«Il vantaggio più grande del politeismo è nel fatto che il singolo si eriga il suo proprio ideale e derivi da esso la sua legge, le sue gioie e i suoi diritti», superando l’imperio di un’unica norma imposta da un’unica divinità e facendo sì che «un dio non sia più la negazione o la bestemmia di un altro dio!».
Era stato Nietzsche, con queste parole della Gaia scienza (1882), a inaugurare il revival del politeismo che, in un certo senso, aveva i suoi prodromi nella relativizzazione della verità propugnata dalla celebre parabola dei tre anelli incastonata nel poema drammatico Nathan il saggio (1779) di Lessing: uno solo dei tre anelli d’oro è autentico, ma è indistinguibile perché il padre, non volendo privilegiare nessuno dei suoi tre figli, ha clonato l’anello ereditario vero.
Su questa scia si era collocato Max Weber con la formula Polytheismus der Werte, che Francesco Ghia ha recentemente usato come titolo per una raccolta antologica di testi diversi del famoso sociologo tedesco (Max Weber, Il politeismo dei valori, Morcelliana, Brescia, pagg.
160, €14,00).
È curioso che in esergo alla sua introduzione lo studioso dell’Università di Trento abbia posto un distico dello scrittore viennese Erich Fried che recita: «Getta pure il tuo anello/ anche qui ci sono gli dèi».
La tesi di Weber è nota: il “disincanto del mondo”, che la razionalità moderna ha prodotto, ha sciolto la norma universale che tutelava i valori nella loro identità oggettiva e ha così creato un delta ramificato in cui ogni corrente porta il suo valore.
Nella società attuale non c’è più un solo Dio che proclama l’unicità dei valori morali, ma un pantheon di dèi che emettono oracoli diversi, creando inesorabilmente conflitti etici, proprio a causa della pluralità dei legislatori, delle leggi e dei codici di riferimento.
Le stesse sfere sociali – dalla politica all’economia, dall’arte alla scienza, dalla famiglia alle associazioni, fino alle stesse religioni – non sottostanno più al “monoteismo” di una sorgente unitaria, ma ciascuna è retta da un suo dio e «il conflitto tra gli dèi che presiedono ai singoli ordinamenti e valori è inconciliabile», anche se positiva è l’indipendenza degli statuti di ogni settore.
La celebrazione del neopoliteismo (che può avere tante iridescenze, come quella “cristologica” di Salvatore Natoli o quella più ingenua e ironica del recupero mitologico operato dall’attuale scrittore finlandese di culto, Arto Paasilinna, o la più tradizionale e generica apologetica della tolleranza propugnata nel Génie du paganisme dell’antropologo Marc Augé del 1982, opera apparsa in italiano nel 2002 presso Bollati Boringhieri) ha avuto vari liturghi ai nostri giorni, talora solo come evocazione gloriosa e nostalgica del passato classico: penso alle pagine raffinate delle Nozze di Cadmo e Armonia (1988) di Roberto Calasso.
Altre volte si è accusato il monoteismo di “dualismo”, avendo creato un baratro tra la trascendenza divina, unica, solitaria e intangibile, e l’immanenza mondana e umana, limitata e caduca.
È questo il capo d’accusa contro le religioni monoteistiche avanzato dal filosofo della nouvelle droite, Alain de Benoist, che invita la cultura contemporanea a «guarire il mondo dalla rottura monoteistica», restituendogli quella sacralità e “divinità” che il paganesimo politeista gli assicurava e che il cristianesimo gli ha sottratto.
Per dirla con un altro intellettuale che si è interessato al tema, Francesco Remotti, «il politeismo – così connessionista, possibilista, pluralista – non sarebbe niente male per la “modernità” e la voglia di “modernizzazione”».
Ebbene, se vogliamo risalire alle sorgenti del monoteismo, non possiamo non rimandare al cosiddetto “comandamento principe” decalogico: Lo’ jihjeh-leka ‘elohim ‘aherim ‘al-panaj, «non avrai altri dèi di fronte a me» (Esodo, 20,2), frase tutt’altro che facile nella sua formulazione apparentemente “enoteista” più che “monoteista” (si ha, infatti, un appello a una scelta “esclusiva” nei confronti delle altre divinità).
