Si sta svolgendo a Ravenna la iv edizione della Scuola estiva internazionale in studi danteschi promossa dall’università Cattolica del Sacro Cuore in collaborazione con il locale Centro dantesco dei frati minori conventuali.
Dalla relazione che chiuderà la Summer School pubblichiamo una sintesi curata dall’autore per il nostro giornale.
La terza cantica del poema dantesco e l’esperienza del “beato regno” che in essa viene rappresentata hanno uno statuto del tutto speciale, solo apparentemente simile a quanto sperimentato precedentemente dal personaggio e raccontato dal poeta nelle prime due cantiche.
Per questo, fin dal primo cielo, quello della Luna, si rende necessario svelare il segreto strutturale che giustifica l’esperienza paradisiaca di Dante e tutta la poesia della terza cantica.
Nel cielo della Luna appare a Dante un primo gruppo di anime beate (Paradiso, iii).
Una fra queste, Piccarda Donati, offre a Dante le prime ampie spiegazioni sulla nuova realtà paradisiaca e sulle sue leggi.
Piccarda allude all’esistenza di una gerarchia di differenti livelli di beatitudine pur nella indifferenziata gioia paradisiaca, un più e un meno, che sembra contrastare con la uniforme perfezione della vita beata.
Ma la beata spiega anche che il senso profondo di questa condizione è la piena adesione a Dio e alla sua volontà: i beati desiderano e amano esattamente ciò che corrisponde alla volontà di Dio e gioiscono per il conformarsi a questa volontà.
Tuttavia la beata insiste sulla gradualità del Paradiso (“beata sono in la spera più tarda”, v.
51; “questa sorte che par giù cotanto”, v.
55) ma segnala anche la corrispondenza fra la condizione dei beati e la loro vita terrena, indicando la causa della collocazione più bassa di questo primo gruppo di beati nell’essere venuti meno ai voti.
E Dante è subito colto da due dubbi, con la proposizione dei quali si apre il iv canto, deputato a svelare il principio strutturale che regola il regno paradisiaco.
Uno dei due dubbi riguarda il fatto che si possa esser beati pur avendo mancato a dei voti, e concerne dunque le anime appena incontrate, ma l’altro è più importante e pericoloso e riguarda la natura stessa del Paradiso.
Infatti Dante potrebbe pensare che, avendo incontrato queste anime nel cielo della Luna, questo sia il luogo assegnato loro per l’eternità.
In particolare Dante penserebbe di veder realizzato quanto proposto da Platone nel Timeo, cioè che le anime dimorano nelle stelle prima di essere assegnate a un corpo e scendere nella vita terrena, e infine fanno ritorno alla loro stella di origine dopo la morte.
Beatrice decide di affrontare per primo proprio quest’ultimo dubbio.
Quella che è apparsa a Dante, spiega subito Beatrice, non è la vera realtà del Paradiso.
Il vero Paradiso è l’Empireo: il cielo di luce puramente intellettuale posto “al di là” dei nove cieli corporei.
Le più alte creature angeliche e i sommi fra i beati hanno dunque la loro sede autentica nello stesso cielo in cui soggiornano anche gli spiriti che ora sono apparsi a Dante nel cielo della Luna e che pure nella gerarchia celeste occupano il grado più basso.
Le differenze nella beatitudine sono infatti puramente interiori, nella percezione, differente per ciascuno, e per alcuni maggiore per altri minore, dello Spirito Santo dentro di sé: “Ma tutti fanno bello il primo giro / e differentemente han dolce vita / per sentir più e men l’etterno spiro” (iv, 34-36).
Il Paradiso è dunque una realtà puramente spirituale, intelligibile.
L’Empireo, il decimo cielo, ma “il primo giro” dalla prospettiva celeste, è la sede autentica dei beati, degli angeli, di Dio: una realtà di luce non corporea ma spirituale, non sensibile ma intellettuale.
Dante giungerà, al termine dell’ascesa, dopo un itinerario di graduale conoscenza e progressivo accrescimento delle facoltà, a vedere questa realtà, e questo cielo sarà allora definito il “ciel ch’è pura luce: // luce intellettüal, piena d’amore; / amor di vero ben, pien di letizia; / letizia che trascende ogne dolzore” (xxx, 39-42).
Ma allora, se tutti i beati stanno nell’Empireo, e la sola differenza è questa puramente spirituale e interiore, perché Piccarda e gli altri spiriti sono apparsi nel cielo della Luna? Beatrice non formula questa domanda, ma è evidente che essa deve nascere nella mente del lettore, e così segue la spiegazione secondo cui i beati incontrati nel cielo della Luna si sono mostrati qui, non perché questo cielo sia destinato loro come sede, ma per indicare attraverso un segno sensibile la condizione celeste meno elevata: “Qui si mostraro, non perché sortita / sia questa spera lor, ma per far segno de la celestïal c’ha men salita” (iv, 37-39).
