Editorialista del Washington Post e Premio Pulitzer, David Ignatius è uno dei più rispettati giornalisti americani.
Ma è più celebre per i suoi romanzi di spionaggio, sette dal 1985 a oggi, nei quali ha offerto uno squarcio a tinte fosche e toni avvincenti sullo spietato mondo dei servizi segreti.
Fra gli altri, Body of Lies, dal quale Ridley Scott ha tratto l’omonimo film con Leonardo DiCaprio e Russell Crowe.
Venerdì mattina nel Palazzo Ducale di Urbino, Ignatius verrà insignito del «Press Award», il premio annuale che l’Italia dedica alla grande stampa americana.
Questo è il testo integrale dell’intervista concessa al Corriere poco prima di partire per l’Italia.
Cosa significa per lei l’Urbino Press Award? «Questo premio mi dice che io scrivo per un pubblico internazionale.
E che c’è un mondo di idee, nel quale anche io ho una voce.
Ho trascorso tre anni a Parigi, come direttore dell’International Herald Tribune e ogni giorno mi rendevo conto che il mondo degli opinionisti ha punti di vista molto differenti.
A Washington questo è un po’ più difficile, uno dei problemi degli Stati Uniti è che il nostro dibattito politico, interno e internazionale, è molto auto-referenziale, spesso non vediamo o non capiamo cosa pensino le persone all’estero.
Ricevere un World Press Award rafforza la mia convinzione che ci sia una stampa mondiale, una professione che ha regole condivise da colleghi in Italia o in Israele o in Iraq, siamo parte dello stesso spazio informativo.
Lo dico perché ci sono molte ragioni per dubitarne, per temere che lo spazio informativo sia in realtà frammentato.
Ecco, andare a Urbino significa credere che, a dispetto delle prove, ci sia ancora un’informazione mondiale».
Che discorso farà? «Parlerò del modo in cui la tecnologia, che avrebbe dovuto unirci, paradossalmente ci frammenta in gruppi più piccoli.
Sono cresciuto in un tipo di giornale nel quale credevamo di scrivere per tutti a Washington, letteralmente, ricchi e poveri, bianchi e neri, repubblicani e democratici.
Ma sfortunatamente non è più così.
Sulla rete ognuno di noi può rivolgersi a siti, dove scrivono e interagiscono persone che la pensano esattamente come noi, hanno le stesse convinzioni.
A Urbino dirò che voglio ancora essere parte di un media informativo che sia contro questo approccio, parli alle persone in termini di valori condivisi, non in termini di narrative separate, di opinioni a fette.
E credo che ci sia una possibilità di farlo, perché il mondo frammentato non funziona.
Gli USA sono in testa nel dimostrarlo: Washington è paralizzata, il Congresso non è in grado di affrontare i problemi di cui la gente si preoccupa veramente».
Ma è la politica o sono i nuovi media l’origine di questa lacerazione? «Si rafforzano a vicenda.
Se risaliamo alle origini degli Stati Uniti o ancora più indietro al Rinascimento o al mondo di Urbino, c’era questo sentimento dominante del dubbio, dello scetticismo.
Ecco, questo è sotto attacco.
Siamo in un mondo dove le emozioni, la partigianeria, le dinamiche di gruppo prevalgono sugli individui.
L’origine? Non vorrei sembrare un marxista, ma forse la tecnologia gioca un ruolo decisivo».
Lei ha usato con successo il romanzo, la fiction, per dare a un pubblico più vasto e internazionale un’idea realistica dell’universo misterioso e oscuro dell’intelligence.
Ogni tanto la realtà supera la fantasia ed è la cronaca ad aprirci squarci sul mondo delle spie, rivelando errori tragici, fallimenti, analisi sbagliate.
Come sono cambiate le intelligence? Organizzazioni come la Cia o la NSA sono ancora efficaci? «Scrivo romanzi di spionaggio da 25 anni, ho scritto il primo nel 1985 e ho appena finito l’ottavo.
In questo periodo ho assistito a un progressivo deterioramento delle sottigliezze e della qualità del fattore umano.
C’è stato un tempo, parlo del mio primo viaggio a Beirut nel 1980, in cui ogni uomo politico arabo si sarebbe sentito offeso se la Cia non avesse provato a reclutarlo.
Gli USA avevano il vento in poppa.
Era un fatto che ognuno in quella parte del mondo volesse essere amico nostro.
E il mio primo racconto Agents of Innocence romanzava la storia vera di come la Cia reclutò Hassan Salameh, il capo della sicurezza di Jasser Arafat.
In altre parole, il capo dell’intelligence del nostro primo nemico terrorista lavorava in segreto per noi, la Cia lo portò perfino a Disneyland e questa è cronaca.
Fu un’operazione che durò quasi dieci anni.
Ecco, non solo la Cia oggi non saprebbe più farlo.
Ma se il Congresso lo venisse a sapere, probabilmente fermerebbe l’operazione.
E se non la fermasse, lo farebbero altri.
