in “Europa” del 10 settembre 2010 Quando, fra qualche giorno, il 19 settembre, Benedetto XVI beatificherà John Henry Newman, il papa non renderà soltanto il dovuto omaggio della Chiesa cattolica a un uomo che in vita, a causa della sua ricerca della fede vera, affrontò tante tribolazioni.
Indicherà anche un modello di vita cristiana e di slancio pastorale valido per l’oggi.
Nato nel 1801 e morto nel 1890, fervente anglicano e poi ministro della Chiesa d’Inghilterra, Newman nel 1845 si converte al cattolicesimo, due anni dopo è ordinato prete cattolico e nel 1879 è creato cardinale.
Ma dietro l’apparente linearità di questo percorso ci sono tante curve difficili, tanti ostacoli, tante incomprensioni.
Fin dall’inizio la vita del futuro cardinale è segnata dall’imprevisto e dal contrasto.
È uno studente brillante, ma a causa del troppo studio i suoi esami finali sono un mezzo fallimento.
Il voto è molto basso, ma dopo circa un anno dà nuovi esami e questa volta diventa insegnante all’Oriel College di Oxford.
Il suo ruolo è quello di tutor, con l’incarico di seguire un gruppo ristretto di studenti, ma ecco che Newman, poco più che ventenne, non si limita a trasmettere nozioni.
Per lui l’insegnamento può essere concepito solo come una parte dell’educazione, che è in primo luogo morale e spirituale.
Secondo la visione allora dominante si tratta di uno scandalo, e così gli studenti gli vengono sottratti.
Nel 1825 diventa pastore anglicano, si dedica alla parrocchia universitaria, tiene sermoni, e intanto incomincia a interrogarsi: è proprio nella Chiesa anglicana la strada giusta per raggiungere Dio e vivere da santi? Una prima risposta è positiva: la Chiesa d’Inghilterra, dice, è una sorta di “via media” tra il protestantesimo e la cattolicità, un giusto mezzo.
Ma nel corso degli anni si rende conto che questa via, nella pratica, non esiste, avverte che le interferenze dello Stato nella vita della Chiesa sono indebite e inammissibili.
Piano piano si avvicina alla Chiesa cattolica.
Il suo “traghettatore” è un prete italiano, il passionista Domenico Barberi.
La conversione è il frutto di questo lento cammino, come la traversata, dice, di un mare in tempesta.
Non volta le spalle agli anglicani, non rinnega nulla del passato, ma per gli ex confratelli è un traditore.
Lascia le certezze condivise per entrare in una minoranza disprezzata.
Abbandona la comodità e la reputazione per abbracciare la verità.
La barca arriva in porto, ma i problemi sono tutt’altro che finiti.
La stessa Chiesa cattolica fatica ad accogliere un personaggio sotto molti aspetti ingombrante.
Sia come fondatore dell’Università cattolica di Dublino sia come direttore del periodico cattolico The Rambler, Newman va incontro a contrasti e incomprensioni.
Nel diario annota: «Se prima la mia religione era desolata ma non lo era la mia vita, ora la mia religione non è più desolata ma lo è la mia vita».
In mezzo a tanti fallimenti (comprese le calunnie di un ex cattolico italiano, che gli costano una condanna per diffamazione), Newman deve anche guardarsi dai sospetti di entrambe le parti: così come alcuni anglicani sostengono che è sempre stato cattolico in segreto, alcuni cattolici dicono che non ha mai veramente abbandonato il protestantesimo.
Quando Leone XIII, ammiratore di Newman, succede a Pio IX, le nubi, per la prima volta, si diradano.
La porpora cardinalizia, inaspettata, è il sigillo a una vita coraggiosa e piena di passione per la verità, una vita dalla quale escono alcuni tratti distintivi del cristiano: la ricerca continua, l’incapacità di accettare il quieto vivere, il desiderio di diventare ponte nonostante l’accanimento di chi vuole ergere muri, la testimonianza personale, l’indissolubilità di parola ed esempio, la disponibilità al cambiamento, perché «qui sulla terra vivere è cambiare, e la perfezione è il risultato di molte trasformazioni».
Affascinato dal convertito Agostino, Benedetto XVI è da sempre affascinato anche dal convertito Newman.
È la conversione continua la via del cristiano.
Uno sviluppo ininterrotto, una maturazione.
Lungo la quale le difficoltà sono inevitabili.
Nel 1990, per il centenario della morte di Newman, il cardinale Ratzinger tiene a Roma una conferenza e svela che la teoria della coscienza, centrale nel pensiero del grande convertito, lo affascinò fin dal 1946, cioè dall’inizio dei suoi studi di teologia nel seminario di Frisinga, subito dopo la guerra.
Quando, nella Lettera al duca di Norfolk, Newman dice che in un ipotetico brindisi lui brinderebbe prima alla coscienza e poi al papa, non invita a cadere nella soggettività.
Al contrario, annota il futuro papa, Newman sostiene la «via dell’obbedienza alla verità oggettiva».
È in questo senso che la coscienza viene prima ed è anche il fondamento dell’autorità del papa.
Benedetto XVI, il pontefice che ha messo l’idea di verità al centro del suo insegnamento, non poteva non appassionarsi a Newman.
Anche perché, come racconta egli stesso, in quel 1946, quando incominciò a studiare teologia, lui e i suoi compagni avevano appena finito di sperimentare che cosa significa la negazione della coscienza.
Hermann Goering aveva detto del suo capo: «Io non ho nessuna coscienza! La mia coscienza è Adolf Hitler».
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