La questione sollevata dalla controversa sentenza della Corte di Strasburgo che vieta l’esposizione del crocifisso nelle scuole pubbliche da affrontare con un pizzico di buon senso; la malintesa e pervicace forma di laicità, che ignora il fatto religioso e anzi esplicitamente lo esclude; la necessità di un’autoriforma e di una purificazione della Chiesa indicata da Benedetto XVI; l’esigenza di una nuova generazione di politici cattolici auspicata già dal Papa e dal suo segretario di Stato; il persistere della crisi economica; l’anniversario dell’unità d’Italia come occasione per ritrovare coesione e convergenza secondo l’auspicio, tra gli altri, del presidente della Repubblica; il federalismo come intuizione già presente nella dottrina sociale della Chiesa; la bellezza, la gioia e la responsabilità dell’essere preti come frutti dell’Anno sacerdotale.
Sono i questi i temi della lunga intervista che il cardinale Angelo Bagnasco, arcivescovo metropolita di Genova e presidente della Conferenza episcopale italiana (Cei) ha rilasciato al nostro giornale.
Che ha espresso alla fine una convinzione: “Questi mesi difficili cederanno il passo a una rinnovata passione per l’annuncio di Dio con le parole e le opere.
Di Dio, infatti, l’uomo contemporaneo sente forte il bisogno in un mondo confuso e incerto, ma pur sempre alla ricerca del senso della vita terrena e della felicità piena”.
Eminenza, il 30 giugno si è tenuta presso la Corte di Strasburgo l’udienza per il ricorso presentato dal Governo italiano contro la sentenza del novembre scorso che vieta l’esposizione del crocifisso nelle scuole pubbliche.
Che aspettative ha rispetto a questa decisione? A quali conseguenze porterebbe una conferma della precedente sentenza? A dire la verità, mi aspetterei solo un pizzico di buon senso.
È strano infatti che proprio oggi, quando il confronto interculturale si fa più esigente, a motivo della crescente mobilità, si pretenda poi di censurare una delle matrici fondamentali della storia del nostro continente.
Ipotizzare, come taluni fanno, che il crocifisso leda la laicità dello Stato, il quale non dovrebbe inclinare verso nessuna opzione religiosa o confessionale, significa dimenticare che ben prima dello Stato vi è la gente; esiste infatti un humus profondo che identifica il sentire comune della gran parte della popolazione italiana.
Nella scelta di mettere tra parentesi un segno come il crocifisso colgo peraltro una scarsa considerazione di quel principio di sussidiarietà per cui ciascuno Stato, nel contesto europeo, presenta una peculiare radice che merita rispetto e considerazione.
Del resto, a essere sinceri, a chi mai è venuto in mente di eliminare festività nazionali che hanno una chiara impronta religiosa nel nostro o in altri Paesi del mondo? Volere eliminare le caratteristiche tradizioni culturali e religiose di un Paese, specie quelle legate agli ambienti di vita – siano essi la scuola o i luoghi di aggregazione giovanile – significa rinunciare proprio a quella ricchezza delle culture che si vorrebbe per altri versi tutelare e difendere.
Sono stati in molti a ravvisare dietro alla precedente sentenza della Corte un’ispirazione culturale molto vicina a sentimenti di cristianofobia.
Lo stesso si è detto a proposito degli attacchi subiti dalla Chiesa, come per esempio è avvenuto in Belgio.
Da dove nasce tutta questa ostilità? Più semplicemente – ma vorrei dire ancora più gravemente – esiste una malintesa e pervicace forma di laicità, che sarebbe meglio definire laicismo; questa ignora il fatto religioso, anzi esplicitamente lo esclude.
Si tratta in realtà di una grave amputazione del senso dello Stato, che ovviamente non ha competenze in campo religioso né persegue finalità religiose, ma deve riconoscere, rispettare e anzi promuovere la dimensione religiosa.
Dietro la libertà religiosa infatti si cela la più decisiva esperienza della libertà umana, senza la quale è a rischio non solo la fede, ma ancor prima la democrazia.
Dietro la cosiddetta neutralità dello Stato è presente un pregiudizio, tardo a morire, verso il quale giustamente Benedetto XVI da tempo va concentrando la sua riflessione: quello cioè di confinare Dio al di fuori dello spazio pubblico, riducendolo a una questione privata.