Parte del messaggio, che ho provato a dare con i miei romanzi, è che nel momento in cui il ruolo degli Stati Uniti in Medio Oriente è diventato più grande e profondo, la nostra comprensione di quella parte del mondo è diminuita anno dopo anno, non siamo più in grado di operare con efficacia al di fuori di fortezze presidiate, chiamate Green Zones.
Così ci affidiamo sempre più alla tecnologia, per uccidere i nostri avversari, gente ovviamente molto pericolosa che vuol farci del male.
Il risultato è che questa realtà appare lontana, quasi extra-terrestre e quando la sperimentiamo da vicino, a casa nostra, come accadde l’11 settembre, siamo sconvolti, non ne capiamo il senso.
Il mio ultimo racconto comincia proprio con un attacco dei droni Predator».
Lei quindi pensa che la diminuzione del fattore umano sia una delle principali ragioni dei fallimenti della CIA… «Si è ridotta la nostra capacità di convincere persone di altri Paesi a lavorare per noi.
Siamo diventati più bravi a convincere altri servizi segreti a cooperare.
Ma il problema è la nostra capacità di seduzione intellettuale a livello individuale.
Noi avevamo un personale di grande qualità, cosmopolita, poliglotta, capace di percepire le realtà dove operavano nel mondo arabo, in Asia, in Africa.
Questo non esiste più.
La Cia era un percorso ambito verso l’Occidente da molti giovani arabi di talento.
Oggi ci sono i grandi gruppi bancari, le multinazionali che possono farti avere una borsa di studio nelle università californiane.
Un volta la Cia era l’intermediario per la cultura americana».
Lei ha scritto che oggi viviamo nell’età delle operazioni scoperte e non coperte.
Cosa vuol dire? Rimpiange queste ultime, con le barbe finte sul campo? «Non del tutto.
Io voglio dire che oggi a cambiare il mondo non sono più le cose segrete ma le cose che sono pubbliche.
Forse gli strumenti del passato non servono più.
Eppure ci sono momenti in cui se la mano degli Stati Uniti fosse veramente nascosta, influenzando gli avvenimenti con discrezione e producendo esiti a noi favorevoli, dovremmo farlo.
Il problema è che quando c’abbiamo provato, spesso abbiamo fatto un casino.
Storicamente non siamo stati bravi nelle operazioni coperte.
Anche dove abbiamo avuto successo: per esempio, alla fine degli Anni Quaranta in Italia, quando investimmo un sacco di soldi per cercare di far emergere i partiti democratici e tenere i comunisti fuori dal governo.
Ci riuscimmo, ma l’eredità che ci siamo lasciati dietro in Italia è una cultura della cospirazione e del complotto, che ancora oggi avvelena il sistema.
Noi abbiamo aiutato a crearla: non solo in Italia, ma un po’ anche in Francia, per sempre nel mondo arabo.
Voglio dire che in pratica le conseguenze negative delle operazioni coperte superano gli effetti positivi immediati».
Ma hanno ancora un ruolo da svolgere le intelligence in questa fase del potere americano? «Stiamo cercando di venir fuori da un periodo di guerre di spedizione, dove abbiamo inviato truppe in Paesi lontani sull’onda dell’11 settembre e sappiamo che questo dovrà finire, che dobbiamo portare i ragazzi a casa, smettere di bombardare i civili.
Ma le domande su cosa faremo dopo rimangono: come difendere i nostri alleati, come evitare che cose terribili accadano, impedire che il mondo diventi un luogo di violenza arbitraria.
È complicato.
E chiunque pensa che le intelligence non debbano giocare un ruolo è un ingenuo.
Quale sia è però una risposta aperta.
Credo sia importante cominciare con alcuni principi morali di fondo: per esempio, ha ragione il presidente Obama quando dice che una delle regole di base di una società democratica è dire che noi non usiamo la tortura.
Anche in situazioni in cui ci potrebbero essere dei benefici».
Come si concilia questo ritorno a casa con i doveri globali di una superpotenza, della sola superpotenza democratica? «Prima di tutto non possiamo tornarcene a casa troppo rapidamente, dobbiamo farlo in modo responsabile.
Il potere americano rimarrà sicuramente pervasivo nel mondo e questo è un problema: gli USA sono così forti che è difficile per altri Paesi cooperare con noi.
Per questo dobbiamo usarlo in modo più ragionevole, essere molto più attenti nel cominciare le guerre.
Questa Amministrazione lo sta facendo.
Ed è una convinzione che si è fatta strada anche nei ranghi, nelle gerarchie militari, nei civili del Pentagono, dopo le esperienze in Afghanistan e Iraq.
Ma non significa isolazionismo, rinuncia alle responsabilità globali, siamo troppo interconnessi col resto del mondo per potercelo permettere.
Solo che ce le dobbiamo assumere sotto regole diverse.
Dobbiamo individuare i pericoli, localizzarli, agire con strategie mirate».
Ieri l’Onu ha approvato un pacchetto di nuove sanzioni contro l’Iran.
Allo stesso tempo, Teheran continua a muoversi sul piano diplomatico, lanciando ponti verso la Turchia, la Russia, perfino il Brasile.
