Per quanto oscuri e incerti possano apparirci i nostri tempi, certamente non lo sono quanto lo fu per il regno di Giuda il primo secolo dell’era cristiana: il mondo descritto nei Vangeli, oltre che nelle fonti rabbiniche e in quelle storiche, un paese sotto il dominio dei romani, dilaniato dalle lotte tra sadducei, farisei ed esseni.
Gli anni in cui il cristianesimo si separava e distingueva dall’ebraismo, quelli della guerra scatenata dagli zeloti contro i romani e dell’abbattimento del Tempio di Gerusalemme nel 70 d.C., con cui la tradizione fa iniziare la diaspora ebraica.
Un momento per gli ebrei catastrofico, tanto da essere ancor oggi commemorato con il digiuno nel giorno della distruzione del Tempio, il 9 del mese ebraico di Av.
Eppure, da quella catastrofe il mondo ebraico seppe rinascere, sia pur a prezzo di una profonda trasformazione.
Fu una vera e propria resurrezione e chissà che non possa ancor oggi insegnarci qualcosa, nella crisi generale che viviamo? L’autore di questa resurrezione non fu né un politico né un sovrano, ma un semplice studioso, Johanan ben Zakkai.
Una figura storica, anche se le uniche fonti che ne parlano, i testi talmudici, lo avvolgono in un’aura mitica.
Nasce intorno all’inizio dell’era cristiana, contemporaneo quindi di Gesù, ma anche di Flavio Giuseppe, di Vespasiano e di Tito.
Era uno dei leader della comunità farisaica, di coloro cioè che i Vangeli paragonano a “sepolcri imbiancati”: intellettuali, maestri della Legge, rigorosissimi dal punto di vista dell’osservanza ma aperti alle interpretazioni della Legge orale.
Erano espressione delle classi medie urbane, mentre i sadducei erano espressione del ceto più elevato ed erano numerosi tra i sacerdoti impegnati nel culto del Tempio.
Vicini ai farisei dal punto di vista dottrinale, ma contrari ad ogni impegno nel mondo, che consideravano irrimediabilmente corrotto, erano gli esseni.
A questi conflitti, al tempo stesso religiosi e sociali, si aggiungeva quello, interno anche agli stessi farisei, tra quanti ritenevano che si dovesse vivere in pace sotto la dominazione romana e gli zeloti, che nel 66 scatenarono la guerra contro Roma.
Certamente, ben Zakkai non condivideva la posizione estremista degli zeloti, dato che durante l’assedio romano di Gerusalemme, tra il 68 e il 70 d.C., egli riuscì, fingendosi morto e facendosi trasportare dentro una bara dai suoi discepoli, a uscire dalla città e a passare nel campo dei Romani.
Portato dal loro comandante, Vespasiano, gli avrebbe profetizzato l’ascesa al trono imperiale, chiedendogli al tempo stesso la possibilità di fondare una sua scuola a Yavne, città in mano ai romani e divenuta all’epoca rifugio dei giudei filo-romani.
Nella sua trilogia su Flavio Giuseppe, il romanziere Lion Feuchtwanger lo descrive a colloquio con Vespasiano come «un giudeo vecchissimo, molto piccolo, molto ragguardevole, i cui occhi azzurri spiccavano con strana freschezza nel suo volto tutto rughe incorniciato da una barbetta stinta».
Fu così, nascosto in una bara, che il rabbino Ben Zakkai passò dalla parte dei romani, anche se motivato dalla volontà di salvare non se stesso ma il giudaismo.
Fu da quella bara che risuscitò il giudaismo distrutto.
Un altro personaggio, in quegli stessi anni, fece qualcosa di molto simile: Flavio Giuseppe.
Anch’egli sfuggì alla guerra, di cui era uno dei capi, passando dalla parte dei romani, e ottenne salva la vita profetizzando a Vespasiano la sua assunzione all’impero.
Visse a Roma, nell’orbita dei Flavi, e fu uno dei massimi storici dei suoi tempi.