E la ragione di ciò, spiega Beatrice, è che è necessario comunicare così alla mente umana, in quanto solo a partire dalle percezioni dei sensi riceve gli elementi che poi costituiscono la base per la conoscenza intellettuale: “Così parlar conviensi al vostro ingegno, / però che solo da sensato apprende / ciò che fa poscia d’intelletto degno” (iv, 40-42).
Per questo la realtà paradisiaca deve essere presentata a Dante in forma mediata, attraverso immagini: i beati, che soggiornano sempre nel cielo Empireo, scendono nei singoli cieli astronomici per accompagnare l’ascesa del pellegrino.
Si costituisce in questo modo un doppio movimento verticale: il divino e il paradisiaco vengono incontro all’uomo scendendo verso il basso, mentre l’umano muove verso il paradisiaco e il divino ascendendo verso l’alto.
La costruzione dell’avventura paradisiaca di Dante è dunque una grande immagine che ha la funzione di rendere almeno in parte comprensibile la realtà spirituale del Paradiso al viaggiatore celeste, che è un uomo vivente.
In tal modo anche l’ascesa paradisiaca si può realizzare e può essere raccontata come un viaggio suddiviso in diverse tappe, di cielo in cielo, interrotto da incontri e dialoghi con le anime.
Le immagini sono dunque necessarie, ma devono essere intese come un cammino da percorrere, non la meta alla quale fermarsi.
Così la verità del Paradiso dantesco sarà parziale e metaforica, un’autentica scala.
Solo al termine del percorso la verità potrà essere conosciuta pienamente dal pellegrino, che vi è giunto accettando umilmente di passare attraverso i gradi della conoscenza sensibile, percependo solo i segni della vera realtà.
Le affermazioni di Timeo nel dialogo platonico devono allora essere interpretate in un modo non strettamente letterale, ma sottoposte a una lettura allegorica, nella quale verrebbero a intendere che ai cieli deve essere attribuito il merito, positivo o negativo dell’influenza esercitata sugli individui, sui loro caratteri, sui loro talenti, sulle disposizioni a certe attività.
L’astrologia è un aspetto importante della cultura medievale ed è accolta pienamente anche da Dante, che pure rifiuta ogni determinismo astrologico, in nome del principio del libero arbitrio.
Ma il fatto di aver richiamato questo motivo qui in Paradiso, iv, nel quadro delle discussioni sulla struttura del Paradiso come si mostra a Dante, introduce implicitamente un principio che regge la rappresentazione dantesca del regno.
Le anime dei beati, che soggiornano sempre nell’Empireo, scendono e si mostrano a Dante personaggio nei cieli dei sette pianeti, ogni gruppo in un cielo diverso, per manifestare sensibilmente la loro diversa condizione nella realtà puramente spirituale e intelligibile della beatitudine.
E tale diversa condizione è dovuta alla diversità della loro condotta terrena: i beati si manifestano a Dante nel cielo che li ha maggiormente influenzati nella loro vita terrena, offrendo così una rappresentazione sensibile sia della loro condizione spirituale nel Paradiso, sia dei caratteri eminenti della loro condotta sulla terra.
In questo modo il Paradiso, che sarebbe irrappresentabile e indicibile alla lingua umana, nella sua pura intelligibilità, si adatta a presentarsi a Dante personaggio in modo significativo e comprensibile, e tale da offrire al poeta una materia varia e articolata, dotata di senso immediato, ma suscettibile di profonde interpretazioni spirituali.
E in questo modo la materia paradisiaca può essere esposta con modalità non troppo dissimili rispetto a quelle dell’Inferno e del Purgatorio: anche qui assisteremo a un viaggio suddiviso in tappe, di cielo in cielo; e anche qui in ogni singolo cielo incontreremo delle anime raggruppate secondo un criterio coerente, ancorato alle dottrine della filosofia e della teologia morale.
Insomma il Paradiso si snoda attraverso una struttura narrativa non troppo diversa da quella delle cantiche precedenti: il racconto di un viaggio attraverso i singoli cieli, come nell’Inferno attraverso i cerchi, i gironi, le bolge, e nel Purgatorio attraverso le cornici del monte.
E leggendo i primi 29 canti del Paradiso ci dimentichiamo, per la forza immaginativa della poesia, che Dante personaggio non sta visitando il vero Paradiso, ma una sorta di rappresentazione allegorica, di grande metafora, come un teatro celeste nel quale i beati scendono dal vero Paradiso per “fare segno”, in questi modi sensibili e perciò comprensibili a Dante e ai suoi lettori, di una realtà altrimenti inconcepibile e inimmaginabile.
di Giuseppe Ledda (©L’Osservatore Romano – 27 agosto 2010)
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