Per quel che riguarda l’Europa, poi, si trascura il fatto che la nostra civiltà – delle cui conquiste relative alla libertà, all’uguaglianza, ai diritti individuali e sociali tutti godono – germoglia proprio dal crocifisso, riconosciuto come il suo simbolo più qualificato e universale.
Benedetto XVI ha affermato che il pericolo più grande per la Chiesa è al suo interno.
Come si affronta questa minaccia? Il Santo Padre chiama tutti i cattolici a un’opera di autoriforma e spinge tutta la Chiesa a compiere un cammino di purificazione.
Questa indicazione è senza dubbio una provocazione non solo per il mondo ecclesiale, ma per la stessa società civile.
Tale linea di marcia non è affatto “spiritualista”, come afferma qualcuno; al contrario, racchiude un’immensa forza rinnovatrice, una forza di concretezza e di azione che la storia già conosce.
In una stagione in cui tendenzialmente tutti cercano di difendere se stessi e, all’occorrenza di denigrare gli altri, il Papa invita a battersi il petto e a non guardare alle colpe altrui, chiamando in causa la coscienza individuale perché dinanzi a Dio ognuno si riconosca nella verità.
È evidente che l’insidia maggiore nasce sempre dal di dentro e non dal di fuori.
Ciò che fa vacillare, infatti, non sono gli attacchi, anche virulenti, che possono esserci da parte di chi nutre pregiudizi o ostilità nei riguardi della fede, ma quelli da parte di chi alla fede si appella, rinnegandola poi nel concreto con l’insipienza e lo scandalo dei suoi comportamenti.
La minaccia dall’interno dunque è più subdola e chiede di essere smascherata attraverso un lineare riconoscimento dei fatti, seguendo un rigoroso percorso di penitenza che non ammette ritardi o attenuanti.
Nel caso degli abusi su minori, che hanno coinvolto dolorosamente alcuni ecclesiastici, occorre aggiungere che l’accertamento dei fatti, nelle sedi e nei modi dovuti, garantisce alla giustizia i colpevoli di questi terribili delitti.
Se, come credo, la crisi che si sta attraversando ha un senso, esso consiste proprio nel ritornare con umiltà alle sorgenti del Vangelo, che chiama ogni generazione di cristiani a dare ragione della propria speranza con le parole e con la vita.
La questione educativa è da tempo indicata come elemento centrale dell’azione pastorale.
In Italia, la Chiesa l’ha messa al centro degli orientamenti pastorali per il prossimo decennio.
C’è un momento, o un processo, a partire dal quale, nella società civile, si può ravvisare l’inizio di questa emergenza? Come ricorda di frequente Benedetto XVI, ogni generazione è chiamata a raccogliere la sfida della libertà, e così a imparare sempre di nuovo cosa significhi essere liberi.
Certamente ai nostri giorni esiste una serie di elementi che hanno reso più difficile l’esercizio di questa libertà, a fronte di un’aspirazione diffusa che la vede come un diritto e non anche come una responsabilità.
In particolare, il mondo degli adulti ha smesso di generare alla vita.
Ognuno di noi, infatti, cresce non tanto ascoltando quanto vedendo qualcuno.
In concreto, genera alla vita chi si lascia sorprendere dalla vita e attraversare da essa.
Ciò vuol dire che per essere generativi bisogna accettare il fatto che non si è all’origine della vita, ma che ci si fa attraversare da essa e con essa si dialoga.
Diversamente si resta accecati e imprigionati dalla volontà di potenza e si finisce per distruggere il mondo.
Credo che avere perso il senso dell’anteriorità, cioè di Dio, abbia prodotto mancanza di autorevolezza, e finito col creare una società senza padri, cioè fatalmente senza testimoni.
La capacità di generare peraltro implica sempre una trasformazione personale, fatta di dedizione, di impegno, di passione, di successo e di fallimento.
Fa parte dell’accoglienza della vita anche il sapere rinunciare a qualcosa di sé per gli altri.
Mi sembra che questa serie elementare di atteggiamenti sia scomparsa dalla scena pubblica per dare adito a comportamenti per lo più narcisistici, quando non addirittura adolescenziali.