Nell’opera di Flavio Giuseppe, ben Zakkai non è mai nominato, come Flavio Giuseppe non lo è nei testi rabbinici.
Due profezie, dunque, due diserzioni, una rimasta nella memoria ebraica come un tradimento, l’altra come una redenzione; l’uno, ben Zakkai, amato quanto odiato fu l’altro, Flavio Giuseppe.
Che fu poi, sia detto per inciso, il vero autore della famosa profezia, che i testi rabbinici hanno attribuito, mutandone il segno, a Johanan ben Zakkai.
Ambedue operarono per preservare il giudaismo: Flavio Giuseppe, senza troppo riuscirci, con i suoi scritti; ben Zakkai con la sua scuola, che ben presto divenne molto più che un centro di studi, ottenendo dai vincitori il riconoscimento d’importanti funzioni giudiziarie e amministrative.
Yavne divenne la culla dell’autonomia ebraica.
E anche, scrive uno storico di oggi, «una fortezza contro l’oblio».
«Da allora in poi – scrisse Freud in un brano di uno dei suoi libri più intriganti, Mosè e il monoteismo – furono la Sacra Scrittura e l’impegno intellettuale ad essa dedicato che mantennero unito il popolo disperso».
È questo il giudaismo che si è tramandato nei duemila anni successivi, un giudaismo che deriva in linea diretta dalla scelta di ben Zakkai e dei suoi seguaci: la sostituzione di un culto fondato sui sacrifici del Tempio con un culto fondato sulla lettura e l’interpretazione del testo sacro, sull’insegnamento.
La sostituzione del sacerdote con il saggio, il rabbino.
Un giudaismo, aggiungiamolo, che non sopravvisse soltanto alla distruzione del suo stato e alla dispersione del suo popolo, ma anche alla concorrenza della nuova religione, il cristianesimo, che si affermava con grande forza in seno all’antica.
La strada scelta da Johanan ben Zakkai era una strada molto stretta.
Se Vespasiano non gli avesse concesso Yavne, sarebbe stato dimenticato o al massimo sarebbe passato alla storia come una versione un tantino meno spregiudicata di Flavio Giuseppe.
Ma anche la concessione di Yavne da parte di Vespasiano non garantiva che la sua iniziativa avrebbe portato alla sopravvivenza dell’ebraismo e non ne avrebbe invece soltanto accompagnato il declino.
A portare il suo progetto al successo furono innanzitutto la sua straordinaria consapevolezza che il vecchio mondo stava per essere distrutto.
Dico straordinaria, perché intorno a lui nessuno lo aveva capito, neanche quelli che, come gli esseni, da quel vecchio mondo si erano tenuti lontani e che ora ne accusavano le colpe nella caduta.
No, il vecchio rabbino, preferì rischiare di perdere la faccia passando al nemico piuttosto che chiudersi in una torre d’avorio a piangere sul passato, rinunciando a combattere.
Conoscete qualcuno, oggi, in questo nostro mondo, che di fronte al perdersi di tutti i valori in cui è nato e cresciuto sia davvero capace di guardare avanti senza recriminazioni o fughe dalla realtà? Ma ciò che più rende la storia di Johanan ben Zakkai esemplare anche per noi è il fatto che la ricostruzione a cui diede impulso fu tutta fondata sull’interiorità: lo studio, la morale, il pensiero, la preghiera.
Il rinnovamento del giudaismo dopo il 70 fu, innanzitutto, un rinnovamento interiore.
Implicò una ricostruzione delle coordinate mentali, culturali, religiose.
Una rivoluzione culturale, se ci è lecito adoperare questa locuzione per un rivolgimento sommesso e pacifico, non tanto diversa da quella rappresentata dal cristianesimo.
Certo, ben Zakkai pianse la distruzione del Tempio, la cui notizia lo raggiunse a Yavne, e si strappò le vesti insieme ai suoi discepoli in segno di lutto.
