Prima che cali il buio.

JAN DOBRACZYNSKI, Prima che cali il buio.
Il romanzo di Geremia, Gribaudi, Milano, pp.
352, € 18,00.
Le fatiche del timido Geremia L’anno prima della sua morte, avvenuta nel 1994, ricevetti a sorpresa una sua lettera attraverso la sua traduttrice italiana: Jan Dobraczynski, uno dei più popolari scrittori polacchi, mi inviava in quell’occasione alcune sue considerazioni dopo aver letto un mio libro tradotto nella sua lingua.
Io mi ero accostato a lui da liceale, quando mi erano state regalate le sue Lettere di Nicodemo, pubblicate dalla Morcelliana nel 1959, forse la sua opera più nota, la cui tesi teologica centrale era in queste righe: «Vi sono misteri nei quali bisogna avere il coraggio di gettarsi, per toccare il fondo, come ci gettiamo nell’acqua, certi che essa si aprirà sotto di noi.
Non ti è mai parso che vi siano delle cose alle quali bisogna prima credere per poterle capire?».
Credere per comprendere, dunque, e non viceversa.
Quando egli mi scriveva nel 1993, l’astro di questo scrittore cattolico – che aveva combattuto nella famosa insurrezione di Varsavia ed era stato relegato nei lager nazisti e che poi aveva girato per l’Europa, conoscendo Papini, Ungaretti, Mauriac e Cesbron – si era di molto appannato agli occhi del mondo ecclesiale polacco.
Egli, infatti, più per spirito di pacificazione che per ragioni politiche, aveva deciso di aderire al movimento cattolico-progressista Pax in dialogo col regime comunista, divenendo anche deputato della Dieta polacca.
Questo gli aveva alienato le simpatie della Chiesa.
Tuttavia, Dobraczynski non aveva cessato di scrivere sino alla fine della vita, nonostante una grave affezione oftalmica, e la lettera che aveva voluto dettare e indirizzare a un ignoto autore come me era segno di questa sua appassionata e fin frenetica ricerca filosofico-religiosa.
Ora, l’editore italiano che in passato ha tradotto non poche sue opere, ripropone un altro dei suoi romanzi biblici più significativi, pubblicato nel 1948 col titolo originario un po’ enfatico Wybrancy Gwiazd, ossia “prescelti dalle stelle”, mentre la prima versione italiana (Sei, Torino 1961) aveva optato per il più immediato L’uomo di Anathoth.
Sì, perché protagonista è il profeta Geremia, nato appunto in un villaggio a sei chilometri a nord-est di Gerusalemme, Anatot.
Là «nell’armo decimoterzo del re Giosia», cioè nel 626 a.C., questo giovane impacciato e timido era stato chiamato da Dio a essere il suo portavoce, ossia il suo profeta.
proprio in una delle fasi più tragiche della storia d’Israele, quella che sarebbe approdata al crollo della nazione, alla distruzione di Gerusalemme e del suo tempio e all’avvio degli Ebrei verso l’esilio «lungo i fiumi di Babilonia».
Quel giovane inesperto, provinciale, sentimentale, patriottico sarebbe stato scaraventato nel groviglio degli intrighi politici degli ultimi re di Giuda, sarebbe stato arrestato e sbeffeggiato, avrebbe assistito alla tragedia nazionale e alla fine sarebbe stato costretto all’esilio in Egitto contro la sua stessa volontà, nella più totale solitudine umana (Dio gli aveva imposto un celibato dal significato emblematico) e nello stesso silenzio di Dio.
Di tutta questa vicenda, piena di colpi di scena, rimane la testimonianza nel libro che reca il suo nome, il libro più lungo dell’Antico Testamento (21.819 parole ebraiche, seguito a ruota solo dalla Genesi con 20.611 vocaboli), ma anche il j più complesso nella sua redazione, dato che – accanto alla voce diretta dello stesso profeta coi suoi oracoli – si hanno tante presenze indirette, come quella del suo fedele segretario Baruk.
Si comprende, così, la ragione per cui questo personaggio dall’esistenza drammatica (si legga, ad esempio, il terribile passo del cap.
20 in cui maledice il giorno della sua stessa nascita) abbia affascinato non pochi scrittori e naturalmente anche Dobraczynski che lo colloca al centro di quello scontro planetario che allora era in corso tra le due superpotenze, Babilonia e l’Egitto, avente come linea di frontiera e area-cuscinetto proprio la terra di Israele che non si rassegnava a essere una semplice pedina, scatenando così reazioni e ritorsioni.
Davanti ai due imperatori si erge allora proprio lui, l’ex-ragazzo timido di Anatot, che riesce a fermare per ben due volte il decreto di eliminazione di Gerusalemme da parte di Nabucodonosor, re di Babilonia, ma che non è in grado di tenere a bada i suoi connazionali, un popolo ribelle, ostinato superbo, quel regno di Giuda che precipiterà verso il baratro preannunciato dal profeta inascoltato.
Scriveva il romanziere polacco nella nota introduttiva a questo ritratto libero ma potente di Geremia: «Ho voluto far rivivere la figura di un uomo che, schiacciato da una missione superiore alle sue forze, la portò fedelmente a termine in mezzo a un’umanità sorda e cieca al suo immenso dolore».
Lo scrittore s’era preoccupato di documentarsi storicamente ed esegeticamente sia pure nei limiti della sua preparazione, sulla scia, ad esempio, dell’infaticabile Thomas Mann col suo Giuseppe l’egiziano, che però alla fine si rivela più indipendente dalla matrice biblica originaria.
Il risultato ottenuto dallo scrittore polacco è coinvolgente e il percorso di lettura è attraente fino all’ultima scena grandiosa, ove l’uomo di Anatot si leva davanti all’«interminabile colonna di deportati, carichi sulle spalle del triste fardello dell’esiliato, che si trascinano attraverso il deserto…
con un lamento che sale verso il cielo pieno di nubi indifferenti: l’eterno pianto del dolore umano».
A margine ricordiamo che Jeremias sarà il titolo e il protagonista anche del dramma antimilitarista dell’ebreo viennese Stefan Zweig (1917), e lo stesso profeta dominerà il romanzo Höret die Stimme (Ascoltate la voce) di un altro ebreo, il praghese Franz Werfel, che lo ripubblicherà nel 1956 col titolo esplicito Jeremias.
Anche il giovane Karol Wojtyla, nel 1940, in una Polonia invasa, scriveva un dramma intitolato Geremia.
La lista potrebbe continuare, a testimonianza del fascino esercitato da questo personaggio imprigionato – a livello popolare – nel cliché delle “geremiadi” a causa della tensione di certe sue pagine e della connessione con le elegie delle Lamentazioni che seguono il suo libro.
In realtà la sua è una figura possente, è la voce più “personale” e, oseremmo dire, “romantica” delle Sacre Scritture, che ben ha meritato anche la sinfonia Jeremiah che a lui dedicò nel 1942 Leonard Bernstein.
di Gianfranco Ravasi in “Il Sole 24 Ore” del 18 luglio 2010

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