Benedetto XVI, già nel 2008, ha fatto riferimento alla necessità di una nuova generazione di politici cattolici, messaggio rilanciato dal suo segretario di Stato, il cardinale Tarcisio Bertone, e da lei in occasione del Consiglio permanente della Cei dello scorso gennaio.
Generalmente questo messaggio viene inteso come una chiamata ad assumere iniziative politiche conseguenti alla propria coscienza di cristiani.
È questa l’interpretazione corretta? Il Papa a Cagliari ha auspicato una nuova generazione di politici cattolici e il suo segretario di Stato, il cardinale Bertone, gli ha fatto doverosamente eco, per segnalare una urgenza che è sotto gli occhi di tutti.
L’affezione per la cosa pubblica sta scemando e sempre più rarefatto è il consenso intorno al bene comune, privilegiando ciascuno beni di piccolo cabotaggio e senza prospettiva alcuna.
Per questa ragione anch’io ho fatto riferimento a un “sogno” per evocare una direzione di marcia verso cui camminare.
Nella prolusione mi riferivo appunto a “una generazione nuova di italiani e di cattolici che, pur nel travaglio della cultura odierna e attrezzandosi a stare sensatamente dentro ad essa, sentono la cosa pubblica come importante e alta, in quanto capace di segnare il destino di tutti, e per essa sono disposti a dare il meglio dei loro pensieri, dei loro progetti, dei loro giorni”.
Penso che attorno a questo tema nevralgico della nostra società, che chiama in causa la testimonianza della Chiesa, occorra il concorso attivo di tutti.
Come vescovi italiani ci impegneremo a una specifica riflessione in merito.
Sui temi etici, in quasi tutti i partiti italiani si registrano al momento posizioni eterogenee.
Esiste oggi un problema di rappresentanza politica delle posizioni cattoliche in Italia? Più che un problema di rappresentanza politica esiste un problema di coerenza personale.
Credo che sempre più siano necessari fedeli laici capaci di imparare a vivere il mistero di Dio, esercitandosi ai beni fondamentali della libertà, della verità, della coscienza.
Come detto nella citata prolusione dello scorso gennaio, “cresce l’urgenza di uomini e donne capaci, con l’aiuto dello Spirito, di incarnare questi ideali e di tradurli nella storia non cercando la via meno costosa della convenienza di parte comunque argomentata, ma la via più vera, che dispiega meglio il progetto di Dio sull’umanità, e perciò capaci di suscitare nel tempo l’ammirazione degli altri, anche di chi è mosso da logiche diverse”.
L’Italia, come il resto del mondo, sta vivendo un difficile passaggio economico.
Ritiene che il peggio si possa considerare ormai superato o gli effetti della crisi devono ancora rivelarsi pienamente? Per quel che vedo con i miei occhi, c’è ancora molta disoccupazione.
E non scorgo concreti e sicuri segnali di inversione di tendenza, anche in grandi realtà industriali della mia Genova.
Serpeggiano tra la gente preoccupazioni serie e pungenti.
Non mi riferisco ovviamente a un discorso di macroeconomia per il quale non ho le competenze.
Semplicemente constato che se gli strateghi possono rassicurare sul medio periodo, ritenendo che la strada giusta sia stata imboccata, come vescovo vedo molta gente senza lavoro e sono turbato da tanta sofferenza e insicurezza su come arrivare alla fine del mese.
Un certo assestamento c’è stato perché le famiglie si sono adattate, utilizzando meglio le risorse ed evitando gli sprechi.
Però c’è una fascia che aveva ben poco da risparmiare e che obiettivamente è in affanno.
Le misure che si stanno prendendo in risposta alla crisi stanno creando diverse tensioni fra parti sociali e contrasti a livello politico.
Quali criteri dovrebbero essere seguiti nella previsione di interventi che si preannunciano molto severi? Credo che il criterio dell’equità economica sia quello da seguire, dovendo ciascuno dare in rapporto alle proprie capacità.
Sta poi a chi ha la responsabilità politica affrontare in concreto la situazione, declinando l’equità economica dentro a una cornice di libertà politica e di coesione sociale.
Solo così i tre valori in gioco – la libertà politica, la giustizia economica, la coesione sociale – si salvaguardano insieme.
Da alcune parti, di frequente anche dal Quirinale, si osserva come il Paese stia perdendo il senso della coesione nazionale.
