I responsabili della crisi? Sono gli unici a guadagnarci

La crisi economico-finanziaria è tutt’altro che superata.
Le conseguenze negative sono sempre più evidenti, e si fanno sentire, sia sul terreno dell’occupazione – ogni giorno si assiste anche nel nostro Paese alla chiusura di nuove aziende – sia su quello dei consumi, che hanno subito una forte contrazione.
Ma a destare soprattutto sconcerto è il fatto che – come osservava alcuni mesi fa sul Financial Times George Soros – gli operatori finanziari, cioè i principali responsabili della crisi, sembrano gli unici a guadagnarci.
Dopo un breve periodo di silenzio dovuto alla paura delle reazioni dell’opinione pubblica, essi sono infatti rientrati spavaldamente sul mercato, usando tutta la loro influenza per ristabilire lo statu quo, per ripristinare cioè la massimizzazione dei loro profitti a spese dei consumatori.
A risultare vincenti sono infatti oggi la maggior parte delle grandi banche e agenzie finanziarie americane ed europee, che vantano nel 2009 ricavi superiori a quelli del 2007.
A propiziare questo risultato è stato l’impegno profuso dai Governi e dalle banche centrali nel salvataggio degli enti in difficoltà (banche private in particolare); impegno peraltro doveroso in vista della creazione di condizioni per il rilancio delle imprese in grave crisi di liquidità.
Le somme erogate per perseguire tale risultato sono state assai ingenti; i Paesi del G20 hanno speso finora nove miliardi di dollari, pari al 18% del loro Pil (e vi è chi ipotizza persino una cifra doppia).
Le perplessità circa questo massiccio impegno del “pubblico” sono venute, tuttavia, gradualmente affiorando soprattutto per il modo con cui banche e società finanziarie hanno utilizzato (e utilizzano) i fondi ricevuti: sembra infatti che lo sforzo maggiore si sia concentrato sul perseguimento di ricavi sempre più elevati e sugli stipendi dei banchieri che, stando a quanto riferisce il Wall Street Joumal, superano, nelle ventitré maggiori istituzioni finanziarie americane, il record raggiunto nel 2007.
Le conseguenze di tali operazioni si sono rivelate estremamente gravi: si va infatti dall’aumento del deficit pubblico – si calcola che si sia giunti un po’ ovunque in Occidente al 100% del Pil – alla riduzione delle entrate fiscali, fino alla crescita della spesa statale, che ha raggiunto negli Usa oltre il 100% del Pil.
A questi dati preoccupanti vanno inoltre aggiunte: la contrazione senza precedenti del credito alle imprese, anche per questo in grande difficoltà; la perdita secca del posto di lavoro per un numero assai vasto di lavoratori (si calcola che nel 2009 i disoccupati sono aumentati di oltre 60 milioni e che la percentuale degli under 25 che si trovano senza lavoro è del 18,2% negli Usa e del 19,8% in Europa); la crescita sempre maggiore dei debiti delle famiglie e, infine, la minore disponibilità delle istituzioni pubbliche a investire in campi fondamentali come la salute, l’istruzione e la cultura e, in generale, i servizi.
A pagare lo scotto maggiore di questa difficile congiuntura sono anzitutto i comuni cittadini e le loro famiglie, che si trovano a dover fronteggiare problemi sempre più assillanti di sussistenza, avendo a disposizione un quantitativo sempre meno consistente di risorse a livello personale e potendo sempre meno contare sulla protezione dal pubblico.
Ma a destare le maggiori preoccupazioni, al di là delle ricadute immediate della crisi, per le quali si esige la creazione di ammortizzatori sociali adeguati, è la constatazione che quanto si sta verificando in questi mesi, lungi dal preludere a un’uscita dall’attuale stato di difficoltà, crea le premesse perché si precipiti, in tempi ravvicinati, in un baratro ancor più profondo, con esiti drammatici.
La mancata ricerca di alternative vere, che provochino un capovolgimento nei rapporti tra economia finanziaria ed economia produttiva, ribaltando l’ordine attuale e restituendo alla produttività dei beni il primato, ma soprattutto la rinuncia a imporre regole severe al mercato per rimetterlo al servizio dello sviluppo umano, sono segnali che mortificano ogni speranza di cambiamento.
L’uscita dal tunnel è ancora lontana, ed esige, per potersi realizzare, una svolta radicale nelle politiche degli Stati, con l’abbandono del semplice laissez-faire e la rivendicazione di un ruolo di controllo anche in campo economico finalizzato a indirizzare le scelte verso il bene comune.
Ma, nel contempo, esige la presenza di una società civile matura, che sappia sostenere responsabilmente l’azione politica, anche a costo di inevitabili sacrifici, e sia soprattutto in grado di reagire alla situazione presente con l’adozione di stili di comportamento che abbiano come obiettivo lo sviluppo di un nuovo modello di civiltà incentrato sulla promozione di una migliore qualità della vita.
in “Jesus” del luglio 2010

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