Ma se avesse potuto ricostruirlo, rimettere in piedi il sacrificio rinunciando al Libro, non sono sicura che lo avrebbe fatto.
In fondo, e questo anche raccontano i testi rabbinici, aveva più volte profetizzato la caduta del Tempio ancor prima che la guerra la rendesse ipotizzabile.
Forse, pensava davvero che non ci fosse scelta.
E se la strada intrapresa dai suoi contemporanei, con gli scontri feroci tra i partiti e l’affermarsi del fondamentalismo zelota, gli sembrò distruttiva, allora il suo volgersi allo studio e all’interiorità può essergli apparsa come l’unica, e l’ultima, possibilità di salvare il suo mondo.
Credo che sotto questo aspetto la lezione del rabbino di Yavne sia davvero ancora attuale: guardarsi dentro, e ancor più insegnare a guardarsi dentro, prima di guardare all’esterno.
Cambiare se stessi, prima di cambiare il mondo.
Non aver paura del cambiamento e nel farlo non scegliere il percorso più facile o più veloce.
E guardare al futuro in una prospettiva di lungo respiro.
Per imparare a riconoscere, per dirla con un altro grande maestro, Giambattista Vico, che quelle che ci paiono traversie sono talvolta opportunità.
LA VITA Il rabbino Johanan ben Zakkai nasce nel I secolo d.C.
in Galilea e diventa presto una personalità influente nel periodo che segue la distruzione del Secondo tempio.
È uno dei leader della comunità farisaica, di coloro cioè che i Vangeli paragonano a “sepolcri imbiancati”: intellettuali, maestri della Legge, rigorosi dal punto di vista dell’osservanza ma aperti alle interpretazioni della Legge orale.
Discepolo del rabbino Hillel, è favorevole alla resa di Gerusalemme assediata ai romani, anche se gli zeloti non sono d’accordo.
Viene portato fuori dalla città dai suoi seguaci, chiuso in una bara, fingendosi morto, e portato davanti al comandante romano Vespasiano.
Johanan chiede che l’accademia rabbinica di Yavne venga risparmiata dai romani.
Quando il Tempio cade in rovina (nella foto sopra, il Muro del Pianto), lui e i suoi colleghi ricostruiscono il giudaismo: la sua attenzione verso lo studio e l’interiorità gli appare come l’unica, e l’ultima, possibilità di salvare il suo mondo.
Muore a Yavne intorno all’80 d.C.
e oggi sulle colline di Tiberiade (la capitale della Galilea) si può visitare la sua tomba (nella foto sotto), non troppo lontano da quella di Mosè Maimonide e dei rabbini Ben Akiva e Meir Ba’al Ha-Nes.
LA TRADIZIONE Il nome ebraico Johanan ben Zakkai in italiano è Giovanni figlio di Zaccheo.
Il significato del nome Giovanni è “grazia di Yahweh”, mentre Zaccheo, in aramaico antico, significa il giusto.
Secondo il Talmud (nella foto sotto, una pagina di un libro sacro ebraico) il rabbino visse 120 anni, dal 40 a.C., fino all’80 d.C.
La sua vita sarebbe suddivisa in tre improbabili periodi di quarant’anni ciascuno, e solo nell’ultimo periodo avrebbe predicato.
Sempre secondo il Talmud, aveva sei discepoli (principali): Hanina ben Dosa, Eliezer ben Hyrcanus, Joshua ben Hananiah, Yosi, Schiméon ben Nathanel ed Eleazar ben Arakh.
Suo figlio morì prima di lui.
LE TEORIE Molte teorie sono state avanzate sull’identità del rabbino, anche se le prove a sostegno sono scarse o inesistenti.
Per esempio Zakkai è stato identificato con Zaccaria, padre del Battista; altre volte con Giovanni Battista e con l’apostolo Giovanni Evangelista.
Ma sono molti i riferimenti che non coincidono.
in “Il Sole 24 Ore” del 12 agosto 2010
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