Non è stato solo il Sinodo «delle benedizioni alle unioni gay».Certo, il pubblico ha gremito l’Aula sinodale (troppo piccola, ormai, per un’assemblea di queste proporzioni: si è parlato anche di questo) soprattutto in occasione dei dibattiti su questo tema.
Come ogni anno, tuttavia, i lavori hanno spaziato lungo tutto lo spettro della vita delle nostre chiese.
Le difficoltà sono numerose e le note preoccupate abbondano.
Quello che certamente non manca è la voglia di discutere: troppo spesso, pare di poter dire, ciò accade in modo abbastanza confuso e, come pudicamente osservava, in privato, un ospite tedesco, «non del tutto strutturato», ma sempre con grande passione per un modello di chiesa non gerarchico né clericale.
Siamo orgogliosi di questo nostro modo di essere.
Quando però tale orgoglio tende ad andare sopra le righe, c’è chi sa rimettere le cose a posto: lo ha fatto, a esempio, la Moderatora, ricordando che la lettura comunitaria e personale della Bibbia, oggi, non è affatto un monopolio protestante: anzi, siamo noi a dover imparare da altri, anche a questo riguardo.
Un altro lampo ecumenico è stato l’intervento, di alto profilo, del vescovo di Pinerolo, mons.
De Bernardi, autocritico, teso all’ascolto, esplicito e al tempo stesso molto discreto.
In tempi ecumenicamente deprimenti, ciò è, semplicemente, edificante.
Ma il dialogo deve andare oltre.
Solo un esempio.
Il Sinodo ha accolto un documento sulle questioni etiche legate alla ricerca sulle cellule staminali, preparato da una commissione che da molti anni lavora su queste tematiche.
In quel testo, non si lanciano proclami, bensì si argomenta.
Sarà possibile discuterne, tra chiese diverse, nel merito, e non a colpi di slogan (vita contro morte, Adamo contro Frankenstein ecc.)? Un Sinodo multicolore Il Sinodo, ormai, è multicolore, nelle presenze, nei culti, forse un po’ meno negli interventi (a parte,come diremo, alcune occasioni…).
«Essere chiesa insieme» è ben più di uno slogan o dell’ennesima sigla (Eci, appunto): si tratta invece, con ogni probabilità, della sfida decisiva dei prossimi decenni.
Sembra farsi largo la convinzione che il confronto tra le sensibilità e le culture debba articolarsi intorno alla lettura comune della Scrittura.
Che vi siano tradizioni, sensibilità e metodi diversi è chiaro; e che questo determini difficoltà di rilievo non può né deve stupire.
Un intenso lavoro, tuttavia, è già in corso (si pensi soltanto al programma interculturale per la formazione dei predicatori, coordinato da Corinne Lanoir e Yann Redalié), Tavola valdese e Opcemi sono, con ogni evidenza, strenuamente impegnate su questo fronte, così come la Federazione giovanile evangelica italiana (Fgei).
In questo, le nostre chiese possono contare sul patrimonio di esperienza accumulato dalla Federazione delle chiese evangeliche in Italia (Fcei).
Certo, i fatti corrono più velocemente delle strategie ecclesiastiche e siamo tutti, sempre, impreparati.
Un motivo di più per sostenere nella preghiera quanti, dai dirigenti ecclesiastici ai giovani candidati al ministero, sono in prima linea su questo fronte.
Pochi membri e pochi soldi L’emorragia di membri di chiesa continua: 243 in meno nell’ultimo anno, l’equivalente di una chiesa di medie proporzioni.
Parallelamente, aumentano le difficoltà finanziarie: non solo non si raggiungono gli obiettivi, ma le contribuzioni del 2009 sono state inferiori a quelle dell’anno precedente e c’è il rischio che il tonfo si ripeta.
Solo pochi anni fa, nell’aula sinodale risuonavano spesso banalità del tipo: «il problema non sono i numeri».
Oggi, se non altro, siamo più realisti.
I numeri sono, come minimo, la spia di un problema drammatico.
C’è ancora chi si sforza di minimizzarlo, compiacendosi per altri segnali («diminuiscono i membri, ma cresce il numero di coloro che destinano a noi 1’8 per mille»; le nostre prese di posizione su temi etici suscitano interesse; e simili), ma la consapevolezza dell’emergenza è in crescita.
Certo, la chiesa esiste per predicare l’evangelo e non per autoriprodursi; che, però, senza membri non ci sia nemmeno l’annuncio, non è una sofisticheria teologica particolarmente oscura.
Il Sinodo l’ha capito.
E ha anche capito che la faccenda ha a che vedere con una difficoltà di tipo spirituale, legata alla disponibilità ad accogliere l’evangelo come elemento che trasforma la vita, raccoglie la comunità, induce a pregare, a cantare, a impegnare il tempo e il denaro.
Qui c’è molto da lavorare.
Le benedizioni delle unioni «omoaffettive» Si ha un bel dire che la faccenda non può essere ridotta all’alternativa sì/no.
La verità è che il semplicismo non è monopolio dei giornali.
L’alto tasso di emotività investito in questo dibattito non ha sempre favorito il rigore dell’argomentazione, né la capacità di comprendere fino in fondo il punto di vista contrario al proprio.
Fortunatamente la Commissione d’esame ha presentato un ordine del giorno articolato ma chiaro.
Le chiese in ricerca su questo tema sono invitate a procedere secondo quanto la responsabilità pastorale consiglia loro.
Verosimilmente, dunque, accadrà che nelle nostre chiese si celebrino benedizioni di unioni tra persone dello stesso sesso.
La votazione è stata assai chiara, il Sinodo non si è affatto «spaccato».
È vero invece che gli interventi contrari alla decisione poi assunta sono stati molto forti e, in gran parte, provenienti da fratelli africani.
Il dibattito non è affatto chiuso.
A tutte e a tutti è chiesto un notevole senso di responsabilità: lasciar cadere le provocazioni, ascoltare l’altro prima di parlare (più di quanto sia accaduto in Sinodo, questo mi sentirei di dirlo), non contrapporre slogan a slogan, soprattutto pregare, «favorevoli» e «contrari» insieme, ricordando che, in questa ricerca non siamo soli.
Ci sono quanti tra noi, italiani e immigrati, temono derive pericolose, ci sono cattolici, ortodossi, evangelicali che appaiono anch’essi preoccupati e a tratti non particolarmente amichevoli; ma ci sono anche le chiese sorelle che da tempo si sono mosse in direzioni analoghe.
Poi c’è il Signore, che magari strilla poco, ma ascolta molto.
E giudica, sia .i «favorevoli» sia i «contrari».
Se ce ne ricordassimo, il più sarebbe già fatto.
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