana (non a caso la diocesi non ha finora organizzato alcuna iniziativa per ricordare la figura e l’opera del vescovo scomparso).
Nel 2009 insieme ai suoi collaboratori, Ablondi fece partire, nella semiclandestinità ecclesiale, un progetto di una catechesi nuova, “una catechesi senza catechisti e anche senza catechismi”, fatta di fogli di riflessione da far circolare fra la comunità livornese, di un sito internet (http://nuke.versoildivino.it) e di incontri cui Ablondi partecipava in carrozzina.
Il materiale fu poi raccolto nello stesso anno nel libro A passo d’uomo verso il divino (Morcelliana 2009), un testo di riflessione teologica finito a sorpresa fra i bestseller della città, e che prendeva spunto dalla quotidianità per elaborare riflessioni su questioni anche spinose, come la sessualità, la malattia, la morte.
(valerio gigante) in “Adista” Notizie n.
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