Essa sarà precisata non tanto in sede teorica, piuttosto ardua per la mentalità semitica che ama il procedimento gnoseologico simbolico, quanto in ambito pratico come “jahvismo”, ossia con l’affermazione dell’unicità personale di Dio, dotato quindi di una personalità espressa nel nome (JHWH), al contrario dell’idolo che è solo illusorietà divina, simile al miraggio o all’equivoco.
Ora, attorno alla radice biblica del monoteismo s’è recentemente impegnato in modo particolare un egittologo di Heidelberg, Jan Assmann, che, alla maniera di Freud ma con ben altro spessore filologico e con ben diverse finalità, incrocia il politeismo egizio con l’unicità divina dell’ebraismo.
Il suo Dio e gli dei (Il Mulino, Bologna, pagg.
214, €15,00; si vedano anche i precedenti Mosè l’egizio, Adelphi, 2000 e Non avrai altro Dio, Il Mulino, 2007), un testo tutto sommato breve ma denso e suggestivo, insegue l’evoluzione della novità radicale e rivoluzionaria del monoteismo proprio a partire dalla vetta sinaitica che si erge sull’immensa pianura politeistica egizia.
E giustamente fa notare che in realtà l”unicità” di Dio non è una categoria adatta a spiegare l’anima profonda della visione teologica ebraica; lo è invece il concetto di “differenza”, di alternativa fondamentale rispetto agli altri dèi.
Per questa via, che egli illustra in un continuo contrappunto dialettico con la religione e la cultura faraonica – la quale in verità non era biecamente politeistica, ma si orientava verso una sorta di monoteismo evolutivo e inclusivo per cui “tutti gli dèi erano uno” o almeno facce diverse dell’unica divinità -Assmann intravede non solo l’originalità di Israele, ma anche le ricadute sociali e politiche di un tale “monoteismo” jahvistico.
Esse riguardano la separazione tra stato e religione e la funzione “assiale” di una simile concezione (la terminologia, come è noto, è desunta da Jaspers che aveva parlato di «età assiale» da collocare attorno al 500 avanti Cristo, vera e propria svolta capitale della civiltà).
C’è, però, da notare che la «distinzione mosaica» (la differenza a cui sopra si accennava) agli occhi di Assmann rappresenta un rischio, cioè che si costituisca in «controreligione», esclusiva nei confronti delle altre e intollerante.
Si spiega così il «linguaggio biblico della violenza» che ha nel herem, ossia nell’anatema anti-idolatrico il suo emblema.
L’egittologo, perciò, in alcuni suoi scritti, senza divenire come altri intellettuali un apologeta del politeismo, preferisce solo attenuare le pretese veritative monoteistiche aggrappandosi al minimo comune denominatore di una pallida e pluralistica «religione universale valida per tutti gli uomini».
Con l’estenuazione, però, della trascendenza della verità e della sua “oggettività” strutturale, si corre il rischio di una dispersione babelica che non assicura di per sé la convivenza pacifica: è ciò che si sperimenta ai nostri giorni proprio con una religione apparentemente “politeista” com’è l’induismo.
Bisogna poi riconoscere che l’uso di categorie come “monoteismo” e “politeismo” è di genesi occidentale ed è tutto sommato recente (i termini sono stati coniati nel Seicento): siamo, quindi, in presenza di uno stampo ermeneutico che non riesce a contenere e a coagulare l’incandescenza delle concezioni simboliche poste alla base della teologia.
Per questo, come suggerisce Assmann, non di rado ciò che a livello popolare e sociale è una molteplicità della divinità, a livello radicale può essere un modo simbolico per parlare delle differenti qualità della divinità.
Detto in altri termini, si tratta spesso di un politeismo relativo, linguistico e immaginifico, più che di un politeismo assoluto e metafisico.
Si deve, così, ritornare piuttosto al concetto “differenziale” della divinità, come appunto ribadiva Assmann.
Ma ritorniamo al monoteismo biblico.
In questa concezione, Dio non è un’energia cosmica né un’oscura entità indefinibile né una vaga galassia divina, bensì una persona che comunica e si comunica.
Il monoteismo è, perciò, un atto di svelamento personale di quel Dio che dichiara attraverso Isaia e Paolo: «Io mi sono fatto trovare anche da quelli che non mi cercavano, mi sono manifestato anche a quelli che non mi invocavano» (Romani, 10, 20).