La Chiesa in Italia condivide questa sensazione? L’anniversario dell’unità d’Italia è una provvidenziale occasione per ritrovare le comuni radici che hanno fatto il nostro Paese, ben prima del suo riconoscimento come Stato.
Proprio riandando indietro nel tempo, si scopre che quando a prevalere sono state logiche di campanile e ci si è contrapposti in nome del proprio “particolare” si è registrata una battuta d’arresto.
Al contrario, quando si è innescato il meccanismo virtuoso della cooperazione, allora le forze culturali, sociali, economiche e spirituali, si sono sommate e non annullate.
Penso che la crisi in atto debba dunque spingere l’Italia a ritrovare se stessa.
Per questo apprezzo lo sforzo di quanti, innanzitutto il presidente della Repubblica, invitano continuamente a ritrovare la coesione e la convergenza, al di là delle legittime differenze.
Al Mezzogiorno la Cei ha dedicato un importante documento.
La crisi, secondo gli osservatori, sembra aver aggravato ulteriormente il divario con il resto del Paese.
Si discute anche dell’impatto del decentramento fiscale.
Il federalismo è un pericolo o un’opportunità? Il federalismo non è una ricetta magica, ma rappresenta un’intuizione ben presente nella dottrina sociale della Chiesa, che sin dai tempi di Pio XI chiama in causa il principio di sussidiarietà – poi introdotto a Maastricht – per sottolineare che quel che può essere fatto dalle realtà intermedie non deve essere avocato a sé dall’istanza centrale.
Infatti più si è vicini alla realtà, più la si può accompagnare con efficienza e oculatezza.
Ciò posto, il principio suddetto va coniugato con quello di solidarietà per evitare che chi sta indietro resti ancora più arretrato.
Dal 14 al 17 ottobre si terrà a Reggio Calabria la Settimana sociale dei cattolici italiani, con la quale si vuole proporre un'”agenda di speranza”.
È la speranza che manca maggiormente al Paese? L’agenda è un termine entrato nel linguaggio comune per richiamare concretezza di obiettivi e aderenza alla realtà.
In quella preparata in vista della settimana di Reggio Calabria si elenca una serie di questioni non più rinviabili – come creare impresa, educare, includere nuove presenze nel nostro Paese, introdurre i giovani nel mondo del lavoro e della ricerca, compiere la transizione istituzionale – che oggi definiscono in modo puntuale il volto del bene comune, che solo garantisce la tenuta unitaria dell’Italia e la ripresa economica.
Certamente è la speranza cristiana che fa da sfondo, e ancor prima da movente, a questa rinnovata stagione di impegno dei cattolici italiani dentro la società di oggi.
Si è da poco concluso l’Anno sacerdotale.
Cosa ha significato per i sacerdoti italiani, quale è l’eredità di questa iniziativa? L’Anno sacerdotale è stato, per volontà di Benedetto XVI, un’occasione straordinaria per riscoprire la bellezza, la gioia e la responsabilità del sacerdozio e del ministero pastorale.
E per mettersi di più in gioco nella santità che richiede.
La vocazione sacerdotale è infatti un dono inestimabile che non cancella la consapevolezza dei limiti umani, ma esalta la scelta del Signore Gesù, il quale si fa prossimo a ogni uomo attraverso il servizio discreto e fedele di tanti parroci e preti; e questi, attraverso il Vangelo e i sacramenti, aprono il mondo a Dio e rendono più umano il nostro territorio.
Credo che l’eredità dell’Anno sacerdotale sia l’impegno a una testimonianza di vita che deve farsi ancor più trasparente per l’amore a Dio e alla sua Chiesa.
“Per crucem ad lucem”: ha usato più volte questa espressione per descrivere il momento che sta vivendo la Chiesa.
Il tempo della croce sarà ancora molto lungo? Ogni momento di sofferenza, quando accolto con senso di responsabilità, prelude sempre a una rinascita.
Sono convinto che anche questi mesi difficili cederanno il passo a una rinnovata passione per l’annuncio di Dio con le parole e le opere.
Di Dio, infatti, l’uomo contemporaneo sente forte il bisogno in un mondo confuso e incerto, ma pur sempre alla ricerca del senso della vita terrena e della felicità piena.
in “L’Osservatore Romano” del 14 luglio 2010
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