Una straordinaria immagine seicentesca invita a meditare il mistero, al contempo sacramentale ed ecclesiale, del “Corpo di Cristo”, nonché la collocazione liturgica della solennità del Corpus Domini dopo la domenica della Santissima Trinità: la pala della Trinità di Gasparo Narvesa, eseguita come pala d’altare per l’omonima chiesa della città natale dell’artista, Pordenone, su commissione di una confraternita pure essa dedicata al Dio uno e trino.
Ideata per un altare, la pala fa vedere – subito sopra il livello della mensa su cui il dipinto doveva poggiare – un sacerdote in ginocchio che indossa i paramenti liturgici e tiene in mano l’ostia consacrata; intorno a lui, similmente inginocchiati, sono i membri della confraternita nel loro saio rosso, con lo stendardo e i ceroferari professionali.
Quando si celebrava la messa, all’elevazione dell’ostia si veniva così a creare una doppia immagine: il celebrante vero all’altare vero e i confratelli nella chiesa vera, e poi gli stessi raffigurati in preghiera intorno al sacerdote in adorazione del Corpus Domini sacramentale.
L’intera parte inferiore della pala “fotografava” cioè l’orante raccoglimento dei confratelli e del sacerdote davanti al Cristo eucaristico, rendendo manifesta la loro fede cattolica nella sua reale presenza.
Del resto l’opera fu eseguita appena cinquant’anni dopo il concilio di Trento, nel 1611, e a Pordenone, cioè in un Veneto allora preoccupato di contrastare l’avanzata del protestantesimo.
Nonostante il loro atteggiamento adorante, però, il sacerdote e diversi dei confratelli non guardano l’ostia; alzano piuttosto gli occhi al cielo dove contemplano Cristo inchiodato a una croce presentata al Padre da angeli.
Il volto sofferente del Figlio è girato verso quello compassionevole del Padre e i loro sguardi s’incrociano, mentre appena sopra le due teste aleggia lo Spirito Santo in forma di colomba.
È a questo secondo livello della composizione, infatti, che il vero messaggio dell’immagine diventa chiaro: non solo la fede eucaristica dei confratelli, ma la messa celebrata all’altare sottostante come espressione terrena di una liturgia celeste in cui il corpo crocifisso del Figlio è per l’eternità offerto al Padre in sacrificio gradito.
Il carattere specificamente “sacrificale” dell’offerta di sé compiuta da Cristo – e quindi anche della messa che ne rende presente il contenuto nel pane e vino – viene sottolineato poi dal piviale sacerdotale indossato da Dio Padre.
L’evidente attualità di quest’enfatizzazione dottrinale – della presentazione dell’Eucaristia come “sacrificio” in un’epoca che vedeva contestata tale definizione in ambito protestante – non è però l’elemento nuovo della pala d’altare di Narvesa.
Nuovo piuttosto è l’intenso rapporto interpersonale tra Figlio e Padre visibile sopra l’ostia in mano al sacerdote nel dipinto, e sopra l’ostia e il calice veri ogni volta che si diceva messa davanti all’immagine.
In un periodo in cui il protestantesimo tacciava la messa cattolica di spettacolarità, Gasparo Narvesa presenta l’ostia adorata dai confratelli come reale presenza dell’obbedienza del Figlio, che aveva pregato perché gli venisse tolto il calice della passione, accettando però la volontà del Padre (Luca, 22, 42); e dell’amore di Questi, che al suo Figlio rifiutò tale grazia.
San Paolo spiegherà il rifiuto del Padre della preghiera di Gesù dicendo che lo stesso Dio che aveva risparmiato Isacco, figlio di Abramo, “non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha dato per tutti noi” (Romani, 8, 32), e il quarto Vangelo specificherà che “Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto ma abbia la vita eterna” (Giovanni, 3, 16).
Non a caso, nel dipinto di Narvesa Dio Padre tiene una grande sfera di cristallo davanti al Figlio come per dire a Lui: “Ti chiedo di accettare la morte perché il mondo che ho creato possa vivere!”.
Così l’Eucaristia, che è il soggetto palese della pala, è rivelata come luogo della preghiera non solo dei cristiani ma di Cristo stesso e perfino del Padre: luogo di profonda e spesso sofferta comunione.