Affermava il filosofo ebreo Emmanuel Lévinas in un intervento raccolto nel suo volume collettaneo La difficile libertà (Jaka Book, 2004): «Il monoteismo non è un’aritmetica del divino.
E’ piuttosto il dono, forse soprannaturale, di vedere l’uomo simile all’uomo sotto la diversità delle tradizioni storiche che ognuno porta avanti: è una scuola di xenofilia e di antirazzismo».
La considerazione del pensatore francese coglie un elemento rilevante.
L’unico Dio significa l’unico uomo, ssia la radicale uguaglianza delle creature uscite dalle mani dell’unico Creatore.
Non ci sono “figli di un dio minore”, là dove unico è il Signore di tutti, amoroso verso tutti i suoi figli.
Significative sono le parole di Paolo al discepolo Timoteo: «Dio nostro salvatore vuole che tutti gli uomini siano salvati e arrivino alla conoscenza della verità, perché uno solo è Dio» (1 Timoteo 2,3-5) Il monoteismo è, perciò, strutturalmente compaginato col tema dell’uguaglianza umana e, come suggeriva ulteriormente Lévinas, «obbliga l’altro a entrare nel discorso che lo unisce a me», essendo comune il tessuto umano che ci unisce, che ci affratella e che ci rende anche tutti indigenti sia di Dio sia dell’altro.
C’è, però, un’ulteriore considerazione da fare.
Già la tradizione giudaica affermava che Dio, a differenza di quanto accade col conio monetario, ci ha “coniati” tutti con lo stesso stampo (l’umanità, l”‘ adamicità” comune, l’identica dignità) ma ci ha anche fatti tutti diversi.
È significativo che Paolo, dopo aver esaltato in quel passo «l’unico Dio», introduca lo specifico cristiano: «uno solo è il mediatore fra Dio e gli uomini, l’uomo Gesù Cristo».
Anche per il monoteismo unità e pluralità sono due poli necessari che devono essere in interazione e in contrappunto e non in dialettica e opposizione.
Se viene meno questo equilibrio, si precipita o nell’esclusivismo integralistico o nell’anarchia relativistica.
L’unico Dio che ha creato l’unica umanità assicura l’uguaglianza; il Dio infinito che crea la ricchezza sempre nuova degli uomini e della donne tutela la variegata bellezza della diversità.
Come diceva Gandhi, «la verità è come il diamante: è una, ma ha molte facce».
La stessa teologia dovrebbe ritrovare la comunione nell’unico Dio e Salvatore, pur procedendo su percorsi diversificati, in attesa che “Dio sia tutto in tutti” (1 Corinzi 15, 28).
Capitale è allora il dialogo in cui l’armonia può nascere tra voci di timbro diverso, dotate di un’identità unica e non cancellabile nella vaghezza del sincretismo.
L’unico Signore ci svelerà alla fine la piena verità nascosta che la creaturalità fragile e peccatrice dell’uomo incrina e offusca.
Ce lo ricorda anche il Corano in un passo suggestivo: «Se Iddio avesse voluto, avrebbe fatto di voi una comunità unica, ma non ha fatto questo per provarvi in quello che vi ha dato.
Gareggiate, dunque, nelle opere buone perché a Dio tutti tornerete e allora egli vi informerà di quelle cose per le quali ora siete in discordia» (5, 48).
In attesa di quel giorno supremo, dobbiamo ritrovare la “lingua sacra” del dialogo e della comunione, che si può perdere col politeismo babelico.
È ciò che suggerisce rabbi Pincas in uno dei famosi Racconti dei Chassidim raccolti nel 1950 dal filosofo Martin Buber: «Prima della costruzione della torre di Babele tutti i popoli avevano una lingua sacra in comune, in più ciascuno aveva il proprio linguaggio…
Ciò che Dio fece quando li punì, fu di togliere loro la lingua santa».
Da un lato, c’è un “linguaggio proprio”, specifico di ogni comunità religiosa, ma d’altro lato, c’è quel “linguaggio sacro” che è la lingua materna dei tre monoteismi, quella insegnata dal Dio padre comune.
Nella storia delle religioni entrambe sono necessarie.
in “Il Sole 24 Ore” del 29 agosto 2010
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