Saranno efficaci le nuove misure? «Non credo che le nuove sanzioni avranno l’effetto di fermare il programma nucleare iraniano, eppure le considero uno sviluppo molto positivo.
Penso che il successo degli Stati Uniti nel tenere insieme il gruppo “5 più 1” è un risultato che non va sottovalutato.
È stato sensato fare concessioni alla Russia sulla difesa anti-missile e a differenza di molti credo che la costruzione di una partnership con la Cina abbia più successo di quanto in generale non si creda.
Portare Pechino nel ruolo di co-gestore responsabile della sicurezza e della prosperità globali è il compito più importante della diplomazia americana in questa fase.
I cinesi lo apprezzano e sono pronti a dare una mano.
La prova è questa risoluzione dove hanno fatto meno giochetti del solito».
Ma lei dice che non fermeranno le ambizioni nucleari dell’Iran: dovremo convivere con un Iran nucleare? «Sto dicendo che sarebbe più facile convivere con un Iran nucleare, se la comunità internazionale rimanesse unita nel condannarlo.
Ma sono convinto che non succederà, che Teheran si fermerà un passo prima della concreta costruzione di una bomba.
La mia analogia storica è che dobbiamo pensare alla Rivoluzione Iraniana come alla Rivoluzione Francese, che ebbe effetti destabilizzanti – sociali, politici, militari – sull’intera regione europea.
Ci vollero quasi 30 anni, fino alla fine del Congresso di Vienna, per riordinare l’Europa in una nuova architettura di sicurezza.
Ecco la Rivoluzione iraniana è stata lo stesso per il Medio Oriente.
E io credo che avremo bisogno di un nuovo ordine, che porti questo l’Iran post-rivoluzionario in un concerto di nazioni in quell’area del mondo, riconoscendo il suo potere ma anche gli interessi degli altri Paesi».
E avrà un ruolo l’evoluzione politica interna? «La transizione della Repubblica Islamica da causa a nazione sarà decisiva.
Ne ho parlato con dei dirigenti iraniani, che capiscono questa analogia.
Posso anche aggiungere che l’ambizione profonda dell’Amministrazione Obama sull’Iran sia proprio la creazione di una nuova architettura, che riconosca i loro legittimi interessi di sicurezza a patto di non superare precise linee di demarcazione: una di queste è non andare fino in fondo con il programma nucleare, fermarsi a un punto nel quale, un po’ come il Giappone, il mondo capisca che Teheran ha la capacità di costruire un’arma nucleare, ma non lo fa.
Vede, quando penso al Medio Oriente mi sforzo di pensare a cosa fosse l’Europa nel XIX secolo, le bombe, gli assassini politici.
O agli Stati Uniti: nulla nel Medio Oriente si avvicina al bagno di sangue della Guerra Civile americana, pure essenziale nel nostro divenire un Paese moderno».
E come si colloca Israele in questa nuova architettura? «Come ha dimostrato l’incidente della flottiglia turca, la situazione di Gaza non è più sostenibile per nessuno.
Il blocco è fallito e quando una politica fallisce bisogna pensarne un’altra.
Questa è un’opportunità per fare una cosa, che fin qui è stata molto temuta da Israele ma oggi è necessaria: internazionalizzare la crisi.
Israele ha tentato di gestire la situazione di Gaza da sola, ma ora non è più possibile.
Purtroppo la Turchia con il suo comportamento ha perso l’opportunità di fare da mediatore.
Quindi se ne apre una per gli Stati Uniti».
Ma è cambiato qualcosa di molto importante nel rapporto tra USA e Israele nei mesi scorsi… «Si, rispetto al passato, l’Amministrazione Obama ha trasmesso un messaggio che suona più o meno così: noi abbiamo anche interessi che non sono sempre identici ai vostri e voi ne dovete tener conto se volete il nostro appoggio.
Ma, ripeto, ci sono opportunità per noi.
Non abbiamo bisogno di mediatori per parlare alla Siria, all’Iran.
Dobbiamo farlo direttamente.
Fin qui nel Medio Oriente siamo stati troppo reattivi, dobbiamo invece essere più creativi, immaginifici nel cercare di influenzare gli avvenimenti».
Mi faccia un esempio… «Beh, una volta ho detto che se volessimo spaccare Hamas, un alto funzionario della Casa Bianca dovrebbe salire su un aereo e andare a incontrare segretamente Meshal o qualcun altro.
Sono sicuro che entro una settimana Hamas sarebbe lacerata al suo interno.
Una diplomazia attiva crea sempre nuovi spazi, aperture impreviste.
Quanto ai contraccolpi, in questo momento sarebbe difficile per Obama essere più impopolare di così in Israele.
Il nostro regalo a Israele rimane sempre quello di un Paese potente che appoggia con convinzione i suoi interessi.
Ma dobbiamo poter agire in modo più libero e spregiudicato, un po’ come faceva Kissinger.
Nel Medio Oriente l’abilità diplomatica è stata sempre di cavalcare due cavalli allo stesso tempo.
Ecco, noi dobbiamo farlo più spesso».
09 giugno 2010
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