«Cristianofobia» in un Occidente sempre più secolarizzato? «Cristianicidio» in un Islam sempre più fanatizzato? Neologismi di attualità drammatica, approssimandosi i funerali a Milano del vescovo cappuccino assassinato in Turchia.
Sono in molti a non credere nella tesi dello squilibrato, visti anche i precedenti di omicidi di cristiani, attribuiti dalle autorità locali a pazzoidi fuori controllo.
A questa sorta di noncuranza islamica, si accosta quella dell’Occidente, pronto a indignarsi e a manifestare nelle piazze per ogni buona causa, vera o presenta che sia, ma che qui sembra aver messo la sordina alle proteste.
La nostra indignazione è, semmai, per la minaccia al benessere di pesci ed uccelli nell’inquinato Golfo del Messico, più che per i credenti nel Vangelo martirizzati in Asia e in Africa.
Eppure, statistiche irrefutabili mostrano che il cristianesimo è di gran lunga la religione più perseguitata nel mondo.
A dar la caccia al battezzato non ci sono solo i soliti musulmani — o, almeno, le loro frange estremiste — ma in prima fila stanno anche gli induisti che, nel mito liberal, erano il paradigma della tolleranza nonviolenta.
Non mancano casi di violenza sanguinaria anche da parte dei «pacifici» buddisti, per non parlare delle mattanze cui volentieri si dedicano gli adepti delle vecchie e nuove religioni dell’Africa Nera.
Perché tanto odio e perché tanta rimozione da parte nostra, davanti a quello che talvolta assume il volto terribile del massacro? Il credente scorge qui significati ultramondani, sulla scorta delle parole di Gesù: «Se hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi».
La possibilità del martirio fa parte di una prospettiva che ha le sue basi nel Vangelo stesso.
Per dirla con Chesterton, il convertito: «Il nostro simbolo è la croce sul Golgota, non la villetta nei sobborghi verdi di Londra».
Ma, al di là della lettura religiosa, quali fattori storici hanno creato e alimentano l’avversione per i cristiani? Per stare al caso che oggi più inquieta, quello musulmano, spesso non si considera che non in tempi remoti, bensì alla fine della seconda guerra mondiale, non vi era nessun Paese islamico che potesse dirsi indipendente.
Tutti, senza alcuna eccezione, facevano parte di un impero coloniale europeo o erano sottoposti al suo protettorato.
Il cristianesimo era, per un Islam frustrato e ridotto all’impotenza, la religione dei «padroni»: un paradosso, tra l’altro, per casi come la Francia o il Belgio, dove la classe politica dirigente era impegnata in patria nella lotta contro la Chiesa e nelle colonie ostacolava i missionari cattolici e spingeva per la creazione di logge massoniche.
Ma un paradosso anche nell’impero britannico, dove si favoriva la Chiesa anglicana — questa «Camera dei Lords in preghiera», com’era definita — che, più che il Vangelo, annunciava virtù civili, pregiudizi, eccentricità dell’establishment politico britannico.
Ma erano distinzioni che furono cancellate nella propaganda per la decolonizzazione, dove il «tiranno europeo» era identificato tout court con il cristiano.
Nel caso del Medio Oriente, la situazione è stata molto aggravata dall’inserzione di Israele, sentita come una violenza: il grande padrino nordamericano dello stato ebraico si vanta di essere il paladino del cristianesimo biblico, vi è sorto addirittura il potente movimento dei «cristiani per il sionismo» (Bush junior ne faceva parte), per il quale il ritorno degli ebrei in Palestina va favorito, come annuncio dell’apocalisse e del ritorno glorioso di Cristo.
Così, l’avversione per Israele è diventata per le folle musulmane avversione per la fede nell’ebreo Gesù.
Anche zone superstiti di tolleranza religiosa, come l’Iraq del laico Saddam, sono state avvelenate dalla violenta aggressione dei «cristiani» americani.
Quanto a noi e alla nostra mancata mobilitazione: è indubbio che parte influente del media-system occidentale sta dalla parte di coloro che — come già i giacobini del 1793 — vorrebbero «chiudere finalmente la parentesi cristiana » .
Enjamber deux millénaires, scavalcare due millenni e ricominciare da capo, scrostandoci da dosso l’eredità funesta di quel Crocifisso che non a caso l’Unione Europea vuole togliere dai muri.
Può una Unione così — che rifiuta persino l’evidenza storica, negando le sue radici cristiane — può forse indignarsi se, nel mondo, è scomoda la situazione di una credenza per la quale si auspica che non ci sia futuro? Un certo vittimismo cristiano lascia perplessi, come pure un complottismo un po’ paranoico: è indubbio, però, che al prevedibile aumento della violenza contro i credenti nel Vangelo non si accompagnerà un aumento della solidarietà nei Paesi stessi che di quella fede furono i privilegiati.
in “Corriere della Sera” dell’11 giugno 2010
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