Il sacerdote nella parte inferiore del dipinto, e quelli tra i confratelli che alzano gli occhi, capiscono che l’ostia eucaristica racchiude tutto il mistero di Dio: del Padre che chiede la vita al Figlio; del Figlio che la dà; e dello Spirito che li unisce e che nel dipinto è la forma visibile della loro comunione.
Lo Spirito.
Nella messa un tempo celebrata davanti al dipinto sembrava scendere sulle offerte – sul pane e sul vino – come anche sugli offerenti: sul celebrante e sui confratelli cioè.
Anche a questo si riferiscono gli sguardi innalzati e gli atteggiamenti di adorazione dei personaggi nella parte inferiore del dipinto alla loro attesa di ricevere lo Spirito Santo.
Ma ecco il senso pieno dell’immagine: la messa è il luogo principe della preghiera cristiana perché nella messa scende lo Spirito, e – come afferma san Paolo – “lo Spirito viene in aiuto alla nostra debolezza; non sappiamo infatti come pregare in modo conveniente, ma lo Spirito stesso intercede con gemiti inesprimibili; e colui che scruta i cuori sa che cosa desidera lo Spirito, perché egli intercede per i santi secondo i disegni di Dio” (Romani, 8, 26-27).
Nella messa lo spirito ci insegna ad avere in noi “gli stessi sentimenti di Cristo Gesù” (Filippesi, 2, 5), e, di fatto, scendendo nel pane e vino per farli diventare corpo e sangue di Cristo, scende in quanti mangiano e bevono di Cristo per farli diventare “come Cristo” e vivere così la stessa comunione con il Padre che Cristo vive, una comunione di preghiera in cui il Padre chiede certe cose a noi, e noi altre cose chiediamo a Lui, accettando tuttavia – come Cristo accettò – di fare non la nostra volontà ma quella di Dio.
Questa è preghiera vera e sicura, la preghiera di cui Gesù disse: “Chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto.
Perché chiunque chiede riceve, e chi cerca trova, e a chi bussa sarà aperto” (Matteo, 7, 7-8).
A chi chiede di diventare come Cristo, sarà data questa grazia; chi cerca Cristo lo trova; a chi bussa alla porta che Cristo è viene aperta la via verso il Padre.
Anche l’ultimo livello del dipinto di Gasparo Narvesa rientra in questa logica “orazionale”.
Rappresenta Maria, a sinistra, raccolta in preghiera davanti a una Trinità di figure larvate, mentre a destra l’arcangelo Michele scaccia a spada tratta i demoni dal cielo.
La fonte sembra essere il capitolo dodici dell’Apocalisse, in cui l’autore, Giovanni, vede una donna incinta che grida per le doglie e un drago che minaccia di divorare il bambino appena l’avesse partorito.
Ma il bambino, un figlio maschio, quando nacque “fu rapito verso Dio e verso il suo trono”, mentre la donna fuggì nel deserto dove Dio le aveva preparato un rifugio.
“Scoppiò quindi una guerra nel cielo: Michele e i suoi angeli combattevano contro il drago.
Il drago combatteva assieme ai suoi angeli, ma non prevalse e non vi fu più posto per loro in cielo” (cfr.
Apocalisse, 12, 1-8).
Nel dipinto vediamo la donna nel “rifugio” preparatole, adorante Dio Padre, Dio Figlio e Dio Spirito.
Vediamo la vittoria di Michele e i suoi angeli contro il “drago” con i suoi seguaci, tutti raffigurati come demoni alati.
E vediamo il figlio della donna, Gesù Cristo, “rapito verso Dio e verso il suo trono” (faccia a faccia col Padre nell’obbedienza della croce), mentre sotto il corpo di Cristo crocifisso, intorno all’ostia che racchiude questo dramma cosmico, sono i partecipanti alla sua vittoria descritti nel prosieguo del testo apocalittico: “Ora si è compiuta la salvezza, la forza e il regno del nostro Dio, e la potenza del suo Cristo, perché è stato precipitato l’accusatore dei nostri fratelli, colui che li accusava davanti al nostro Dio giorno e notte. Ma essi lo hanno vinto grazie al sangue dell’Agnello” (Apocalisse, 12, 11a).
I confratelli cioè, che nella messa condividono sia la lotta di Cristo che la sua vittoria, nel mistero della Communio sanctorum vengono associati anche al trionfo dei martiri; ricordiamo che l’altare, dove l’opera stava, doveva contenere reliquie di martiri dei primi secoli cristiani.
(©L’Osservatore Romano – 6 giugno 2010)
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